'Bad bank, l''ennesima beffa'

La bad bank non risolve nessuno dei problemi di fondo del sistema bancario italiano. Ancora una volta ha vinto Bruxelles.

'Bad bank, l''ennesima beffa'
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31 Gennaio 2016 - 01.05


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di Thomas Fazi 

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Dopo un negoziato di un anno, il governo italiano ha finalmente
raggiunto un accordo con la Commissione europea in merito alla tanto
discussa bad bank. Come temevamo, si tratta di un accordo molto al
ribasso, che non risolve nessuno dei problemi di fondo del sistema
bancario. Lo scopo di tale strumento, come è noto, è (dovrebbe essere)
quello di aiutare le banche italiane a smaltire l’enorme quantità di
crediti deteriorati (crediti per i quali la riscossione è incerta o
impossibile) accumulatisi nel sistema dal 2008 ad oggi, in buona parte a
causa della crisi epocale provocata dalle politiche di austerità.

Oggi questi ammontano all’incredibile cifra di 350 miliardi (pari al
17 per cento del PIL), catalogati in quattro categorie, delle quali la
più consistente e preoccupante è costituita dai crediti in sofferenza (non-performing loans),
ossia i prestiti per i quali il debitore è già fallito, che ammontano a
circa 200 miliardi. Poi ci sono gli “incagli” (prestiti che la banca
reputa di improbabile restituzione); gli “scaduti” (da più di 90
giorni); ed i “ristrutturati” (quelli su cui la banca è già intervenuta
per facilitare il debitore sui tempi e sui tassi di restituzione).

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Una tale montagna di crediti deteriorati non costituisce solo un
freno per l’economia ma rappresenta una vera e propria bomba ad
orologeria per l’Italia e per l’unione monetaria nel suo complesso. Una
crisi bancaria del nostro paese, infatti, trascinerebbe l’intera area
euro in acque inesplorate, potenzialmente mettendo a rischio la tenuta
della moneta unica. Da cui gli sforzi del governo per cercare di
liberare le banche da una parte dalle sofferenze; sforzi che hanno
subìto una notevole accelerata nelle ultime settimane, probabilmente a
causa della recente entrata in vigore, dall’1 gennaio 2016, dell’unione
bancaria, che prescrive l’uso del bail-in
– che prevede, in caso di dissesto di una banca, che il salvataggio
venga pagato in primo luogo dagli azionisti, poi dagli obbligazionisti e
infine dai depositanti che hanno oltre 100 mila euro – come principale
strumento di risoluzione delle crisi bancarie. Questo ha fatto sì che i
titoli ed i depositi delle banche italiane siano diventati
improvvisamente molto più rischiosi; il sistema bancario italiano –
proprio a causa della sua fragilità strutturale – si è ritrovato così
esposto ad una forte sfiducia da parte dei mercati, nonché facile preda
di attacchi speculativi (come abbiamo visto nel caso del Monte dei Paschi di Siena, deciso a tavolino da tre fondi speculativi statunitensi).

A questo si deve la “staffetta” del governo delle ultime settimane
per ottenere da Bruxelles il via libera ad una bad bank, ritenuta
essenziale per stabilizzare il sistema bancario. Finora Bruxelles si era
opposta al piano del governo adducendo che essa avrebbe costituito un
“aiuto di Stato” – illegale secondo le regole dell’UE e dell’unione
bancaria – nei confronti delle banche italiane. L’approvazione del piano
rappresenta quindi una vittoria del governo? Non proprio. Una bad bank
“normale” – come quella a cui ha fatto ricorso la Spagna nel 2012, per
esempio – funziona più o meno così: si crea un veicolo societario (che
può essere interamente pubblico o pubblico-privato) che acquista dalle
banche in difficoltà i crediti deteriorati (ad un prezzo scontato ma non
eccessivamente penalizzante per le banche cedenti; nel caso della
Spagna, si è applicato uno sconto del 53 per cento) con l’obiettivo di
ricollocare sul mercato le attività ricevute (possibilmente con
profitto); queste ricevono poi una garanzia dello Stato che serve a
coprire eventuali perdite della bad bank nel caso in cui le attività
determinassero un rendimento inferiore al prezzo di acquisto. Si tratta
di una misura che ha (potrebbe avere) costi ingenti per lo Stato,
soprattutto se non si ha la “copertura” di una banca centrale – e non
solo in termini economici; la Spagna si è vista costretta a chiedere
assistenza al Meccanismo europeo di stabilità, che in cambio ha imposto
al governo spagnolo un severo programma di riforme strutturali – ma che
ha il beneficio di determinare un rapido risanamento del settore
bancario.

