Il coraggio di una rivoluzione

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13 Novembre 2012 - 23.35


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di Dafni Ruscetta 5 Stelle Cagliari.

La narrazione della società italiana attuale non è più la nostra narrazione, quella dei numerosi talenti ”bruciati” e dissipati dall”immobilismo autoreferenziale del sistema sociale e politico, dalla sua classe dirigente – di destra e di sinistra. È giunto il momento di cominciare a scrivere delle pagine nuove della storia di questo Paese; è l”ora del cambiamento non soltanto a livello politico ed economico, ma soprattutto sociale, culturale, a partire dai micro-settori della vita quotidiana e occorre, per questo, un grande sforzo.

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Molti di noi sono consapevoli di essere ancora ”vivi”, anche se ci hanno voluto far credere ”morti” nella passività del qualunquismo generalizzato, della cultura dell”apparire, del piacere e del piacersi/auto-compiacersi, del farsi riconoscere, dello sviluppo illimitato e dell”ingenuo fanatismo consumistico, sorretto – ancora una volta – da una costante e pericolosa falsificazione mediatica per impadronirsi dell”immaginario collettivo, per modificarne la dimensione culturale e antropologica.

 

 

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La crisi economica attuale

A quanto pare l”uscita dalla crisi non sarà né rapida né indolore. Il dato di fatto da cui partire è che, nella migliore delle ipotesi, essa durerà ancora a lungo. La politica di rigore recentemente varata dalla gran parte dei governi europei, attraverso un aumento della pressione fiscale, ha provocato anzitutto la caduta della domanda, dei consumi – a causa di una diminuzione del reddito ma anche di un clima di incertezza psicologica – e la conseguente recessione, che a sua volta provoca una diminuzione del gettito fiscale.

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La pressione fiscale, inoltre, in Italia grava in maniera insostenibile non solo sui cittadini, ma ancor più sulle imprese (con un”incidenza che va dal 45% a quasi il 70%), che di conseguenza non investono più in produttività e in occupazione. Inoltre, a causa del credit crunch, quando cioè le banche non concedono più prestiti, la piccola e media impresa, che rappresenta il volano economico del nostro paese, non dispone più delle risorse e dei capitali necessari per far fronte alle necessità, così circa 11.000 aziende hanno chiuso per fallimento solo nel 2011. Il tasso di disoccupazione giovanile nel Meridione è salito al 45%, il doppio del Nord (22%) e la media nazionale si attesta intorno al 35%, mentre il nostro Paese è al ventitreesimo posto mondiale per livello dei salari (dati OCSE), il 76% dei giovani è costretto alla flessibilità (c”è da stupirsi se poi questi si sentano un corpo estraneo alla società e tentino di separarsene con ogni mezzo?) e il 50% delle pensioni non arriva neanche a mille euro.

Come ricorda Aldo Giannuli nel suo Uscire dalla crisi è possibile, quando uno Stato non ce la fa più a coprire il proprio fabbisogno finanziario, cioè le spese per la sanità, per la previdenza sociale, per le pensioni etc., si accumula un debito, che può essere contratto per finanziare investimenti infrastrutturali di valore per una determinata area, oppure per finanziare il mantenimento di un certo stile di vita, abitudini di consumo compulsivo o, ancor peggio, per mantenere (od ottenere) il consenso elettorale.
Dei circa 1.900 miliardi del debito italiano (120% del PIL), circa il 55% è in mani straniere, un terzo circa alla Francia, per un po” più del 10% alla Germania, per il 5% all”Inghilterra. Come si sa, chi controlla il debito di un paese ne controlla indirettamente anche la politica economica e questo rappresenta una gran perdita in termini di sovranità nazionale.

In tal senso ha ragione Grillo quando sostiene che l”Italia e gli altri Paesi del sud Europa non sono falliti solo perché dovevano salvare Francia, la Germania e la Gran Bretagna, che non avrebbero altrimenti potuto più vantare i loro crediti. Lo stesso Mario Monti, in una recente affermazione, ha ammesso che se il governo non avesse varato il famoso decreto ”Salva-Italia”, il nostro Paese avrebbe corso il serio rischio di perdere una fetta della propria sovranità. Inoltre gli interessi sul debito si mangiano una buona fetta del bilancio statale e sottraggono risorse agli investimenti produttivi e infrastrutturali.

