'L''insostenibile persistenza dei Trattati europei'

Se la crisi della Ue è istituzionale la parola deve tornare alla politica e non agli eurocrati. [Paolo de Ioanna]

'L''insostenibile persistenza dei Trattati europei'
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27 Agosto 2015 - 08.17


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di Paolo de Ioanna*

Se si semplificasse e ordinasse l’enorme congerie di commenti che economisti (e commentatori vari) dedicano alla crisi della UE lungo pochi, essenziali, fuochi tematici, probabilmente emergerebbe un punto centrale di consenso e due varianti, analitico interpretative. Il punto di consenso è che la crisi in atto presenta una natura essenzialmente istituzionale. Le due varianti dicono: (a) che questa natura strutturale ha mostrato una sostanziale tenuta e adattatività (ESM, Quantitative easing, piano Junker, ecc.) e che quindi il processo di integrazione deve continuare così, con lenti e condivisi aggiustamenti, ma dentro i confini dei Trattati (no bail out, no debito pubblico europeo, ecc.) che recano in se tutta la flessibilità necessaria; (b) che è invece proprio questa struttura ad aver generato le attuali contraddizioni e dunque deve essere modificata su questioni sostanziali.

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Ora , secondo i sostenitori della (a) il principale obiettivo della integrazione sarebbe “la correzione dei difetti istituzionali che caratterizzano i paesi del sud Europa, da cui principalmente dipende l’instabilità e la bassa crescita della Eurozona”. Dunque il futuro europeo appare come un sistema politico istituzionale omogeneo con i sistemi nordici e della RFT. Si tratta della tesi che vede strettamente uniti Merkel e Gabriel. Vorrei provare a sollevare qualche dubbio sulla tesi (a), proprio sul terreno istituzionale che forse gli economisti maneggiano con qualche difficoltà; i disastri realizzati in Italia sul terreno del cd federalismo (“che non c’è”) dalla perversa alleanza tra economisti e giuristi, corroborano questa affermazione.

Se l’obiettivo istituzionale della UE è quello indicato sub (a) è cruciale il metodo : proprio perché si è preventivamente e definitivamente rinunciato al conflitto armato e le questioni devono essere risolte per via democratica, consensuale e procedurale. La UE si preoccupa infatti di verificare il tasso di democraticità dei processi politici nei paesi che intendono aderire all’Unione e dovrebbe sanzionare eventuali dubbi o lesioni del metodo democratico.

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Ora, mi sembra, che tutta la letteratura più autorevole indichi che l’esperienza istituzionale dei paesi nordici è fondata su sistemi di democrazia parlamentare, a base proporzionale, corretti con patti di coalizione vincolanti (Svezia, Finlandia, Danimarca, e la stessa RFT) e su grandi partiti che costruiscono e canalizzano il consenso. Sono sistemi fondati sul rispetto di procedure cognitive collettive che strutturano opinioni pubbliche ragionevolmente informate e organizzate intorno a vere politiche pubbliche (innovazione, trasporti, ricerca,università, ecc.) e senso della cittadinanza attiva.

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Il mercato non è una struttura naturale ed organicistica , ma una delle forme di regolazione della vita associata. Linguaggio e consenso critico sono ingredienti essenziali di queste esperienze: esse costituiscono, a mio avviso, una secca smentita dei sostenitori , in via generale e meccanica, di sistemi presidenziali o semi presidenziale, di esecutivi “ fortificati” e di premi di maggioranza, a prescindere, per domare le democrazie parlamentari che generano debito.

Se questo è vero, e se si ritiene che la crisi UE è istituzionale, le forze democratiche europee dovrebbero sostenere in Europa e per l’Europa processi analoghi: fondati sulla centralità della sintesi e dei poteri ( razionalizzati) delle istituzioni parlamentari e su alleanze che rendano stabili temi e tempi della agenda politico legislativa. Ora, tutte le analisi economiche convergono nell’indicare che una unione di Stati con una sola autorità monetaria indipendente da organi politici, non può a lungo sopravvivere senza strumenti per fronteggiare crisi di fiducia, ma soprattutto crisi derivanti dagli andamenti di cicli economici sempre più influenzati dalla globalizzazione e dalla “concorrenza-confronto” di sistemi monetari, agganciati a strutture statuali.

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In altri termini, il processo di convergenza dei paesi del Sud verso un modello nordico, se è un processo politico istituzionale, non può per definizione essere governato dentro un meccanismo che per struttura interna è auto impedito da ogni trasferimento tra Stati, via bilancio e /o via sistema finanziario-creditizio. E dove la BCE deve vigilare (sotto l’occhio arcigno della Corte di Karlshure) sul rispetto di tali regole costitutive. La RFT ha parlato di recente per bocca di Weideman e Schauble per indicare che ogni modifica dei Trattati deve intensificare il carattere tecnocratico e anti parlamentare della UE.

Ma gli economisti sub (a) sostengono tuttavia che lentamente le istituzioni si modificano e che il rispetto sostanziale delle regole di bilancio, unico vero pilastro della UE, insieme alla BCE, consentirà ai paesi del Sud di avvicinare nel tempo quelli del Nord.

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In economia il tempo è una variabile cruciale: un utilizzo intelligente (orientativo) dei modelli macro dice (vedi anche studi FMI) che le regole di bilancio numeriche e rigide sono una vera assurdità e che, con queste regole, la convergenza con le economie del Nord durerà trenta o quaranta anni e forse alla fine tutte cresceranno dello 0,… annuo. Gli effetti positivi di robusti programmi pubblici, diretti verso investimenti in infrastrutture e ricerca, finanziati con debito netto aggiuntivo, garantito dalla UE, risultano dimostrati con ampiezza di dati e riflessioni: ma sono irrimediabilmente ostruiti dalle vigenti regole.

Ci sembra in conclusione fondato sostenere che la posizione degli economisti sub (a) sia essenzialmente di natura “ morale”: essa prescinde dai dati e dalle metodologie di analisi ed esprime una disaffezione (certo in parte giustificata) sulla capacità idoneità della nostra classe politica a presidiare in modo autonomo e paritario i nostri interessi nazionali in un mondo globale. Dunque mentre i leaders storici del PD studiano (forse per recuperare il tempo perso), meglio in ultima analisi affidarsi a Merkel e Gabriel piuttosto che cercare difficili nuove alleanze.

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La conclusione di chi scrive è che gli economisti è meglio se cercano di fare il proprio mestiere; se la crisi è istituzionale, la parola deve tornare alla politica, e gli sviluppi futuri devono essere sottratti ad una tecnocrazia chiusa in un cul de sac ; ma ciò richiede appunto una teoria ed una prassi per una classe politica democratica europea, che per ora non si vede: il nostro Prodi ha messo le carte in tavola con chiarezza, ma una rondine da sola non fa primavera.

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E soprattutto occorre costruire una prospettiva politica agibile e concreta per i prossimi anni, fondata sulla forza della democrazia e su punti nitidi e comprensibili ai cittadini e ai giovani, e non sulla tattica e sulla lenta ma perdente difesa dell’esistente. Al centro di questa prospettiva dovrebbe esserci il focus di una modifica sostanziale dei Trattati.

*Consigliere di Stato.

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(26 agosto 2015)

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