La decrescita limiterà la libertà?

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22 Luglio 2010 - 20.19


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Proponiamo alcune riflessioni suscitate dal recente articolo di Marino Badiale e Massimo Bontempelli, “Due vie per la decrescita“.

Il tema della decrescita e dei suoi costi reali per gli individui e le società nel loro assetto attuale si presenta come un grande sconvolgimento non indolore e ricco di implicazioni sulle libertà delle singole persone, sui ruoli di genere e l”assetto delle relazioni sociali e parentali.

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I costi inevitabili della decrescita

di Giuliana Cupi.

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Scrivo in riferimento all”articolo pubblicato da «Cometa» e ripreso da Megachip e infine da «Fabio News», di cui sono anche redattrice.

Innanzitutto desidero segnalare quanto da me scritto al proposito ben quattro anni fa: http://troppagrazia.ilcannocchiale.it/2006/06/22/antiquata_modernita.html.

Benché argomentato in ben altro modo, il succo del discorso è lo stesso: la decrescita dev”essere un progresso, ma rischia, nell”enunciazione che ne fa Pallante a proposito del welfare, di apparire come un regresso e lo dico a maggior ragione in quanto donna e quindi teoricamente più “colpibile” da un discorso che riconduce alla centralità economico-sociale della famiglia allargata.

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Credo però che sia necessario spingere oltre l”analisi e affrontarne le conseguenze. Badiale e Bontempelli spiegano come si potrebbe conciliare riduzione del PIL ed esigenze moderne (nel senso che si dà alla parola nel loro scritto) facendo l”esempio dell”asilo gestito a turno dai genitori che abitano lo stesso condominio (o isolato, aggiungerei io).

Ora, sorvoliamo sulle difficoltà presentate dalla riduzione dell”orario di lavoro, dalla conciliazione dei turni, dalla disponibilità di uno spazio sufficiente a ospitare numerosi bambini contemporaneamente data la ristrettezza di molte situazioni abitative urbane: che differenza c”è tra questa soluzione e quella del ritorno alla famiglia allargata? Che, mi si dirà, quello costituito da vicini per prossimità geografica e ideali è un nucleo elettivo, come ben dimostrano gli oggidì numerosissimi casi di condomini solidali e cohousing; quella di sangue, no. Indubbiamente, ma poi?

A me pare che la risposta possa essere: nessuna. Se il problema della famiglia allargata di preindustriale era il suo tasso di repressività, e possiamo ben dire che lo era, altrettanto si può dire di quelle postmoderne. Certo, in quest”ultimo caso si può sperare che alla coercizione si sostituisca una libera scelta, ma rimane il fatto che entrambe le soluzioni contemplano come inevitabile la limitazione della libertà dell”individuo.

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Direi che il vero nodo critico di tutta la teoria della modernità sta proprio qui. In un individuo che, educato o forse illuso da dottrine spesso funzionali più che altro a scopi di profitto, dà per scontato e pretende di essere completamente libero, dimenticando che questa condizione contempla le più grandi responsabilità.

Il mio, si badi, è ben lungi dall”essere un assunto meramente filosofico, perché quanto appena affermato ha pesanti ricadute pratiche: basti pensare all”ecologia e a quanto questa malintesa “libertà” ne sia la maggior nemica. Come pretendere che dei bravi cittadini titolari di tutti i diritti limitino i loro consumi e il loro peso sull”ambiente in termini di inquinamento e depredamento delle risorse? Non si può certamente, o meglio non si può ORA; si attende di farlo per via autoritativa quando l”acqua o il consumo di energia elettrica dovranno essere contingentati eventualmente anche manu militari.

Allo stesso modo, nella dialettica pro o contro welfare bisognerebbe avere l”onestà intellettuale di dire che ogni possibile via d”uscita “decrescente” comporterà necessariamente la perdita di una parte (piccola, si spera; sopportabile, ci si augura) di libertà individuale. E” infatti chiaro che, se la teoria della decrescita ha una lezione da impartirci, è che è proprio questo il punto su cui, per il bene comune e quindi anche per il nostro personale, è necessario che cominciamo a ridimensionarci.

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Le piccole libertà della decrescita

di Fabio Bovi.