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Il problema dell”attuale sistema economico sta nel predominio sfrenato e senza controllo del mondo finanziario sull”economia reale. La finanza ha smesso da tempo di finanziare le imprese, così che anche il mercato del lavoro ha risentito della scarsezza di capitali non diretti a investimenti produttivi ma alla sola rendita finanziaria, peraltro al servizio di una ristretta oligarchia. L”attuale situazione è dunque il prodotto della totale deregulation (che iniziò dalla libera circolazione dei capitali) del settore imposta dal neoliberismo, quello della “scuola di Chicago” per intendersi, di cui sarebbe ormai opportuno un serio ripensamento concettuale e filosofico.

La questione che si pone al centro del dibattito è, pertanto, quella del tipo di regole da introdurre, imponendo in questo settore maggiore trasparenza e controllo alle istituzioni della finanza e della politica che hanno preparato questa crisi e ricostruire un nuovo sistema nazionale e internazionale dove i criteri di giustizia sociale e di sovranità popolare siano rimessi al centro.

Un contributo istituzionale a questa gestione, come suggerisce il Prof. Bruno Amoroso (dell”Università danese di Roskilde), potrebbe essere fornito dalle Banche Popolari di Credito e Cooperativo e dalle banche locali nelle varie forme giuridiche esistenti. Non dimentichiamo, infatti, che circa il 40% del credito italiano è fornito dalle piccole e medie banche, legate all”economia reale e ai territori. Secondo lo stesso Amoroso il sistema nazionale del credito, per le transazioni internazionali o i grossi investimenti, dovrebbe pertanto essere affidato a non più di una o due banche nazionali pubbliche.

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Attraverso lo stretto controllo sulle banche si eviterebbe – o limiterebbe perlomeno – la speculazione finanziaria; allo stesso tempo sarebbe altresì necessario un ridimensionamento delle agenzie di rating che, come ci ricorda Eugenio Benetazzo, rispecchiano per lo più gli interessi dell”establishment bancario e finanziario mondiale, tutti di matrice anglosassone. Inoltre esse hanno degli azionisti privati (ad esempio S&P è controllata dal gruppo editoriale McGraw-Hill). Anche le scommesse sulle fluttuazioni del prezzo dovrebbero essere vietate perché le informazioni a disposizione sono asimmetriche e sbilanciate a favore di pochi, nonché promossa l”abolizione dei paradisi fiscali e una seria legge antitrust che vieti i monopoli e gli oligopoli.


Dal globale al locale ”consapevole”

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La globalizzazione, pur avendo in parte contribuito allo sviluppo sociale, politico ed economico delle società occidentali, non è tuttavia riuscita a mantenere le grandi promesse di benessere collettivo di coloro che l”avevano esaltata. Pertanto, sebbene disconoscerne i meriti sarebbe un grave errore e l”isolamento un male ancora peggiore, la globalizzazione andrebbe posta in termini decisamente diversi, conservandone semmai alcuni aspetti di interscambio culturale e di fecondità dei rapporti umani e sociali. D”altra parte occorrerebbe impostare, parallelamente, un ritorno al locale, ridando importanza e valore al territorio, restituendo dignità all”agricoltura di sussistenza familiare, tornando ad una alimentazione sana, rivitalizzando l”artigianato, gli antichi mestieri e le piccole botteghe di quartiere.

Una questione oramai contestabile, collegata a questi aspetti, è quella della crescita come unico paradigma valido e perseguibile, soprattutto se intesa come crescita della produzione e del consumo di merci. Una rivoluzione culturale dovrà essere in grado di smentire una simile e unica narrazione del mondo. Il teorema alternativo e complementare della decrescita, ad esempio, bene si applica in un contesto di ormai irrinunciabile cambiamento di stile di vita, soprattutto nella presa di coscienza che la riduzione dei consumi è imprescindibile nella direzione di una società più sostenibile (il mondo occidentale, da quasi trent”anni, consuma molto più di quanto produce).

Alcuni comportamenti andrebbero modificati, concentrandosi semmai sull”autoproduzione – individuale e comunitaria – di cibo (o almeno rifornirsi da piccoli produttori in prossimità del luogo in cui si vive) e di energia grazie soprattutto a una serie di piccoli impianti da fonti rinnovabili per autoconsumo che scambino le eccedenze in rete, disincentivare l”uso dei mezzi privati motorizzati nelle aree urbane tramite sviluppo di reti di piste ciclabili protette e sensibilizzare all”uso frequente di tale mezzo, limitare l”uso estremo di condizionatori e impianti di riscaldamento, ridurre gli sprechi (che oggi ammontano al 70%) e gli eccessi nell”alimentazione, nell”abbigliamento, nell”uso di materiali superflui per il confezionamento dei prodotti, abituarsi al riciclo e allo scambio di beni vari.

