L'economia neoclassica? Una pseudoscienza

'Una superstizione con conseguenze negative in politica, nella società, nella cultura e nella ricerca scientifica. L''intervista a Francesco Sylos Labini.'

L'economia neoclassica? Una pseudoscienza
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21 Giugno 2016 - 22.27


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Conversazione con Francesco Sylos Labini di Francesco Suman e Olmo Viola
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L’economia è una scienza? I modelli
elaborati dagli attuali economisti neoclassici hanno lo stesso potere
predittivo delle teorie fisiche? Sono domande importanti perché come i
modelli dei fisici sono usati per costruire razzi che mandano in orbita
satelliti che ci permettono di usare i nostri smartphones e internet,
così i modelli degli economisti neoclassici sono usati dai politici per
prendere decisioni che hanno conseguenze sui servizi pubblici,
sull’economia reale e sulle nostre scelte di vita. A quanto emerge da
una recente disamina l’economia neoclassica può essere classificata come
pseudoscienza e comporta una serie di conseguenze negative a vari
livelli: in politica, nella società, nella cultura e nella ricerca
scientifica. Di questo si discute nell’intervista con il fisico
Francesco Sylos Labini.


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Un modello teorico che ambisca a diventare
una spiegazione scientifica della realtà dovrebbe produrre predizioni
su fatti nuovi che permettano di controllarne l’affidabilità ed
eventualmente confutarlo. Il successo empirico è un buon indicatore, non
certo infallibile, dell’alta probabilità che una teoria possa aver
colto una qualche regolarità della realtà, e possa conseguentemente
divenire utile per pianificare azioni sulla stessa realtà. Un modello
ipotetico che abbia ambizioni esplicative ma che fallisca il controllo
empirico dovrebbe essere abbandonato dai ricercatori, e questo
solitamente avviene nelle scienze sperimentali. Talvolta è possibile
aggiungere ipotesi ausiliarie, ad hoc, che temporaneamente
coprano le falle della teoria, ma un eccessivo accumulo di queste
anomalie è segno di scarsa salute della teoria stessa, che andrebbe
sostituita con una più aggiornata. Capita tuttavia che una comunità
scientifica si affezioni particolarmente a un modello esplicativo e si
dimostri talvolta restia ad abbandonarlo, nonostante i suoi ripetuti
fallimenti predittivi. Se le resistenze sono dovute a convinzioni
arbitrarie derivanti da una determinata visione del mondo (Weltanschauung),
e non da ragioni veramente scientifiche, la teoria difesa strenuamente
assume i caratteri della pseudoscienza. Continuare ad affidarsi a un
simile strumento esplicativo per interpretare la realtà appare
quantomeno irresponsabile, in quanto viene spacciata come affidabile una
teoria che presenta troppi e compromettenti problemi.


La
scientificità è dunque un’etichetta prestigiosa di status e non è
facile da acquisire. Ne consegue che talvolta ci si auto-attribuisce uno
statuto di scientificità proprio per ammantarsi di autorità. Il
ricercatore Francesco Sylos Labini, fisico teorico che lavora presso il
centro Enrico Fermi di Roma e redattore della rivista online ROARS [1], si è domandato nel suo ultimo libro, Rischio e previsione – cosa può dirci la scienza sulla crisi [2],
se l’attuale teoria economica neoclassica che informa la politica
internazionale rispetti le regole basilari del gioco scientifico. Ne
segue una critica ai principi dell’economia mainstream e una
disamina delle conseguenze che investono ricerca scientifica e politiche
nazionali. Il quesito sarebbe dovuto sorgere in ognuno di noi dopo che
la grande crisi del 2008 si scatenò investendo l’economia mondiale,
senza che la teoria economica corrente fosse stata in grado di
prevederla. Ma le anomalie possono essere ignorate se esiste una cintura
di protezione abbastanza forte da disinnescarle, e in questo caso si
può pensare all’egemonia culturale che l’economia neoclassica è riuscita
a imporre negli ultimi decenni. Parlare di questi problemi diviene più
che mai necessario dato che tali modelli impongono dogmaticamente una
certa interpretazione della realtà (definendo quantitativamente ad
esempio l”idea di benessere) generando effetti collaterali che si
allargano a ogni angolo della nostra società – alle istituzioni, ai
servizi pubblici, alla ricerca scientifica – e non ultimo influenzano
profondamente la qualità della nostra vita. Di questo si discute
nell’intervista con Francesco Sylos Labini.

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M = Olmo Viola e Francesco Suman per La Mela di Newton


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FSL= Francesco Sylos Labini


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M: Lei racconta nel suo libro che nel novembre del 2008 la
regina Elisabetta II, durante una visita presso la London School of
Economics, chiese alla platea gremita di insigni professori come mai non
avessero previsto la crisi. Si potrebbe pensare che per rispetto e
imbarazzo gli astanti non trovarono né avanzarono una risposta subitanea
che soddisfasse la “domanda della Regina”. Certo ci si sarebbe
aspettati che da insigni cultori della “scienza economica” arrivasse una
spiegazione puntuale e appunto “scientifica” del fenomeno, ma così non è
stato. Quella domanda celava fra le sue pieghe una sorta di
cortocircuito (se così lo si può definire) nel quale sono incappati
molti economisti. Quale vaso di Pandora ha scoperchiato la domanda della
Regina?