Le riflessioni di Giuliana Cupi sull”articolo di Bontempelli e Badiale mi spingono ad alcune considerazioni. Seppure ritenga molto interessanti le osservazioni di Giuliana, io non credo che la decrescita sia necessariamente una limitazione alle nostre libertà né tantomeno credo sia inevitabile trasferire il peso del welfare dallo stato ai singoli (o a piccoli gruppi, siano famiglie allargate o condomini solidali).

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Riprendendo le analisi di Sbilanciamoci, risulta infatti ben possibile mantenere i servizi alla collettività ai livelli attuali anche soltanto “spostando” le risorse dalle voci di bilancio come la guerra (erroneamente chiamata ancora “difesa”) verso i servizi sociali.

Lo stato deve riprendere il controllo di quei settori fondamentali per l”economia del paese (come sta avvenendo in America Latina con le nazionalizzazioni boliviane-venezuelane per esempio) e deve riappropriarsi di strutture produttive in grado di generare reddito e garantire livelli occupazionali, in modo da riassumere un ruolo forte nei confronti dei privati.


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Sempre rivolgendo lo sguardo verso l”America Latina non possiamo non renderci conto di come anche una realtà povera e strangolata dall”embargo economico quarantennale come Cuba riesca a fornire dei servizi sociali di elevato livello qualitativo anche se la sua economia è da sempre basata sull”«impossibilità di crescere» (e sia costretta a investire enormi risorse nella “difesa” visto che la possibilità di una nuova “Baia dei Porci” è costantemente presente).

Non parlo solo della sanità cubana, la cui eccellenza è riconosciuta a livello internazionale, parlo anche dei servizi alle famiglie, degli asili che permettono alle madri (spesso senza una famiglia alle spalle) di poter continuare a vivere e lavorare, parlo dell”educazione gratuita e universale…

Se pensiamo proprio alla situazione delle donne (che come osserva giustamente Giuliana Cupi sarebbero le più penalizzate da un ritorno alle famiglie allargate), il caso di Cuba ci dà da pensare, quando la crescita non appare così necessaria per garantire libertà.

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Donne sole a Cuba sono in grado di studiare, fare carriera e allo stesso tempo farsi una famiglia e crescere i propri figli senza problema alcuno, poiché uno stato forte le tutela e le fornisce tutti i servizi necessari (ricordo un articolo di Gennaro Carotenuto: “Tutte le cubane sono puttane”).

Se ci riesce Cuba, perché non potremmo farlo in Italia, dove la ricchezza è molto superiore?

Non credo sia quindi una questione legata così strettamente alla crescita-descrescita, ma piuttosto alla priorità che i servizi sociali assumono nella decisione di come investire le risorse.

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Un”ultima considerazione va poi al giudizio sulla famiglia allargata … siamo sicuri che debba essere vissuta come cosa negativa?

Io vivo in una casa “di famiglia” con i miei genitori e mia sorella…

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Abbiamo un giardino ed un orto comune che curiamo collettivamente. Ci scambiamo il favore di guardarci vicendevolmente i figli, farci la spesa (spesso in comune), fare le commissioni…

I nonni sono quelli che più di altri limitano la propria libertà per stare dietro alla famiglia ma sono appagati dal fatto di vivere con noi, condividere le gioie dei nipoti, al punto di essere spesso “invidiati” dai loro amici.

Qualche limitazione c”è di sicuro, ma personalmente la vivo come una grandissima fortuna e i vincoli sono cotrobilanciati da “libertà” che non avrei se vivessi da solo. Se crediamo alla decrescita infatti dobbiamo cambiare anche il nostro metro di valutazione. Se consideriamo importante e appagante condividere l”affetto dei nostri cari più che comperarsi un nuovo cellulare, la famiglia allargata non può essere vissuta come una negatività.

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Io sarei disponibile da subito a rinunciare a parte del mio stipendio per poter passare più tempo con i miei figli (e l”ho fatto finché ho potuto, usufruendo dei “permessi parentali” e lavorando 4 giorni a settimana per due anni). Non la vivrei sicuramente come una limitazione della mia libertà, anzi.

Credo che sia da considerare anche questo aspetto nelle valutazioni di Pallante.

 

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Una risposta

di Giuliana Cupi

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Intanto sono davvero felice che finalmente nasca un dibattito dal nostro intenso scambio di notizie e informazioni. Poi cercherò di spiegare il mio pensiero.

