I tre moschettieri della Crescita

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4 Marzo 2012 - 15.26


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di Piergiuseppe Mulas.

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Recentemente sono comparsi diversi articoli sulla stampa cosiddetta mainstream, anche a firma di autorevoli opinionisti, che hanno preso di mira la decrescita e i suoi sostenitori. La decrescita secondo loro non sarebbe altro che una sorta di moda da ambiente radical-chic, appoggiata da persone che ben al riparo dai contraccolpi della recessione benedicono l”astinenza altrui come soluzione dei problemi economico-ambientali.

Prima di procedere ad una critica di questa visione assai angusta e approssimativa, è doveroso fare una premessa: i critici della decrescita hanno buon gioco a portare avanti la loro operazione perché anche tra gli adepti della decrescita la confusione spesso e volentieri regna sovrana.

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Millenaristi, Savonarola della porta accanto, Verdi appassiti, calvinisti vari e da buon ultimo anche qualche personaggio dello showbiz, si sono scoperti convinti assertori della decrescita senza sapere bene cosa fosse. Molti di coloro che in un modo o nell”altro possono essere collocati in una di queste allegre (si fa per dire) combriccole tendono ad elogiare la recessione perché pensano che porterà con sé dei costumi più morigerati. Questa tendenza è stata efficacemente e brillantemente zimbellata da Alberto Bagnai, oltre che criticata apertamente anche dallo stesso Latouche.

Chiarite quali sono le responsabilità di alcuni degli stessi decrescisti occupiamoci degli articoli in questione. Ci occuperemo dei pezzi di Stefano Feltri, Antonio Pascale e Filippo Zuliani. Se ogni critica alle inesattezze dei decrescisti male informati è sacrosanta e anzi doverosa, appare però grave che i tre moschettieri della crescita cadano nello stesso errore di coloro che vogliono criticare. E precisamente anche loro dimostrano di non conoscere l”oggetto del dibattito.

Quindi parafrasando il Giovanni Lindo Ferretti dei tempi dei CCCP, che si divertiva a ricordare come “I soviet più l”elettricità non fanno il comunismo”, anche noi molto più modestamente vorremo segnalare che l”orto più la bicicletta non fanno la decrescita. Le obiezioni che vengono mosse rientrano infatti all”interno dei più triti luoghi comuni sulla decrescita, ignorando completamente il fatto che dietro lo slogan decrescita si situa un composito e ricco mondo di economisti, sociologi, antropologi e fisici rinomati [1] uniti dalla critica all”ideologia della crescita.

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Vediamo di analizzare alcune delle inesattezze, quando non si tratti di vere e proprie cantonate. Alcune sono comuni ai tre autori, e possono essere così riassunte:

1) I decrescisti ci vogliono ridurre a vivere come nel Burkina Faso.

In realtà ci ritroveremo a vivere come nel Burkina Faso se seguiamo le ricette della crescita, visto che le risorse ancora disponibili verrebbero sprecate nella produzione di merci di dubbia utilità, anziché essere destinate alle opere necessarie alla transizione alla società post idrocarburi. Come insegna la storia, molte delle società del passato sono tracollate proprio al momento del loro massimo splendore perché non riuscivano più a gestire la complessità alla quale avevano dato vita [2]. Si legga l”interessante analisi di Ugo Bardi sulla caduta dellimpero romano. Nessuno dei tre nega che il problema delle risorse potrebbe presto diventare pressante (bontà loro), ma davanti a questa ipotesi le soluzioni che essi propugnano sono inesistenti o di una pochezza intellettuale tale da lasciare sbigottiti. Zuliani in particolare scrive che nonostante decenni di stime, modelli e predizioni non sappiamo esattamente quante risorse *sfruttabili* ci siano sul pianeta […] Certo, può essere che l”avanzamento tecnologico abbia un limite. E può anche essere che di petrolio ne resti davvero poco poco, e che il mondo non abbia pronto un rimpiazzo adeguato quando arriverà il momento. Può essere che accadano tante cose, anche tremende, capaci di far collassare il mondo come lo conosciamo – guerre, asteroidi, carestie – nessuna delle quali impossibile. Semplicemente non sappiamo cosa ci attenderà domani e di conseguenza non sappiamo come comportarci oggi. Alla fine, la decrescita si configura come una filosofia dominata dalla paura dell”ignoto, in cui dovremmo razionare tutto, da oggi e per sempre, altrimenti domani cosa ne sarà di noi. Proprio questo motivo mi convince che la decrescita rimarrà comunque un movimento marginale e di nicchia per conservatori benestanti: perché pone al suo centro la paura dell”esaurimento delle risorse, in opposizione al sogno di un domani migliore dell”economia produttivista. Intendiamoci, questo non vuol dire che potremo necessariamente sempre mantenere o aumentare il livello di produzione e consumo attuali. Coi limiti fisici della materia non si scherza.

