Può essere interessante ripercorrere il cammino barcollante, tortuoso e vacillante che ha attraversato l’Europa e che alla fine ha ridotto la causa di tutti i nostri mali a questioni di competitività e, poco a poco, a problemi di costo del lavoro. La crisi dei subprime, la crisi di liquidità bancaria, le colossali svalutazioni degli attivi, il crollo del credito, l’immobilismo della domanda, la trasformazione dei debiti privati in debiti pubblici, le politiche di austerità sono state tutte dimenticate.
Come aveva ben spiegato già nel 2012 Ulrich Wilhem, all’epoca portavoce del governo tedesco, «la soluzione per correggere gli squilibri [commerciali] nella zona euro e stabilizzare le finanze pubbliche consiste nell’aumento della competitività dell’Europa nel suo insieme (1)».
Quando si fornisce una spiegazione, bisogna essere pronti a difenderla contro qualsiasi nemico, compreso il rigore aritmetico. Avendo ormai capito che i nostri squilibri interni non possono risolversi in una gara infinita e fratricida tra i ventisette paesi europei per guadagnare competitività gli uni contro gli altri – quel che si chiama, a rigore, un gioco a somma zero … – il progetto che ci viene proposto ora mira ad aumentare la nostra competitività nei confronti del resto del mondo.
Al culmine dei suoi sforzi, «L’Europa nel suo insieme» riuscirà a risanare le bilance commerciali dei suoi paesi membri, contro quelle dei partner esterni. Aspettiamo impazienti che l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) e l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) ci impongano di rafforzare la competitività del «mondo nel suo insieme», perché ritrovi una buona salute commerciale contro i marziani.
Di fronte a una tale impasse, avremmo immaginato che i responsabili europei, i direttori delle maggiori istituzioni economiche, gli esperti più titolati, i commentatori seri si sarebbero liberati dall’ossessione per il costo del lavoro e ne avrebbero cercata un’altra, che un semplice spirito di simmetria avrebbe dovuto suggerir loro già da molto tempo. Senza abbandonare il tema dei costi, che popola l’immaginario degli economisti, avrebbero così indagato, per curiosità , sul costo del capitale, e sul suo aumento. E questo non per dare nuovo vigore alla dottrina della competitività (2), ma perché una volta saziato il loro appetito per soluzioni facili, un leggero gusto per la diversità avrebbe potuto spingerli a esaminare dei problemi senza soluzione (fin qui).
Questo punto di vista viene illustrato in uno studio condotto dagli economisti del Centre lillois d’études et de recherches sociologiques et économiques (Clersé), su richiesta della Confédération générale du travail (Cgt) e dell’Institut de recherches économiques et sociales (Ires).
Gli autori dello studio illustrano come l’aumento del costo del capitale – o piuttosto del suo sovraccosto – , sulla scia della finanziarizzazione dell’economia, spieghi le performance deludenti che le vecchie economie sviluppate hanno offerto negli ultimi trent’anni: il ritmo fiacco dell’accumulazione di capitale, l’aumento delle diseguaglianze, il boom dei redditi finanziari, la persistenza di un massiccio fenomeno di sottoccupazione… Lo studio evidenzia anche l’impennata del sovraccosto del capitale, proponendo un indicatore meno rassicurante del famoso «costo medio ponderato dei capitali (3)», reso popolare dalla dottrina finanziaria standard.
Per capire di cosa si tratta, occorre distinguere tra due nozioni di costo del capitale: il costo economico e quello finanziario.
Il costo economico è lo sforzo produttivo necessario per fabbricare gli strumenti, e più in generale, l’insieme dei mezzi di produzione: macchinari, immobili, stabilimenti, mezzi di trasporto, infrastrutture, brevetti, software… Questo sforzo produttivo rappresenta in qualche modo il «vero» costo del capitale, quello che occorre necessariamente spendere in termini di lavoro per fabbricare questo capitale, inteso qui nel senso di «capitale produttivo». La misura di tale sforzo (su un anno per esempio) rappresenta quelle che vengono più generalmente chiamate spese di investimento, e che i contabili nazionali chiamano la formazione lorda di capitale fisso. Queste spese rappresentano all’incirca il 20% della produzione annuale delle imprese francesi. Questo costo di produzione del capitale produttivo, commisurato al suo prezzo d’acquisto, non è tuttavia l’unico a pesare sulle imprese, che quando vogliono acquistare e mettere in funzione questi mezzi di produzione, devono anche remunerare le persone o le istituzioni che gli hanno procurato il denaro necessario (denaro chiamato anche «capitale», ma questa volta nel senso finanziario del termine). Pertanto al «vero» costo del capitale vanno aggiunti gli interessi versati ai creditori e i dividendi pagati agli azionisti (come remunerazione per gli apporti di liquidità forniti a ogni aumento di capitale, o quando rinunciano a una parte dei «loro» profitti offrendoli come riserva per l’impresa).
