Ma tu lo sai quanto vale la terra?

Quando ci si accorgerà che la distruzione dell’ambiente e lo sperpero delle sue risorse costituiscono una perdita planetaria per tutti? [Ugo Leone]

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18 Luglio 2013 - 16.49


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di Ugo Leone

La risposta più giusta e immediata dovrebbe essere che ha un valore incommensurabile, inestimabile perché è la nostra casa, il nostro luogo di vita quotidiana. Lo è da 4,5 miliardi di anni, anche se gli esseri umani vi sono rappresentati “solo” da un paio di milioni di anni. E, come si ripete da un po’ di tempo, è l’unica che abbiamo.

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In questo che è un ambiente di vita finito, cioè non espandibile, la popolazione è andata continuamente crescendo sino ad arrivare agli oltre 7 miliardi di oggi (si stima che fossero 200 milioni alla nascita di Cristo). Troppi? Certamente molti, ma troppi non si può dire dal momento che i più attenti studiosi dell’argomento affermano che il vero problema sta nella gestione della Terra e delle sue risorse. Ha scritto l’economista statunitense Lester Thurow che “Se la popolazione mondiale avesse la produttività degli svizzeri, i consumi medi dei cinesi, le inclinazioni egualitarie degli svedesi e la disciplina sociale dei giapponesi, il pianeta Terra potrebbe sopportare una popolazione molte volte maggiore di quella attuale. Se, invece, la popolazione mondiale avesse la produttività del Ciad, i consumi medi degli USA, le inclinazioni egualitarie dell’India e la disciplina sociale dell’ex Jugoslavia, il pianeta Terra non riuscirebbe neppure a sopportare la popolazione attuale.”.

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Questa realistica constatazione dovrebbe tranquillizzare se non indurre all’ottimismo. Ma c’è una variabile della quale tener conto. La Terra è un ambiente non incrementabile, ma non vi stiamo molto stretti e, a saperla gestire, ce n’è per tutti anche in considerazione della tendenza alla stazionarietà demografica che si raggiungerà prevedibilmente in questo secolo intorno a 9-10 miliardi di abitanti. Ma se i 149.425.597 Kmq. di terre emerse che costituiscono il nostro ecumene (lo spazio, cioè, in cui esistono le condizioni per la stabile presenza umana) dovessero essere messi in discussione nella loro vivibilità, allora entrerebbero in crisi tutte le ipotesi rassicuranti.

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È quanto sta avvenendo da tempo. Sta avvenendo, cioè, che gli esseri umani, dopo aver reso il pianeta sempre più e meglio abitabile da 12.000 anni, (dalla invenzione dell’agricoltura in poi); dopo avere anche forzato la natura per rendere abitabili e produttivi spazi che non lo erano (si pensi ai Paesi Bassi); ora, più o meno inconsapevolmente, si percorre l’itinerario inverso sottraendo spazio all’ecumene conquistato. L’avanzata dei deserti ne è un esempio: ogni anno anche per cause naturali nelle quali assume un ruolo sempre più rilevante l’uomo, si perdono per desertificazione 12 milioni di ettari di terra fertile.

Quanto vale questa perdita? Uno studio di Robert Costanza (professore all’Università del Maryland e presidente dell’International Society for Ecological Economics) e altri sul valore della Terra del 1997 cercò di quantificare tutto ciò anche in termini economici. In particolare, lo studio in questione tenta di valutare il prezzo di mercato delle “prestazioni” annualmente fornite dalla Terra fornendo una prima stima globale in termini economici dei servizi degli ecosistemi naturali presenti sul nostro pianeta. Secondo questo studio il valore stimato (gran parte del quale è totalmente fuori mercato) ammonterebbe a circa 50.000 miliardi di dollari l’anno. La valutazione è particolarmente significativa se si tiene conto che Costanza e collaboratori cercano di dare un valore non alle risorse esauribili e non riproducibili -come, ad esempio il petrolio – che vengono considerati “beni” e non “servizi”. Essi prendono in considerazione esclusivamente il “lavoro della natura” e la sua capacità di offrire servizi in modo continuato e gratuito. Servizi che vengono forniti per il 63% dagli ecosistemi marini e per il 37% da quelli terrestri.