La bad bank italiana è tutta un’altra cosa. Innanzitutto, l’accordo
raggiunto con Bruxelles non prevede una singola bad bank “di sistema”
pubblico-privata, sul modello spagnolo, ma la creazione di tante “mini
bad bank” private – dette special purpose vehicles (SPV),
“società veicolo” gestite da operatori internazionali specializzati nel
recupero crediti – a cui le banche in difficoltà potranno cedere i
crediti in sofferenza; queste società veicolo, poi, trasformeranno quei
crediti in titoli cartolarizzati da destinare al mercato. Lo Stato, da
parte sua, si impegna ad offrire alle banche una garanzia statale sui
crediti deteriorati (GACS). A rigor di logica, questa dovrebbe servire,
come negli altri paesi, a far sì che le banche non siano costrette a dar
via i crediti al prezzo di mercato (ovviamente molto basso), poiché
questo aprirebbe una voragine nei bilanci delle banche in questione
(esattamente quello che in teoria la bad bank servirebbe ad evitare).
Più è basso il costo dell’assicurazione pubblica, infatti, e maggiore è
il prezzo al quale le banche potrebbero cedere i crediti deteriorati. Se
quel costo fosse più alto, invece, la garanzia potrebbe risultare
inappetibile e quindi inservibile ai fini dello sgravamento dei crediti
inesigibili dal bilancio delle banche. Su questo punto, però, la
Commissione europea è stata molto chiara: «Le garanzie saranno prezzate a condizioni di mercato
in modo che non costituiscano aiuto di Stato», ha detto. Si tratta di
un evidente paradosso: «un intervento dello Stato senza aiuto di Stato»,
lo definisce causticamente un articolo de lavoce.info.

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Il problema a questo punto diventa stabilire quale sia il “prezzo di
mercato” dei crediti deteriorati. Questo, ha spiegato il MEF con un
comunicato, sarà calcolato prendendo come riferimento il prezzo dei credit default swaps (CDS) degli
emittenti italiani con un livello di rischio corrispondente a quello
dei titoli garantiti che avranno preventivamente ottenuto un rating
uguale o superiore all’investment grade da un’agenzia di rating.
Questo solleva diverse problematiche. Innanzitutto, legare il prezzo dei
crediti deteriorati al valore dei CDS delle banche appare decisamente
rischioso. Come abbiamo visto con i mutui subprime o con il debito
greco, i CDS non rappresentano solamente uno strumento per proteggersi
da un’eventuale riduzione o azzeramento del valore del titolo
sottostante né sono un semplice riflesso degli “umori” del mercato, ma
possono essere impiegati anche come vero e proprio strumento
speculativo. I cosiddetti “CDS nudi”, infatti, possono essere
sottoscritti in assenza di qualsivoglia rischio creditizio effettivo,
determinando così una situazione in cui i possessori di CDS hanno tutto
l’interesse affinché scatti il credit event – nell’esempio in
questione, il fallimento di una o più banche – determinando così
l’esborso del CDS. Va da sé che la sottoscrizione di CDS nudi aumenta
con l’aumento del rischio di insolvenza di un determinato credito.

In questo senso, legare il prezzo della garanzia statale – e dunque
la possibilità delle banche di liberarsi dei propri crediti deteriorati
senza incorrere in perdite di bilancio eccessive – al valore dei CDS
delle banche stesse vuol dire, come minimo, esporsi al rischio di una
classica profezia che si autoavvera (la perdita di fiducia nei confronti
del sistema bancario italiano fa aumentare il valore dei CDS, il che
rende più difficile per le banche liberarsi dei crediti che hanno in
pancia, il che aumenta il rischio di default, il che fa aumentare il
valore dei CDS, ecc.). Ma vuol dire anche mettere il destino delle
banche italiane nelle mani di chi potrebbe avere interesse a provocare
il fallimento delle stesse. A questo riguardo, è opportuno notare che
dall’1 gennaio 2016 i prezzi dei CDS del settore bancario italiano sono
aumentati vertiginosamente, a riprova del fatto che i mercati sono corsi
a ripararsi da eventuali perdite, ma hanno anche cominciato a
scommettere sul crack del nostro sistema bancario.

C’è poi un altro problema. Se il Tesoro rilascerà la garanzia solo ai
titoli con minore rischio e solo a patto che abbiano un certo rating,
significherà che soltanto i crediti considerati più sicuri saranno
coperti dalla garanzia di Stato. Alcune banche – quelle più solide –
potranno liberarsi di una buona parte delle loro sofferenze. Altre
banche avranno il problema opposto, e saranno quelle che già oggi stanno
messe peggio. Il meccanismo, in altre parole, aiuterà i più forti e
sarà inutile per i più deboli. E non cambierà di molto la situazione del
sistema nel suo complesso.