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Non è pensabile continuare a identificare la ricchezza con il danaro, i beni con le merci.

Poi ci sarebbero tutti quelle ”buone pratiche” che richiamano a una dimensione di autoproduzione e di scambio sociale di tipo più ”familiare”: il ritorno alla coltivazione degli orti familiari o comunitari, la produzione di cibi fatti in casa con ingredienti genuini, privilegiando il ”saper fare” al comprare compulsivamente, lo scambio di prodotti e di conoscenze all”interno di una stessa comunità o di più comunità, la condivisione di rapporti comunitari attraverso forme inclusive come gli eco villaggi, gli orti urbani o il cohousing etc. L”esaltazione del denaro ha distrutto in parte i legami sociali, mortificando quei valori fondanti di una società, come la solidarietà, la creatività, persino la spiritualità, ecco perché occorre una rivoluzione culturale in grado di far apprezzare la bellezza di un sistema di valori basato sulla sobrietà e sulla creatività.

Il dominio della qualità sulla quantità dovrebbe prevalere.
Questo non vuol dire regresso o diminuzione del benessere, tutt”altro! Significa piuttosto che non si può continuare ad accrescere la domanda di merci secondo una logica meramente quantitativa, ma investire piuttosto in attività che possano migliorare la qualità della vita delle persone. Significa anche acquisire nuovamente l”utilizzo e il significato della manualità, delle cose semplici ma qualitativamente superiori, del sapere locale, della conoscenza e salvaguardia del proprio territorio e della condivisione come valori unificanti di una società.

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Un modello alternativo di organizzazione sociale, economica e produttiva è pertanto possibile ed è quello che una nuova e coraggiosa classe dirigente, rappresentata da tutte le forze che
compongono la società, dovrebbe iniziare a progettare, con una visione di lungo periodo.


Le possibili soluzioni per l”Italia:

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a. L”economia

Nel nostro Paese occorrerebbe intraprendere anzitutto una coraggiosa politica di tagli agli sprechi nella pubblica amministrazione, al fine sia di alleggerire il bilancio, sia di eliminare alla base gran parte del consenso clientelare dei partiti. Tagli alla spesa pubblica in generale, ma più in particolare alle spese di rappresentanza popolare (contributi elettorali, super stipendi dei consiglieri regionali, pensioni d”oro etc.), alle consulenze che pesano nel bilancio statale per due miliardi di euro l”anno, a tutti quegli enti, soprattutto Province e Comuni, che rappresentano popolazioni e parti di territorio troppo limitati per entrare a far parte di entità amministrative autonome, alle spese militari, agli ingenti – e spesso ingiustificati – finanziamenti pubblici ai giornali.

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Inoltre servirebbero nuove tecnologie per ridurre gli sprechi e regole precise sull”accesso all”impiego nella PA. Il risparmio che deriverebbe da questi tagli, secondo l”economista indipendente Benetazzo, consentirebbe di diminuire la pressione fiscale di almeno 15-20 punti percentuale.

Ma per realizzare queste riforme occorre essere mentalmente preparati ad abbandonare tutte le ataviche dinamiche di controllo ”feudale” del territorio ed i vizi di corruzione e malcostume che fanno parte di un”intera cultura, quella italiana appunto. La consapevolezza che la classe politica che abbiamo avuto sinora altro non è che il riflesso della società che la esprime e che nessuno di noi ne è escluso, è la base per una reale volontà di cambiamento.

Impossibile, infatti, continuare a negare che le responsabilità del degrado della vita sociale in questo paese dipendano da un sistema esteso di valori (o, piuttosto, di disvalori), da una intera cultura in senso antropologico: dal mondo della politica, del sapere e dell”educazione, dell”economia e della finanza, dei media, da quello della scienza e della religione, dalle professioni varie ecc. La maggior parte di queste sfere della società persegue ormai interessi di parte e non più il bene comune; le ciniche logiche del mercato, della vendita e del marketing spesso sembrano guidare le dinamiche che intervengono tra gli individui che operano in questi ambiti.

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Le strategie per favorire una nuova fase dovrebbero anzitutto partire dalla stimolazione del tessuto imprenditoriale (piccole e medie imprese) per far crescere l”occupazione, anche defiscalizzando a favore delle aziende (espressione che ai nostri sindacati attuali, sempre più controllati da burocrazie nazionali vecchie e stanche, farà sicuramente drizzare i capelli.).