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In questa analisi il servizio più prezioso risulta quello della fornitura degli “alimenti di base” forniti attraverso il ciclo dell’azoto e del fosforo che, consentendo la crescita di alghe e piante – nutrimento primo degli animali – costituiscono la base della catena alimentare. Al secondo posto c’é l’offerta di valori estetici-naturali e “costruiti” dall’uomo- che movimentano il turismo. Al terzo posto, quella sorta di “servizio pulizia” dell’ambiente affidato, spesso loro malgrado, a mari, fiumi e lagune. Quarto é il servizio di naturale protezione da fenomeni calamitosi quali inondazioni, frane, uragani. Di valore via via decrescente sono la disponibilità di acqua per agricoltura, industria e trasporti; la disponibilità di alimenti quali pesca, ortaggi, frutta, foraggio; la fornitura naturale di medicamenti e specie viventi; la fornitura di humus per le campagne.

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Malgrado ciò l’umanità invece di salvaguardare e proteggere la natura che consente l’esistenza di tali servizi, continua a distruggerla e a non dare alcun valore economico ai servizi resi. Mentre la natura ed i suoi servizi dovrebbero essere pienamente calcolati nei meccanismi economici che ancora oggi invece continuano ad ignorarli.

A questo studio del 1997 si aggiungono oggi altre valutazioni. Ne dà notizia Fred Pearce su “New Scientist” (Il prezzo della Terra, “Internazionale” n. 977, 30 novembre 2012), ma l’approccio è diverso perché il valore viene calcolato in termini di possibile ricavo da una ipotetica vendita di beni e servizi.

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“In una foresta pluviale della Guyana – scrive Pearce – due uomini stanno cercando di vendere pioggia. Se vi interessa, sono pronti ad offrire anche terra, biodiversità, batteri che fissano l’azoto e molto altro. L’offerta vi tenta? Immagino di no. Sappiate però che quegli uomini non sono dei geni della truffa ma i promotori di un importante esperimento per salvare il pianeta: stanno cercando di capire se il puro e semplice ritorno economico può riuscire dove l’altruismo e la politica stanno fallendo”.

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Quei due uomini sono Andrew Mitchell, uno zoologo dell’Università di Oxford e Hylton Murray-Philipson, un imprenditore, che nel 2007 hanno acquistato i diritti a commercializzare i “servizi ecosistemici” della foresta di Iwokrama. E quei servizi sono, in buona parte, gli stessi il cui valore Costanza e collaboratori hanno provato a quantificare.

Il paradosso apparente è che quei servizi la natura ce li offre gratuitamente. Dunque perché pagarli? Per comprenderne il valore è la risposta. Infatti solo comprendendo il vero valore (anche economico) della natura potremo essere incentivati a prendercene cura. È in questo modo che la natura diventa “capitale naturale”. Un capitale a lungo ignorato perché, in linea di massima, nessuno ne è proprietario. E non può esserlo perché tutto quanto è racchiuso nella natura è un bene comune. Un bene, cioè, che tutti possono utilizzare ma su cui nessuno può reclamare un diritto esclusivo.

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Come sanno gli addetti ai lavori, con l’espressione “risorse comuni”, beni comuni o commons si fa riferimento a beni utilizzati da più individui e il cui “consumo” da parte di un soggetto riduce le possibilità di fruizione da parte degli altri (secondo la definizione che ne diede nel 1990 Elinor Ostrom economista statunitense e premio Nobel per l’economia nel 2009).

