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di Giuseppe Masala.
La quotazione del barile di petrolio è da sempre molto di più che un fattore di influenza della congiuntura economica internazionale ma è un vero e proprio strumento usato per ottenere risultati di natura geopolitica.
I due casi storicamente più eclatanti dell’utilizzo geopolitico del barile di petrolio sono stati:
1) L’abbandono da parte degli USA degli accordi di Bretton Woods che prevedevano la convertibilità del dollaro in oro e la conseguente implementazione di un sistema fluttuante dove però il barile di petrolio viene prezzato in dollari (petrodollaro). Tale sistema ha consentito il mantenimento dell’egemonia del dollaro negli scambi internazionali e di fatto è – assieme allo strumento militare- una colonna portante della supremazia USA nello scacchiere mondiale;
2) Il crollo del prezzo del petrolio degli anni ’80 causato dall’iperproduzione saudita con il fine di mettere in difficoltà l’URSS (grande esportatore di gas e petrolio) e che ne ha accelerato la fine.
Anche l’attuale crollo delle quotazioni del greggio ben difficilmente può essere descritto come un mero fenomeno economico. Le finalità nella scelta saudita di mantenere stabile la produzione in un contesto di calo della domanda, causata dal rallentamento della congiuntura internazionale, ha da un lato – sì – l’obbiettivo di spiazzare i tanti concorrenti (Venezuela, Russia, Iran ma anche USA che ha aumentato enormemente la sua produzione grazie alle cosiddette tecniche di fracking) ma ha anche la finalità di mettere in forte difficoltà nazioni come la Russia e l’Iran che ostacolano l’egemonia saudita nel Medio Oriente: basti pensare a tale proposito alla crisi siriana dove Iran e Russia appoggiano politicamente e militarmente quell’Assad che è avversato dai sauditi.
In questo contesto di assoluta tensione va notato che anche i paesi che in qualche modo subiscono la strategia saudita (probabilmente però avallata dagli USA) si muovono per riuscire ad attutirne le conseguenze negative. Già da tempo infatti la Russia sta ponendo in essere una strategia graduale tendente a minare l’egemonia del petrodollaro grazie alla vendita dei propri idrocarburi in valute diverse da quella statunitense, in particolare lo yuan cinese. A tale proposito è passata sotto silenzio, almeno sui media occidentali, una notizia clamorosa riguardante l’India (grande importatore di petrolio) e l’Iran (avviato a ritornare un grande esportatore dopo la fine delle sanzioni): le due nazioni si sono accordate per commerciare il petrolio in rupie indiane scavalcando completamente il dollaro americano.
Questa strategia di dedollarizzazione del petrolio non può essere considerata come una mera strategia commerciale ma come un’iniziativa che ha il fine di distruggere quel sistema monetario basato sul petrodollaro – nato grazie a Nixon nel 1971 – che è una delle chiavi dell’egemonia statunitense. Inutile ricordare inoltre che gli Stati Uniti sono i veri protettori della Casa Saud.
Come sempre i terremoti nelle quotazioni del prezzo del petrolio portano a terremoti a livello geopolitico. Non è azzardato dire che anche questa circostanza farà la Storia e deciderà se questo secolo sarà un altro secolo americano o un secolo multipolare.