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Sulla base delle informazioni (ancora piuttosto vaghe) di cui
disponiamo al momento, infatti, possiamo ipotizzare che i prezzi di
cessione delle sofferenze saranno decisamente bassi. L’agenzia Reuters
ha riportato che il prezzo di cessione sarà pari a circa il 20-30 per
cento del loro valore nominale. Ciò a fronte di livelli di copertura
medi del 56,5 per cento per i prestiti in sofferenza del settore: 40-50
per cento per le piccole banche italiane e 60-65 per cento per Intesa
Sanpaolo, Unicredit e MPS. Questo vuol dire che le banche – con o senza
la bad bank – dovranno affrontare ulteriori perdite e avranno ugualmente
bisogno di nuove e massicce ricapitalizzazioni nei prossimi anni. E si
parla di decine di miliardi. Lo ha spiegato bene, tra gli altri, Silvia Merler dell’istituto Bruegel.
Nel frattempo, il sistema bancario italiano continua a rimanere seduto
su una bomba pronta ad esplodere. Tutto questo è molto chiaro al
mercato: appena conosciuti gli estremi dell’accordo europeo, i titoli
bancari italiani hanno incassato perdite pesanti, con Unicredit che per esempio ha perso il 3 per cento.

In sostanza, il ricorso al bail-in, per molte banche italiane, viene
solo rimandato di un po’. Sembra saperlo anche il governo, che difatti
adesso sembrerebbe intenzionato a voler ridiscutere la norma. Il sasso
nello stagno l’ha gettato la Banca d’Italia. Il vicedirettore generale
dell’istituto di via Nazionale, Fabio Panetta, non ha usato mezze
parole: «È auspicabile da parte del legislatore sia italiano sia europeo
una attenta rivisitazione delle modalità e dei tempi». Un appello,
all’Italia e all’Europa, che rilancia le perplessità di via Nazionale
sull’impianto entrato in vigore all’inizio dell’anno. Per la Banca
d’Italia, infatti, bisognava aspettare il 2018 perché, viene spiegato,
questo meccanismo «può aumentare i rischi di instabilità sistemica
provocati dalla crisi delle singole banche». Un elemento, su tutti,
preoccupa Bankitalia: mettere a repentaglio la fiducia, considerato
l’elemento cardine su cui poggia l’attività bancaria.

Dietro la volontà di rivedere tempi e modalità del bail-in c’è anche
il supporto del governo secondo quanto trapela da ambienti
dell’esecutivo. Anche il centro studi di Confindustria è andato giù
pesante: per viale dell’Astronomie le nuove norme sono penalizzanti per
l’Italia e costituiscono «un ostacolo serio alla risalita dell’attività
economica».

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Ben vengano questi ripensamenti, anche se ci si chiede a cosa
stessero pensando i nostri politici – ed in particolare i rappresentati
dell’attuale partito di governo – quando nel 2013-4 votarono quasi
all’unanimità, sia al Senato che al Parlamento europeo, per l’unione
bancaria (bail-in compreso, ovviamente). La cosa diventa semplicemente
grottesca, poi, se si pensa che solo qualche settimana fa – mentre Renzi
tuonava contro Bruxelles – in plenaria a Strasburgo il Parlamento
europeo, con i voti del gruppo socialista, votava il “Report sul bilancio e le sfide concernenti la regolamentazione dell’UE in materia di servizi finanziari”,
in cui non solo si inneggia alla bontà del bail-in (al paragrafo 14,
per chi fosse interessato), ma addirittura viene sottolineata la
necessità (al paragrafo 24) di affrontare le interdipendenze tra rischio
sovrano e rischio bancario «attraverso un’azione congiunta», avallando
di fatto la soluzione caldeggiata dalla Germania per la ristrutturazione
dei debiti pubblici: obbligare gli istituti a considerare i titoli di
Stato che hanno in pancia non più come privi di rischi. Una soluzione
che di fatto costringerebbe le banche a scaricare i loro titoli di Stato
vendendoli sui mercati in maniera massiccia, causando un circolo
vizioso che porterebbe in breve tempo al collasso del sistema. Su una
cosa possiamo stare certi: il peggio deve ancora arrivare.
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Fonte: http://www.eunews.it/2016/01/29/bad-bank-lennesima-beffa/49394

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