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Zuliani, che a quanto pare è un fisico, dovrebbe ben sapere che non è solo una possibilità che l”avanzamento tecnologico abbia un limite, ma è una certezza. Proprio in quanto fisico dovrebbe conoscere le leggi della termodinamica, che ci dicono che è impossibile convertire tutto il calore in lavoro meccanico, e che perciò per quanto si migliori l”efficienza delle macchine termodinamiche (sulla quali si basa l”economia produttivista) essa andrà prima o poi incontro ad un limite assoluto. A meno che Zuliani non abbia inventato il moto perpetuo e si tenga tutta per sé questa preziosa scoperta.

Inoltre se è esatto dire che non sappiamo con certezza quante risorse ci restano da sfruttare, sappiamo però con sicurezza che l”ammontare è una quantità finita. Ma secondo Zuliani dato che non conosciamo con precisione il minuto e l”ora in cui questo avverrà tanto vale fregarsene. Chi vuol esser lieto, sia, del doman non v”è certezza insomma. Se Zuliani fosse stato chiamato ad interpretare il sogno delle sette vacche grasse e delle sette vacche magre non osiamo immaginare quali direttive di policy avrebbe suggerito. Fortunatamente il faraone aveva altri consiglieri.

2) Una riduzione dei consumi implica una riduzione del reddito e quindi un aumento di disoccupazione e povertà.

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Questa è una convinzione talmente radicata da essere la più difficile da sradicare. Ed in un certo senso è anche vera, se si pensa che la riduzione dei consumi avvenga sotto l”ipotesi rebus sic stantibus. Ma ancora una volta tocca ripetersi e dire che decrescita non è la recessione. La decrescita è un cambio di paradigma sociale e un piano di modifica radicale del modo di produrre, distribuire e consumare.

I debunker della decrescita non sono però neanche in grado di ripetere queste trite e logore argomentazioni senza incorrere in veri e propri strafalcioni. Sempre Zuliani riesce a sostenere che il benessere si misuri attraverso il Pil. Peccato che a nessun economista sia mai venuto in mente di affermare una cosa del genere. Il Pil misura il livello di attività economica che passa attraverso lo scambio monetario, e al massimo si può dire che gli economisti considerino implicitamente che l”aumento del Pil sia correlato positivamente a quello del benessere, il che è comunque una cosa completamente diversa dal sostenere che il Pil sia una misura diretta. Peccato che da una decina d”anni in qua sia sempre crescente il numero degli economisti che ha notato come in realtà questa correlazione non sia positiva, ma nulla.

Il cosiddetto paradosso di Easterlin testimonia proprio questo: aumento del Pil e del benessere sono correlati solo per livelli molto bassi del reddito, e questo non è certo il caso dei paesi industrialmente avanzati. Pascale scomoda addirittura Keynes per farci sapere che il reddito dipende dagli investimenti e dai consumi. Come se i decrescisti abbiano mai negato questa banalità, e non invece puntato l”indice contro la composizione e la qualità di questi consumi e investimenti. Pascale ignora tutto il dibattito sul problema della natura posizionale [3] e difensiva [4] dei consumi, che investe in pieno le nostre società opulente, e perciò non sa che un aumento dei consumi non indica necessariamente un miglioramento delle condizioni di vita, anzi. Come è ripetuto costantemente, è notorio che anche un aumento della vendita di medicinali è un incremento dei consumi, ma difficilmente può essere considerato un sintomo di un accresciuto benessere.