Premesso che più vado avanti più – specialmente in considerazione dello sfacelo ecologico, economico e sociale che avanza compatto – mi convinco che, se abbiamo una speranza (come umanità, come mondo), questa stia nell”aumento della coscienza e della responsabilità del singolo. Coscienza e responsabilità che possono essere istruite, aiutate, formate, indirizzate, convogliate e via dicendo finché si vuole, ma che comunque – per aumentare e cambiare davvero le cose – necessitano della volontà del loro titolare. E ognuno è titolare delle proprie, su questo penso tutti possiamo essere d”accordo.

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Per questo sono allergica alle verità e alle giustizie che vengono dall”alto: perché sono tali e non sono il frutto di una maturazione del singolo, ma di una coercizione: punterà pure verso obiettivi sacrosanti finché si vuole, ma che sempre coercizione resta, e non lascia prevedere cosa potrebbe diventare il giorno in cui dovesse finire – e tutto quello che c”è su questa Terra prima o poi finisce. Come dice Hegel, la virtù è la conseguenza dell”incontro con il male e della deliberata intenzione di non perseguirlo ed è moralmente ben superiore all”innocenza.

Ecco perché l”esempio proposto da Fabio non mi convince del tutto: premetto pure che io a Cuba non ci sono mai stata, quindi parlo per quello che ne so da spettatrice esterna e sono disponibile a cambiare opinione se dovessi averne una conoscenza di prima mano; ma mi risulta che al di là dell”embargo – che ovviamente non condivido – un problema di libertà personale a Cuba ci sia. Dal mio punto di vista, nessun miglior mondo possibile è tale se non è scelto tra altre opzioni, magari anche meno virtuose.

A Cuba contrapporrei perciò altri modelli, in prima istanza quelli delle socialdemocrazie del Nord Europa, in cui il welfare è notoriamente molto sviluppato grazie soprattutto al forte senso di comunità radicato nella popolazione, qualcosa che in Italia forse solo in alcune piccole e felici oasi si può immaginare. Un senso di comunità che fa sì, per esempio, che l”evasione fiscale sia molto inferiore che da noi, dove basterebbe una seria azione in tal senso per migliorare i servizi senza toccare il PIL – cioè, toccandolo, ma nel senso di far saltar fuori un bel po” di taciuto alle statistiche ufficiali. Dopodiché sono naturalmente d”accordo sul fatto che oltre a questo è necessario distogliere risorse da direzioni che servono a pochi (spese militari, foraggiamenti a industrie ormai fallimentari, etc.) e usarle per cose che invece servono a molti.

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Mi riallaccio a quanto sopra per chiarire infine il mio pensiero in fatto di famiglie allargate. Nel pensiero di Pallante l”idea è che del welfare si possa fare a meno, almeno in parte se non del tutto, appoggiandosi ai propri consanguinei, ma questa situazione spesso rischia di diventare analoga ai casi in cui si pratica la virtù per forza: è il caso in cui dalle proprie origini è purtroppo necessario prendere le distanze per motivi di autotutela personale (psicologici, emotivi, spirituali e in certi casi di incolumità fisica).

L”esperienza che racconti, Fabio, descrive la fortuna preziosissima, la tua, dell”essere inserito in un ambiente armonioso, dove i buoni rapporti e la solidarietà sono la regola. Ne sono felice per te e per tutti voi.

Ma spesso non è così, e il fatto di dover rimanere invischiati in rapporti deleteri – economici oltre che personali – crea un groviglio di costrizioni che non difficilmente porta a conseguenze tragiche (di cui purtroppo le cronache sono piene). L”esistenza di servizi esterni e quindi neutri è una valvola di sicurezza salvifica in questi casi, come pure – riprendo sempre l”esempio da Pallante – il fatto di fare un lavoro purchessia, che lui giudica immeritevole di del sacrificio di affetti e cure familiari. A volte un lavoro del genere – insulso, noioso, per nulla in grado di arricchire l”interiorità di chi lo fa – rappresenta purtuttavia la possibilità di fuggire da veri inferni domestici nonché di coltivare la speranza di costruirsi un”esistenza decente. E”, in poche parole, una possibilità di scelta che la sola famiglia di nascita non offre, perché se con quella ti va male che fai? Ed è una scelta offerta anche dalle famiglie “elettive”, che presentano il vantaggio di essere selezionate tra mille compagnie possibili come quelle che meglio promettono di essere il terreno adatto per chi ci va a vivere insieme, sottoponendosi anche (ma stavolta volontariamente) a limitazioni della propria autonomia.

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