Ad esempio, nelle regioni svantaggiate del Meridione occorrerebbe azzerare la pressione fiscale, creando le cosiddette ”zone franche” in cui è conveniente investire e creare sviluppo soprattutto da parte di attori locali. Inoltre, nelle stesse zone, una politica lungimirante dovrebbe concentrarsi a incentivare il turismo sostenibile, l”eco-turismo, nonché il turismo di bassa stagione (soprattutto il turismo congressuale o quello scolastico). Per favorire questo tipo di sviluppo una formazione più attenta all”auto-imprenditorialità dovrà essere messa in campo.

Anche gli esperimenti di monete locali, come sta già avvenendo in altri paesi e in alcune zone d”Italia, a carattere totalmente volontario, potrebbe costituire un valido strumento di solidarietà e di scambio sul territorio, favorendo allo stesso tempo il consumo di prodotti per lo più locali. Settori importanti della società civile potrebbero dare impulso a questo processo e reti a livello locale di comuni, imprese, cooperative di piccolo commercio, etc. dovrebbero fare lo stesso. Occorrerebbe poi disincentivare le merci che provengono da paesi in cui le libertà dei lavoratori sono minime, generando per questo profitti elevatissimi per quelle aziende (per lo più multinazionali) che poi rivendono i loro prodotti a prezzi elevatissimi nei mercati occidentali.

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Strutture pubbliche e private per agevolare le fasce sociali più deboli (bambini, immigrati, anziani) dovrebbero essere supportate; le persone indigenti avrebbero diritto almeno ai generi di prima necessità, ad un”assicurazione base sulla malattia, allo sconto sui mezzi pubblici, a una tessera gratuita per accedere alla biblioteche e ai musei. Come sostiene Maurizio Pallante l”equità sociale e la difesa dei più deboli sono valori universali e temporali, che possono essere condivisi anche senza schierarsi a sinistra. L”incentivo all”acquisto di una prima casa dovrebbe divenire effettivo e costante, le barriere architettoniche per le persone con disabilità andrebbero smantellate, tutte le città andrebbero progettate a misura di bambino, le famiglie dovrebbero essere supportate con incentivi alla maternità e alla genitorialità, introducendo tutti quegli aspetti che hanno funzionato in altre società (modello scandinavo ad esempio, sebbene alcuni distinguo vadano considerati), in quanto normalmente una società in cui ci sono molti giovani è una società destinata a prosperare (d”altra parte la forza dei paesi asiatici è proprio il grande peso di una popolazione con un”alta percentuale di giovani). Tagliando gli sprechi di cui si parlava in precedenza si potrebbe finanziare gran parte dello stato sociale.

E” necessario, prima di tutto, riconoscere che la vera rivoluzione socio-culturale non può prescindere da un nuovo patto sociale, a partire da una redistribuzione più equa delle risorse, rivolgendo anzitutto lo sguardo alle sacche di povertà più estrema, senza alcuna distinzione di provenienza etnica, nazionale o sociale.


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b. La politica, la società, l”individuo

La crisi economica e delle democrazie alimenta estremismi di diverso genere ed estrazione, i cosiddetti ”populismi”. Nel Nord Italia come nel Mezzogiorno assistiamo, sempre più spesso, a scene di giovani che imbracciano simboli (se non bastoni) a difesa di un”identità che viene proclamata con violenza, da affermare proprio nella lotta contro l”alterità, contro un capro espiatorio che qualcuno ha consapevolmente saputo costruire con menzogne e a suon di bombardamenti mediatici. Le identità nazionali rinascenti prendono avvio dall”angoscia per il futuro, cercando così di guardare a un glorioso passato. L”economista premio Nobel Amartya Sen, in un famoso saggio sull”identità, sostiene che molti dei conflitti e delle atrocità del mondo siano tenuti in piedi dall”illusione di un”identità univoca; promuovere la violenza equivale a coltivare un sentimento di inevitabilità riguardo a una qualche presunta identità unica. La cultura, sostiene ancora l”economista indiano, non è l”unico elemento che determina la nostra vita e la nostra identità. Anche perché gli attuali contatti culturali stanno ibridizzando a tal punto le modalità di comportamento in tutto il mondo che è diventato difficilissimo identificare una qualsiasi “cultura locale” come genuinamente autoctona. A seminare la violenza nel mondo sono l”ignoranza e la confusione, oltre che le ingiustizie trascurate. L”indigenza può essere accompagnata non soltanto dalla debolezza economica, ma anche dall”impotenza politica. Un morto di fame può essere troppo debole e demoralizzato per lottare e combattere, e perfino per protestare e gridare, un lavoratore immigrato è spesso sottoposto al ricatto occupazionale e potrebbe non avere la forza di pretendere quello che è un suo diritto.

