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di Gabriele Battaglia.
Venerdì scorso, la scossa di 8.9 gradi Richter che ha devastato il nordest del Giappone ha fatto ondeggiare i grattacieli di Tokyo pochi attimi prima che la borsa chiudesse, condizionandone comunque la performance. Certo, l”indice Nikkei sui futures ha perso tre punti, ma nonostante non si sapesse ancora dello tsunami, il settore delle costruzioni già faceva un bel balzo in alto, con le azioni di alcune compagnie edili delle aree più colpite che registravano fino a più trenta per cento.
Quando Tokyo ha chiuso e le notizie provenienti dal Sol Levante si sono diffuse nel mondo, le borse hanno cominciato a comportarsi schizofrenicamente, con Wall Street, buona ultima per questioni di fuso orario, che registrava addirittura una rivalutazione dello yen. La ragione? Capitali giapponesi – cioè yen, appunto – che tornano a casa per la ricostruzione.
E tanto per complicare il quadro complessivo, il prezzo del petrolio è sceso su tutti i mercati mentre quello del gas è salito. Per il primo si teme una battuta d”arresto dell”economia del Giappone, terzo consumatore mondiale; nel caso del secondo, al contrario, si prevede che il Sol Levante ne utilizzerà di più per sopperire alla probabile riduzione di energia nucleare disponibile.
Primo: economia di carta (leggi “finanza“) ed economia reale sono interlacciate attraverso mille nessi imperscrutabili ai più.
Secondo: il disastro umano e sociale dell”accoppiata terremoto-maremoto potrebbe avere esiti imprevedibili, sul medio-lungo periodo, per l”annaspante economia giapponese e per quella planetaria tutta.
Nel quarto trimestre del 2010, il Pil del Sol Levante aveva registrato una contrazione dell”1,3 per cento. Oggi, non pochi analisti ritengono che il boom delle (ri)costruzioni trainerà l”economia nipponica così come avvenne già all”indomani di Hiroshima e Nagasaki. Una crescita alla cinese, insomma, con una differenza. Oltre Muraglia, edilizia e infrastrutture, anche se in odore di bolla, sono comunque trainate dalla richiesta abitativa di una moltitudine spinta a migliorare i propri standard di vita. In Giappone invece, con la violenza della natura, si dispiega quella del capitale: la distruzione diventa occasione per un nuovo processo di accumulo e può apparire tutto sommato, a qualche occhio capitalista, una buona notizia.
Nell”immediato, si prevede però una contrazione dell”economia. Alcune fabbriche sono chiuse, la produzione ridotta, le comunicazioni rallentate. Un destino beffardo per gli inventori del modello Toyota, del just-in-time, l”idea cioè che per aderire meglio alle richieste di un mercato finito e volubile, non si debba tenere merce in magazzino, ma farla circolare al massimo di velocità ed efficienza per arrivare là , dove c”è domanda, prima e meglio di altri.
Oggi non cӏ merce da far circolare e, qualora ci fosse, non la si porterebbe da nessuna parte. Bisogna leccarsi le ferite e poi, piano piano, ripartire. Ricostruire, appunto.
Forse magazzini un po” più pieni sarebbero serviti a contrastare un”altra emergenza che già si intravede. E qui le ricadute sono planetarie. La distruzione, specialmente lo tsunami, ha infatti inferto un duro colpo alla produzione di riso, di cui il Giappone è uno dei maggiori consumatori mondiali (9 milioni di tonnellate). Finite le scorte, Tokyo importerà massicciamente, dando ulteriore impulso al prezzo delle commodities e all”inflazione alimentare, figli del global warming e della speculazione globale.
È in virtù di questo nesso economico che terremoto fa rima con intifada, tsunami con rivolta del pane.
Si dice, nella teoria del caos, che il battito d”ali di una farfalla in Brasile può scatenare un uragano in Giappone. Oggi, in direzione contraria, un terremoto nel nordest del Sol Levante può far approdare un barcone di migranti africani a Lampedusa.
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Fonte: www.peacereporter.net.
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