Uscire dalla crisi si può. Ma che succede in Cina?

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5 Settembre 2011 - 10.27


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di Aldo Giannuli.

In vista dell”imminente recessione, diversi osservatori, ancora una volta, hanno rivolto lo sguardo a Pechino nella speranza che di lì venga la salvezza. Ma questa volta le cose non stanno affatto bene e Santo Hu di miracoli non ne farà.  In primo luogo la Cina non sta così bene come molti pensano, neanche dal punto di vista del debito pubblico, perchè, se è vero che le cifre ufficiali (quindi sicuramente sottostimate) parlano di un debito al 17% del Pil con riferimento al solo Governo (1.078 miliardi di dollari), è anche vero che le amministrazioni locali hanno accumulato debiti molto più consistenti:

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alcuni analisti parlano di 3.000 miliardi che porterebbero il tasso di debito pubblico complessivo all”80% del Pil. Può darsi che la stima sia eccessiva, ma è ragionevole supporre che il conto sia comunque molto più salato dei 1.000 e rotti miliardi ufficiali.
E questi sono debiti cresciuti in tre anni, dopo le iniezioni di liquidità volute da Zhou Xiaochuan (il capo della banca centrale cinese) nel dicembre 2008, per far fronte alla crisi.
Gran parte di quel denaro è poi finito in affari edilizi uno più sballato dell”altro, alimentato dal flusso di denaro che viene dal nord del mondo (sotto forma di ricavi delle esportazioni, ma anche di investimenti stranieri) e favorito dalla corruzione dilagante dei quadri intermedi del partito e delle amministrazioni locali.

A questo si aggiunge l”inflazione che si è infiammata: le cifre ufficiali parlano di valori intorno al 6-7% con una tendenza al rialzo, soprattutto dalla seconda metà del 2010, ma questa cifra (peraltro inferiore alla realtà) dice poco se non ci si guarda dentro.

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Il primo elemento riguarda la crescita del prezzo degli immobili che è cresciuto a livelli tali per cui il sogno del ceto medio della “casa in proprietà” (almeno per ora) è svanito. E” ormai chiaro che una bella quota di quegli investimenti finirà a carte quarantotto, perchè siamo in piena bolla immobiliare che, prima o poi esploderà (e tutto fa pensare piuttosto prima che poi) con tutte le ovvie ripercussioni anche in termini di consenso politico al sistema.

Il secondo -e più pericoloso-elemento è che l”inflazione ha colpito in particolare i generi alimentari, con punte del 9,5% ufficiale per il riso e del 14,3% per il maiale, che sono la base dei consumi alimentari della popolazione.

Il malcontento dilaga ed inizia ad esprimersi in forma di rivolte popolari sempre più frequenti: una ricerca dell”Università Nankai ha stimato che, nel 2009, sono state registrate in tutto il Paese circa 90mila sommosse popolari. Nel 2007 – secondo l”Accademia Cinese di Scienze Sociali – erano state 80mila, 20 mila in più rispetto all”anno precedente. Dunque il trend è in evidente ascesa. In luglio sono ripresi gli scontri con gli uiguri nel Xinjiang, causando una ventina di morti e molte decine di feriti. Poi, l”11 agosto, si è acceso un nuovo focolaio di rivolta nella provincia sudoccidentale del Guizhou: a seguito di un incidente assolutamente marginale si sono sviluppati  scontri furiosi con la polizia culminati nell”incendio di 5 volanti e  nella distruzione di altre 10.

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In febbraio una ondata di scioperi ha colpito le città costiere meridionali.
Le autorità cercano di minimizzare e di spiegare tutto come episodi di criminalità, ma in realtà è evidente che si tratta di malcontento popolare, per il peggioramento delle condizioni di vita. Gli aumenti salariali del 20% decisi un anno fa sono già stati polverizzati dalla vampata di inflazione. Nel 2005 Hu Jintao aveva lanciato una campagna per la riduzione delle diseguaglianze sociali, poi il sopraggiungere della crisi  ha travolto quel programma ed ha accentuato come mai prima il divario fra le classi abbienti e quelle popolari e fra le regioni interne e quelle costiere. Oggi la Cina è un paese che si sta pericolosamente polarizzando con rischi interni crescenti.