Nuove e più estese forme di autonomia andrebbero certamente incentivate. Sebbene la globalizzazione abbia prodotto una sorta di contaminazione culturale, che produce nuove sintesi piuttosto che un”unica convergenza monoculturale, chi vive e lavora in un luogo ha diritto a essere considerato cittadino di quel luogo, quindi di diventare titolare di diritti e doveri in una realtà di competenza territoriale, pur sempre secondo il principio di sussidiarietà democratica. Un processo di grande autonomia territoriale, caratterizzata da una sorta di policentrismo democratico, pensando non tanto a un”Europa di più Stati nazionali, quanto a un”Europa delle realtà locali, regionali o subregionali.

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Come ricorda Giannuli, il Parlamento italiano attuale è composto da circa due terzi di liberi professionisti (in particolar modo avvocati e medici) che sono spesso distanti dai problemi quotidiani del piccolo artigiano, della grande impresa e del lavoratore dipendente. Lo storico, a tal fine, propone quindi una grande rappresentanza “del lavoro” (Benetazzo, con una proposta simile, utilizza invece l”espressione “quote professioni”), che riunisca insieme lavoro autonomo, dipendente e lavoro precario.

Il bene comune non è affare di un unico esponente o di unico colore politico, ma si ottiene piuttosto con la condivisione di intenti, di valori, azioni a favore di tutti e non di singole lobby, gruppi di potere e interessi personali. La politica non può essere esercitata solo dalle élite (economiche, professionali, intellettuali), che già godono di enormi privilegi nella società, ma anche e soprattutto da quelle fasce sociali meno rappresentate, dai cittadini comuni.

Perché non illudersi, d”altra parte, di poter vedere tra qualche anno delle personalità nuove e più mature, anche sotto il profilo umano, alla guida politica del nostro paese? Figure non appartenenti alle logiche elitistiche e massoniche del passato – e dell”attuale presente – quanto, piuttosto, soggetti provenienti da diversi strati sociali, dotati di senso del bene comune, individui che sappiano esprimere autorevolezza e non necessariamente autorità.

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Un altro compito di importanza cruciale per la politica che guiderà il nostro paese è quello dell”educazione. La gran parte delle soluzioni ai problemi del vivere quotidiano vengono troppo spesso demandate a una serie di discipline frammentate, l”educazione del futuro dovrà affrontare i problemi globali e fondamentali della nostra epoca, mettendo in relazione tra loro le varie discipline. Ad esempio, insegnando in cosa consiste l”essere umano nella sua triplice natura biologica, individuale e sociale, diffondendo una coscienza della condizione umana, della sua storia, delle contraddizioni, dei suoi archetipi.

L”università dovrà adattarsi alla modernità e integrarla con gli insegnamenti professionali, insegnando soprattutto l”autonomia della coscienza, l”etica della conoscenza. Come propongono Hessel e Morin in ”Il Cammino della speranza”, occorrerà prima o poi abbandonare la compartimentazione tra cultura umanistica e cultura scientifica, perché la mancanza di comunicazione tra le due ha provocato gravi danni alla moderna civiltà, una sorta di ”sapere senza sapore”.

La cultura umanistica, per troppo tempo dimenticata e snobbata dalla società del progresso, pone interrogativi umani fondamentali e stimola la riflessione sulla soluzione dei problemi comuni all”umanità. Si rende dunque necessario, fin dalle scuole primarie, l”insegnamento della comprensione di se stessi e dell”altro e della fiducia opposta alla diffidenza (tipica delle società fondate su rapporti mercantili di compravendita), in quanto cambiamento sociale e cambiamento individuale sono indissociabili (a tal fine è utile leggere anche ”L”esempio danese e la dimensione culturale”).

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Le nuove forme di educazione non potranno poi non orientarsi all”insegnamento alla cittadinanza, a nuovi stili di vita più sostenibili (riciclo, raccolta differenziata dei rifiuti, educazione alimentare e sanitaria, educazione ad un consumo consapevole e più sobrio nell”ottica dell”eliminazione degli sprechi e del superfluo), educazione allo scambio reciproco di beni e servizi come valore tra gli individui, educazione affettivo-sentimentale, educazione sessuale, insegnamento delle tradizioni locali, etc.