Ora, una gran parte di questo costo finanziario (gli interessi e i dividendi) non corrisponde ad alcun servizio economico reso, che si tratti di servizi offerti alle imprese stesse o alla società nel suo insieme. Conviene quindi sapere cosa rappresenta questa parte del costo finanziario completamente improduttiva, derivante da un fenomeno di rendita e di cui si potrebbe evidentemente fare a meno, organizzandosi altrimenti per finanziare l’azienda, per esempio immaginando un sistema basato unicamente sul credito bancario, fatturato al minor costo possibile. Per conoscere l’ammontare di questa rendita indebita, basta ritagliare dai redditi finanziari la porzione che potrebbe essere giustificata… da buone ragioni economiche.
Una parte di questi interessi e dividendi copre in effetti il rischio incorso da creditori e azionisti, di non rivedere più i loro soldi, per via della possibilità di fallimento inerente a qualsiasi progetto aziendale. È quel che potremmo chiamare il rischio d’impresa. Un’altra parte di questi redditi può essere giustificata dal costo di amministrazione dell’attività finanziaria, che consiste nel trasformare e dirottare le liquidità accantonate verso le imprese. Quando dall’insieme dei redditi finanziari si ritagliano queste due componenti, che possono essere giustificate (rischio d’impresa e costo di amministrazione), si ottiene una misura della rendita indebita. Potemmo definirla come un «sovraccosto del capitale», dal momento che si tratta di un costo sopportato dalle parti interessate interne all’impresa, che alza inutilmente il «vero» costo del capitale.
Lo studio del Clersé mostra come questo sovraccosto sia notevole. A titolo di esempio, nel 2011 rappresentava in Francia, per l’insieme delle società non finanziarie, 94,7 miliardi di euro. Se lo rapportiamo al costo «vero», ossia all’investimento in capitale produttivo per lo stesso anno, che era di 202,3 miliardi di euro, otteniamo un sovraccosto del 50%… Se paragonassimo questo sovraccosto alla sola parte di investimento che corrisponde all’ammortamento di capitale – che rappresenterebbe meglio, agli occhi di numerosi economisti, il costo «vero» del capitale –, otterremmo una valutazione ancora più sorprendente: dell’ordine del 70%! Questo significa che quando i lavoratori francesi riescono a produrre le loro macchine, le loro fabbriche, i loro immobili, le loro infrastrutture, ecc. a un prezzo totale di 100 euro all’anno (compreso il margine di profitto), le aziende che utilizzano questo capitale produttivo in realtà pagano tra i 150 e i 170 euro all’anno, per il solo fatto di dover pagare una rendita, non giustificata economicamente, a chi ha loro prestato del denaro. Un tale sovraccosto del capitale non è né necessario né ineluttabile.
Nel periodo 1961-1981, che ha preceduto il «big bang» finanziario mondiale, il sovraccosto del materiale era in media del 13,8%, diventando addirittura negativo alla fine del «trentennio glorioso» (1973-1974), per via del ritorno dell’inflazione. Sono state le politiche restrittive innescate dalla rivoluzione monetarista che, in un primo tempo, hanno fatto impennare la rendita finanziaria spingendo i tassi di interesse reale a livelli altissimi. Quando poi, negli anni ’90, i tassi hanno cominciato a scendere, il versamento accelerato dei dividendi ha preso il loro posto. Il potere azionariale, rimesso in sella dall’aumento vertiginoso degli investitori istituzionali (fondi risparmio, fondi pensione, compagnie di assicurazioni…), si è poggiato sulla disciplina dei mercati, l’attivismo azionariale e la nuova governance aziendale, per non lasciarsi scappare la rendita.
Riassumendo, possiamo affermare che l’esplosione del sovraccosto del capitale negli ultimi trent’anni è la diretta conseguenza dell’innalzamento della norma finanziaria imposta alle aziende con l’aiuto dei loro dirigenti, i cui interessi sono stati allineati a quelli degli azionisti.