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Non è neanche vero che una riduzione del Pil implichi per forza una diminuzione delle merci scambiate. Facciamo un esempio al riguardo. Se noi analizziamo attentamente le parti di costo di molti prodotti che acquistiamo ci rendiamo immediatamente conto come una parte consistente serve per coprire i costi delle spese in pubblicità. Supponiamo, per la semplicità di calcolo, che la pubblicità rappresenti il 50% del costo di un telefono cellulare. Se la pubblicità fosse proibita il telefono verrebbe a costare la metà, senza che la qualità del prodotto sia minimamente inficiata, dato che essa ovviamente non aggiunge nulla al valore dell”oggetto. Mi si ribatterà, che così facendo coloro che lavorano nel settore pubblicitario finirebbero disoccupati. Il che è vero, ma, supponendo che essi rappresentino il 50% della forza lavoro, potrebbero essere riassorbiti nel settore produttivo, con i turni di lavoro ridotti alla metà per tutti, così come gli stipendi. Si badi che il potere di acquisto reale non è cambiato, perché ora servono la metà di ore-lavoro per comprare lo stesso cellulare.

Ovviamente si tratta di una semplificazione, ma la questione sollevata rimane inevasa da parte dei sostenitori della crescita: perché gli aumenti di produttività non sono destinati ad accrescere il tempo libero anziché la produzione? La vera opposizione a una riforma di questo tipo deriva dal fatto che senza pubblicità la spinta verso il consumo si ridurrebbe in maniera anche maggiore, e quindi le grandi corporation vedrebbero ridotti i loro profitti. Sinceramente ci sembra una richiesta coerentemente liberale, e non certo da Stato etico, richiedere di smettere di pagare persone perché ci dicano cosa comprare.

Non so se questo punto di vista sia quello di un esagitato estremista, ma era sostanzialmente quello di un grande filosofo, che non mi risulta fosse un sovversivo bolscevico, come Bertrand Russell:

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“Supponiamo che, in un dato momento, un certo numero di persone sono occupate nella manifattura degli spilli. Loro producono tutti gli spilli che sono necessari nel mondo, lavorando, per ipotesi, otto ore al giorno. Qualcuno inventa un macchinario grazie al quale lo stesso numero di persone è in grado di produrre il doppio degli spilli: gli spilli sono già così economici che difficilmente ne verranno venduti in numero maggiore se il prezzo viene abbassato. In un mondo in cui prevale il buon senso chiunque sia impegnato nella manifattura degli spilli prenderebbe a lavorare quattro ore invece di otto, e ogni altra cosa procederebbe come prima. Ma nel mondo attuale questo sarebbe considerato demoralizzante. Gli uomini continuerebbero a lavorare otto ore, ci sarebbe una sovrapproduzione di spilli, alcuni imprenditori dichiarerebbero fallimento, e la metà delle persone precedentemente impiegate nella fabbricazione degli spilli finirebbe disoccupata. C”è, alla fine di tutto, la stessa quantità di tempo libero che si poteva ottenere con l”altro piano, ma metà degli uomini sono completamente oziosi, mentre l”altra metà continua a lavorare troppo. In questo modo è sicuro che l”inevitabile maggiore quantità di tempo libero sarà cagione di miseria per tutti anziché essere un”universale risorsa di felicità. Si può immaginare qualcosa di più stupido? [5]

Già, si può immaginare qualcosa di più stupido?

3) I decrescisti vogliono decidere per tutti cosa si può consumare e cosa no.