Una persona che possegga una tale formazione aperta ai reali problemi del nostro tempo – il che richiede adeguati strumenti culturali e persino filosofico-spirituali – non ha paura delle diversità, non teme di scalfire le proprie certezze, le abitudini inveterate. Un nuovo atteggiamento, pertanto, è possibile solo grazie a una presa di coscienza prima individuale e poi collettiva. Le grandi responsabilità possono essere assunte solo da individui preparati a scomporre i segni che vengono proposti ogni giorno sottoforma di messaggi pubblicitari, slogan televisivi o informazioni in generale, da coloro in grado prima di individuare e poi di interpretare le menzogne e le astuzie del potere fine a se stesso.

Si può continuare ad accettare uno stato di incoscienza collettiva nel nome dell”ingenuità, della passiva accettazione degli eventi in quanto la manipolazione mediatica ha il vantaggio di agire profondamente sulle coscienze?
Una politica seria e lungimirante avrebbe, pertanto, il delicato compito di avviare e facilitare un vero cambiamento di paradigma culturale per la società del futuro, fornendo indirizzi concreti di sviluppo e trasformazione dei modelli educativi.

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La metamorfosi andrebbe pertanto indirizzata in una nuova direzione, affinché non si ripeta una semplice ”riconversione” storica dei soliti poteri che gestiscono ambiguamente l”opinione pubblica e le strategie decisionali tanto a livello politico quanto economico, influenzando inoltre la dimensione socio-culturale-antropologica e il clima di condivisione-convivenza che ne deriva. Il tipo di metamorfosi che servirebbe nel nostro Paese ha a che fare con la creatività, con l”entusiasmo, con sensibilità nuove di persone qualunque, che spesso possono anche emergere dai vicoli ciechi della disperazione di una vita quotidiana fatta di miseria e perdita di dignità.

Da un punto di vista pratico e operativo tale cambiamento, in prima analisi, si può conseguire con un superamento della dicotomia delle categorie di destra e di sinistra, il vero punto di forza, a mio avviso, di tutto il M5S. Nel nostro paese vivono giovani – e meno giovani – in grado di esprimere grandi potenzialità in termini di risorse e di idee per il cambiamento, che spesso vengono sprecate per l”anacronistica tendenza, insita nella nostra cultura, a voler nettamente separare le appartenenze, a voler dividere le categorie in fazioni, come se fossero contenitori immutabili. Ebbene, anche questo aspetto andrebbe contrastato con un nuovo atteggiamento mentale, di fiducia nell”altro, a prescindere dagli schemi culturali con cui ci siamo formati e che ci hanno fatto agire sino ad ora con una logica di contrapposizione.

D”altra parte non illudiamoci di poter essere immuni da un altro grande rischio tipico della cultura politica degli ultimi decenni: l”individualismo e la ricerca di singoli interessi personali, che in particolar modo all”interno di un universo tanto variegato come quello del M5S può essere incombente. Anche in questo contesto, infatti, i vari personalismi, le personalità egocentriche e il desiderio di potere spesso si nascondono dietro slogan di ”rinascita” e di ”pulizia” dell”attuale sistema, anche nel nuovo contesto.
In quanti hanno il coraggio di camminare in una simile direzione di ricostruzione, di solidarietà sociale, così come avvenne alla fine della Seconda Guerra Mondiale? Nella società civile sono in molti ad aver compreso che il bene comune si ottiene con lo sforzo e con la collaborazione di tutti, senza grandi conflitti legati all”identità politica o culturale – perché, si sa, l”identità univoca è spesso utilizzata per legittimare l”inevitabilità del sentimento di appartenenza e dell”intolleranza.

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Il cambiamento è ora: “Siete voi a generare la capacità di amore e compassione che avete nei vostri cuori, è arrivato il momento di cogliere i frutti che crescono dalle vostre azioni perché siete voi a rendere possibile il cambiamento. Il XXI secolo, sarà il secolo di tutti noi, gente normale, il nostro secolo, il vostro secolo, il secolo di tutti!”
(Birgitta Jónsdóttir, membro del parlamento islandese)

 

Fonte:

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  1. http://www.movimento5stellecagliari.it/?p=3804
  2. http://www.movimento5stellecagliari.it/?p=3823

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