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Questo tema ha trovato nuova attenzione anche in seguito alle preoccupazioni per il riscaldamento globale, per il depauperamento di ecosistemi unici o la perdita di biodiversità, tutte risorse comuni dell’uomo e degli altri organismi viventi. Ma il dibattito contemporaneo sull’argomento fa capo, generalmente, ad un articolo del 1968 di Garrett Hardin: “La tragedia dei beni comuni”. Hardin vi descrive un modello che costituisce una “metafora” della pressione data dalla crescita incontrollata della popolazione umana sulle risorse terrestri, presentandolo quale “tragedia della libertà in una proprietà comune”. La teoria del biologo Hardin è, in sintesi, che gli utilizzatori di una risorsa comune sono intrappolati in un dilemma tra interesse individuale e utilità collettiva, dilemma da cui è possibile uscire solo con l’intervento di un’autorità esterna che, di norma è lo Stato. Se vogliamo, questa si può considerare un’anticipazione del principio della sostenibilità formulato dalla Commissione Brundtland nel 1987. Ma la quotidianità passata e presente ci dice anche che il dilemma tra interesse individuale e utilità collettiva viene regolarmente trascurato a vantaggio dell’interesse individuale e di pochi individui: i più forti. “Questa logica sconfortante – scrive ancora Pearce – è evidente nel caso della deforestazione, dell’erosione del suolo, della pesca senza regole e così via. Non è difficile cogliere la follia di azioni simili. Ma perché qualcuno dovrebbe smettere di compierle, a meno che non fosse certo che tutti gli altri facciano lo stesso?”. È questa la tragedia dei beni comuni.

Perciò darne o ipotizzarne un valore economico può essere importante. Perché è il modo di dare un peso monetario al degrado che è la perdita di valore del capitale natura. Questo valore ancorchè incommensurabile, come dicevo all’inizio, può essere valutato anche in termini economici. Ne risulta un valore elevatissimo e la sua perdita ci rende tutti molto, molto più poveri. Di conseguenza è vero anche che “conviene” porre fine al degrado nelle sue varie manifestazioni ed è vero, ancora, che il risanamento – da realizzare contestualmente alla prevenzione dell’ulteriore degrado – conviene. Anche in termini economici.

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Si può storcere il muso di fronte a questa impostazione. Ma se l’obiettivo è quello di risanare l’ambiente e vigilare che esso sia tramandato nelle migliori condizioni possibili ai nostri posteri, questo risultato si può più facilmente centrare se si dimostra che degrado e risanamento hanno, rispettivamente, anche un costo e un beneficio economico. Tuttavia la possibilità di dare questa dimostrazione presuppone la capacità di dare un valore al bene-ambiente da risanare e proteggere. Certo, nota efficacemente l’economista inglese Frances Anne Cairncross (Il prezzo della Terra, 1993), “può apparire inutile e perfino cinico tentare di dare un valore monetario al fascino di un panorama o alle specie rare, e certamente molti ambientalisti lo ritengono una sciocchezza, ma così facendo gli economisti possono indurci a ragionare con più lucidità. La maggior parte delle decisioni che vengono prese sottintendono conflitti d’interesse: se un panorama é coperto da un palazzo, chi prima godeva di una bella vista subisce una perdita, mentre chi affitta gli appartamenti e gli uffici ci guadagna. In un mondo dove parla il denaro, l’ambiente deve avere un valore per far sentire la sua voce.”.

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È una impostazione che definirei realistica, ma può essere risolutiva solo se il problema e le sue soluzioni vengono gestite a livello planetario.

Secondo la Ostrom gli individui, le singole comunità, possono evitare conflitti improduttivi e raggiungere accordi su una utilizzazione sostenibile nel tempo delle risorse comuni solo tramite l’individuazione di istituzioni deputate alla loro gestione. Potrà questo avvenire con una gestione planetaria dell’ambiente o è pura utopia? Quando ci si accorgerà che la distruzione dell’ambiente e lo sperpero delle sue risorse costituiscono una perdita planetaria che coinvolge negativamente forti e deboli, ricchi e poveri, l’utopia potrà diventare realtà.

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