Il problema che sta di fronte ai dirigenti di Pechino è come quadrare il cerchio fra la lotta all”inflazione, lo sviluppo del mercato interno ed il mantenimento degli obiettivi di potenza. In effetti, il XII piano quinquennale, da poco presentato, si pone fra gli obiettivi prioritari quello di incrementare la spesa familiare interna, per cui questa dovrebbe essere la linea di condotta principale. Ma le cose non sono così semplici come potrebbe sembrare. In primo luogo, allargare i cordoni della borsa e lottare contro l”inflazione sono cose incompatibili fra loro: aumentare i salari significa anche aumentare la domanda sul mercato interno e, se questo va nella direzione della crescita del mercato interno, significa anche far aumentare i prezzi. Conciliare le due cose (più consumi e stabilità dei prezzi) è riuscito agli Usa negli anni Novanta -durante le due presidenze Clinton- ma questo fu dovuto al rafforzamento del dollaro sul mercato valutario ed alla contemporanea disponibilità di merci a buon mercato fornite dagli allora paesi in via di sviluppo (in primo luogo la Cina).

E, peraltro, pose le premesse per le bolle finanziarie che sarebbero esplose a fine secolo. Ma la Cina di oggi non ha una Cina che gli fornisca le merci di cui ha bisogno o meglio, quelle merci deve farle da sè, pagando di più la forza lavoro. Ed il cerchio si chiude.

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Resta un”altra strada: quella della rivalutazione dello yuan che avrebbe una serie di effetti positivi: innanzitutto, renderebbe meno costoso l”acquisto di materie prime -il petrolio in primo luogo- di cui la Cina ha bisogno. Considerato che i 1.400 miliardi delle importazioni rappresentano il 40% del Pil cinese, si capisce quale sarebbe la portata di una misura del genere. In secondo luogo, la rivalutazione dello yuan renderebbe meno convenienti gli investimenti in dollari nel paese e questo proteggerebbe la Cina da una nuova alluvione di dollari -con conseguente spinta inflattiva- nel prevedibile caso di un terzo Quantitative easing della Fed. Dunque, tutti effetti di raffreddamento dell”inflazione anche in presenza di una espansione dei consumi interni.

Per di più, la mossa avrebbe anche l”effetto indiretto di stabilizzare il dollaro, rallentandone la caduta (che è stata del 10% sull”euro  e del 6% sullo yuan nell”ultimo anno): essendo la Cina il massimo possessore esterno di riserve in dollari, si capisce quale possa essere l”interesse a questo rallentamento. Certo, questo non faciliterebbe le esportazioni, ma occorre anche considerare che il rifiuto di rivalutare lo yuan ha provocato un suo deprezzamento relativo all”euro ed  allo yen (se il dollaro ha perso il 10% sull”euro ed il 6% sullo yuan, vuol dire che lo yuan ha peso il 4% sull”euro), dunque ci sarebbe qualche margine per rivalutare senza perdere competitività sul mercato europeo e su quello giapponese, compensando qualche perdita sul mercato americano.

E la quadratura del cerchio potrebbe essere trovata, anche se con qualche aggiustamento in corsa.
Ma anche questa manovra è tutt”altro che sicura. Ad esempio: se l”euro saltasse in aria (circostanza non ancora probabilissima, ma non certo impossibile) la rivalutazione dello yuan potrebbe determinare un disastro senza precedenti nelle esportazioni.

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Dunque, come procedere ed in che misura, eventualmente, procedere alla rivalutazione? E come agire per evitare il collasso dell”Euro?
Domande di risposta non facile ed immediata. E questo sta logorando l”unità del gruppo dirigente. Oggi il solo che punti sino in fondo sulla priorità della crescita interna sembra Wen Jiabao, ma gli altri massimi dirigenti sembrano più preoccupati di mantenere gli obbiettivi di potenza perseguiti tanto attraverso lo sviluppo del programma militare (a luglio è stato ufficializzato il varo della prima portaerei cinese, la ex Varjiag della flotta russa) quanto attraverso il gioco di investimento sui bond americani, europei e giapponesi.

La Cina ormai ha un surplus della bilancia commerciale di 300 miliardi di dollari all”anno, ma questo non può essere un dato eterno o, più semplicemente, che duri ancora per molto. Di qui l”esigenza di puntare essenzialmente sul mercato interno per ottenere uno sviluppo stabile e duraturo. I cinesi -dopo averlo negato per molti anni- stanno ripetendo l”errore della Germania guglielmina e di tutti i paesi a sviluppo accelerato: fare dell”export uno strumento per l”affermazione della propria politica di potenza. Di solito finisce male.

Altri segnali fanno pensare che il gruppo dirigente sia attraversato da altre linee di divisione. Ad esempio, mentre è ormai scontata la successione di Xi Jinping ad Hu Jintao, sembra appannarsi la stella di Li Keqiang e la strana vicenda della falsa notizia della morte di Jiang Zemin ha lasciato intravedere scenari meno scontati per il prossimo congresso che, con ogni probabilità non sarà un “pranzo di gala”.

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Fonte: http://www.aldogiannuli.it/2011/09/ma-che-succede-in-cina/.

 

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