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Questo è un vero e proprio leit motiv in tutti e tre gli autori, ripetuto in maniera praticamente identica. Insomma i decrescisti vorrebbero costituire una sorta di comitato di salute pubblica che decida la lista della spesa per tutti quanti. Secondo Feltri le idee di Latouche presuppongono addirittura la costituzione di uno Stato totalitario per controllare i comportamenti di consumo. Lo vorremmo tranquillizzare riguardo l”ipotesi da lui paventata che la polizia segreta gli entri in casa per impedirgli di fare la doccia tutti i giorni: l”Australia ha provveduto ad operare dei razionamenti nell”uso dell”acqua senza trasformarsi nella versione moderna del III Reich.

Secondo la teoria dominante, ma anche per l”opinione pubblica corrente, la sovranità del consumatore non può essere messa in alcun modo in discussione, solo gli individui possono decidere cosa comprare e cosa no. Almeno Feltri a differenza di Pascale e Zuliani si rende conto che in realtà anche ora lo Stato interviene per influenzare le scelte degli individui. Infatti scoraggia i consumi socialmente indesiderabili come le sigarette e l”alcool attraverso precise scelte fiscali, mentre altri sono resi addirittura illegali, come gli stupefacenti, alla faccia della sovranità della scelta. E in effetti non c”è nessun bisogno di mettere in piedi nessuno Stato totalitario o comitato di salute pubblica, basta utilizzare i normali strumenti di politica economica in maniera peraltro confacente alle prescrizioni teoriche. Per esempio occorre internalizzare nel costo dei prodotti per quanto possibile le esternalità negative, che invece ora sono scaricate sulle spalle di tutta la società e non sul consumatore finale. Ad esempio i danni dell”inquinamento sono sopportati dalla collettività nel suo insieme, e non solo da chi inquina. Se il costo dell”inquinamento fosse internalizzato è facile supporre che la benzina costerebbe tre o quattro volte di più di quello che già costa, e le somme riscosse utilizzate per rimediare ai disastri ambientali e ai danni alla salute. Ovviamente ciò porterebbe alla fine immediata del commercio globale su larga scala come oggi lo conosciamo.

È da ricordare ai tre moschettieri, che accusano noi di non conoscere le leggi dell”economia, che l”assenza di esternalità è posta come condizione affinché esista un mercato perfettamente concorrenziale, come scoperto da un”economista tutt”altro che rivoluzionario, ma decisamente conservatore, come Pigou. Per cui nessuno vuole vietare niente, ma che le merci siano pagate senza che i costi nascosti siano scaricati sulla società. Se in Lombardia desiderano bere l”acqua siciliana e viceversa basta che siano disposti a pagarla un prezzo “giusto”.

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Sicuramente l”opera di riflessione teorica intorno alla decrescita non può dirsi compiuto, sono ancora molti i tasselli mancanti, ma questo non vuol dire che i limiti dell”ideologia della crescita non siano stati ormai individuati da più parti in maniera significativa. Preferire una via sbagliata solo perché la si conosce bene non è mai stato un bel modo di procedere, e lo potremmo dire ai nostri tre critici anche con una frase di un”economista che tutti loro sembrano tener in gran considerazione, John Maynard Keynes:

“La difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell”evadere dalle idee vecchie, le quali, per coloro che sono stati educati come lo è stata la maggioranza di noi, si ramificano in tutti gli angoli della mente.”

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[1] Tra i critici della crescita si può annoverare anche un premio Nobel per l”economia, Daniel Kahneman.

[2] Si veda anche Tainter, Joseph A (2003. First published 1988), The Collapse of Complex Societies, New York & Cambridge, UK: retrieved 11 October 2011, e Diamond Jared, Collasso, Torino, Einaudi, 2007

[3] I consumi posizionali sono quei consumi la cui utilità decresce in proporzione all”aumentare del numero delle persone che ne usufruiscono. Per questo un”estensione generalizzata del consumo di beni posizionali non migliora il benessere generale, ma lo lascia invariato.

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[4] I consumi privati difensivi sono quei comportamenti che sono adottati come reazione di fronte all”impoverimento cagionato dalle esternalità negative. Per approfondire il tema si veda http://www.econ-pol.unisi.it/bilancini/crisi/infelicità

[5] Citazione tratta dal B.Russell, L”elogio dell”ozio, Longanesi, 2005.


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