Per passare dalle esigenze di rendimento su fondi propri dell’ordine del 15% all’anno al sovraccosto di capitale, basta rettificare in qualche modo la misura. Tali esigenze corrispondono in pratica a un sovraccosto imposto a qualsiasi progetto di investimento e vanno dal 50 al 70%. Gli effetti di questo innalzamento della norma finanziaria, sebbene immaginabili, sono incalcolabili. Infatti in questo campo, ciò che è più importante non è forse ciò che appare più visibile. Questi trasferimenti di ricchezza verso i creditori e gli azionisti rappresentano una manna, che non ha smesso di aumentare (dal 3% del valore della produzione nel 1980 al 9% di oggi) e che non va né nelle tasche degli imprenditori (a meno che non siano anche proprietari delle aziende) né nelle tasche dei lavoratori. Questo ulteriore sfruttamento dei lavoratori sarebbe già di per sé deplorevole.
Ma c’è di più: come calcolare infatti l’enorme spreco in termini di ricchezze mai prodotte, posti di lavoro mai creati, progetti collettivi, sociali, ambientali mai intrapresi per il semplice fatto che la soglia redditizia annuale da raggiungere per poterli attuare è del 15%? Quando il fardello che pesa sulle aziende, siano esse pubbliche o private, si vede maggiorare il suo costo reale del 50 o addirittura del 70%, come stupirsi del debole dinamismo delle nostre economie sottomesse al giogo della finanza? Solo un mulo potrebbe sopportare un carico equivalente al 70% del proprio peso. Il problema non sta tanto nel fatto che questo sovraccarico finanziario drena i fondi necessari per gli investimenti. È piuttosto vero l’inverso. Il denaro distribuito ai creditori e agli azionisti è l’esatta controparte dei profitti di cui le imprese non hanno più bisogno, dal momento che esse limitano, di loro propria iniziativa, i progetti di investimento alla porzione suscettibile di essere più redditizia.
La domanda giusta da porsi allora è la seguente: in un mondo in cui vengono intraprese azioni, individuali o collettive, solo a condizione che offrano tra il 15 e il 30% in termini di redditività , quanto è grande il cimitero delle idee (buone o cattive che siano, occorre deplorarlo) che non hanno mai visto la luce perché avrebbero portato solo dallo 0 al 15%?
Nel momento in cui bisognerebbe aprire la strada alla transizione ecologica e sociale delle nostre economie, si potrebbe pensare che un progetto politico autenticamente socialdemocratico dovrebbe per lo meno darsi il seguente obiettivo: liberare dal giogo della proprietà e della rendita il potenziale d’azione degli imprenditori, dei lavoratori e di tutti coloro che ricercano il progresso economico e sociale.
Liquidare la rendita, invece di liquidare posti di lavoro e intere aziende. Una tale ambizione è certamente fuori dalla portata di un uomo solo. Ma è sicuramente alla portata di un’ambizione collettiva.
«Questo non vuol dire», ci ha già avvertito John Maynard Keynes, «che l’utilizzo dei beni capitali non costerebbe quasi niente, ma semplicemente che il reddito che si ricaverebbe dovrebbe coprire quasi esclusivamente la svalutazione dovuta all’usura e all’obsolescenza, con un margine per compensare i rischi e l’esercizio della capacità e del giudizio».
A coloro che vedrebbero in tutto questo i presagi della fine del mondo, Keynes offriva una consolazione: «Questo stato di cose sarebbe perfettamente compatibile con un certo grado di individualismo. Ma implicherebbe comunque l’eutanasia del rentier e, di conseguenza, la progressiva scomparsa del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale (4)». Brrrrr!
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Laurent Cordonnier è economista, professore associato all’università di Lille-I. Autore di L’Economie des Toambapiks. Raisons d’agir, Parigi, 2010. Ha partecipato, con Thomas Dallery, Vincent Duwicquet, Jordan Melmiès e Franck Van de Velde, allo studio del Clersé su cui si basa questo articolo.
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Note:
(1) Financial Times, Londra, 22 marzo 2010.
(2) Esiste comunque un legame, come dimostrato dalla Fondazione Copernic e Attac nel loro rapporto «Farla finita con la competitività » (ottobre 2012). Quando le imprese francesi, che perdono competitività , sono costrette a ridurre i loro margini, ma continuano a versare copiosi dividendi ai loro azionisti, si capisce bene come tutto ciò sia in parte a discapito delle attività di ricerca e sviluppo.
(3) Cfr. «Redditività e rischio nel nuovo regime di crescita», rapporto del gruppo presieduto da Domenique Plihon per il Commisariat Général du Plan, La Documentation française, Parigi 2002. O l’articolo di Wikipedia: «costo medio ponderato del capitale».
(4) J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Utet, 2006. (Traduzione di F. R.)