FSL: La domanda della Regina è stata una cartina di tornasole per
mostrare l’irreale dibattito in campo economico. È stata una delle prime
volte che gli economisti, e in particolare quelli appartenenti alla
scuola mainstream, sono stati chiamati a spiegare le loro posizioni e le
ragioni del fallimento delle previsioni di fronte all’opinione
pubblica. In questo modo il dibattito è stato portato all’attenzione di
un vasto pubblico, invece di essere relegato all’interno della comunità
academica o, peggio ancora, all’interno della stessa scuola mainstream
di cui quasi tutti i docenti della LSE fanno parte. Infatti, la scuola
neoclassica è stata ampiamente criticata dalle altre scuole di pensiero
economico, ma quel tipo di discussione è stata troppo tecnica per
raggiungere un’ampia audience. All’interno della scuola neoclassica
l’analisi sulla causa del fallimento delle previsioni della più grande
crisi economica degli ultimi ottanta anni è stata completamente
autoreferenziale e auto-assolutoria. Al contrario, la discussione su
questo fatto deve essere portata davanti al più ampio pubblico possibile
perché le decisioni che sono prese in politica economica in molti paesi
e in tutte le principali istituzioni internazionali (FMI, OCSE, WB,
WTO, ecc.) sono suggerite o anche prese direttamente da economisti
neoclassici in base a modelli che hanno certi fondamenti teorici. È
dunque cruciale che i fondamenti teorici di questi modelli siano
discussi di fronte all’opinione pubblica, proprio perché tutti ne
subiscono le conseguenze. Inoltre, non trattandosi di gravità
quantistica o della teoria delle stringhe, non è neppure molto
complicato spiegare in termini semplici di cosa si tratta in modo che
tutti possano farsene una opinione.

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M: Già a partire da questa sua prima risposta si aprono e si
intrecciano molteplici questioni fondamentali che meritano di essere
approfondite. Pensiamo potrebbe essere fruttuoso percorrere una strada
esplicativa a partire dai problemi epistemologici che presenta la teoria
mainstream, per giungere poi ai problemi socio-politici che ne
conseguono. Gli economisti neoclassici sono stati capaci di organizzare
un paradigma che si è imposto in una molteplicità di settori e
istituzioni, arrivando a monopolizzare completamente la discussione
economica che informa le decisioni politiche. Quali sono i principi alla
base di questo modello?

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FSL: Il nucleo dell’analisi economica standard, che rappresenta anche
un’importante base per le sue numerose applicazioni nel mondo della
politica, è la teoria dell’ equilibrio competitivo generale. La sua
formulazione moderna è dovuta all’economista francese Leon Walras e in
seguito è stata sviluppata da tanti autori a cominciare dal contributo
fondamentale di Gerard Debreu e Kenneth Arrow. Dal lavoro di Walras in
poi gli economisti neoclassici concettualizzano gli agenti, che possono
essere le famiglie, le imprese, ecc., come entità razionali che
ricercano i «migliori» risultati, cioè i massimi guadagni possibili,
situazione che da un punto di vista matematico equivale a trovare il
massimo di un’opportuna funzione di utilità. Arrow e Debreu grazie a una
serie di assunzioni teoriche (che sono del tutto irrealistiche) furono
in grado di provare l’esistenza dell’equilibrio nel mercato. Tale
situazione di equilibrio corrisponderebbe a ciò che gli economisti
chiamano «l’ottimale di Pareto», cioè una situazione in cui nessun
arrangiamento concepibile dei prezzi o delle quantità di prodotti,
persino gestite da un pianificatore centrale infinitamente intelligente,
porterebbe a un miglior esito senza perdite per almeno un produttore o
un’impresa. La dimostrazione dell’esistenza di un equilibrio competitivo
dovrebbe permettere di comprendere la maniera in cui funziona
un’economia di mercato, dove ognuno agisce indipendentemente
dagli altri. Tuttavia, non è mai stato dimostrato, anche usando ipotesi
assolutamente irrealistiche, che permettono di semplificare il problema
in modo del tutto irragionevole, che un equilibrio concorrenziale
esista, sia unico e che, inoltre, sia stabile – cosa fondamentale perché
tutta questa costruzione abbia un senso.


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I problemi concettuali con quest’approccio sono davvero enormi e sono
stati dibattuti da tantissimi economisti le cui critiche sono state
nascoste sotto il tappeto e lasciate senza risposta. Diversi fisici
hanno anche cercato di capire il problema, ma sono rimasti generalmente
perplessi da quest’approccio al problema economico. Da più di
cinquant’anni, infatti, si conoscono e si studiano sistemi fisici
complessi per i quali, anche se uno stato di equilibrio stabile esiste
in teoria, esso può essere totalmente irrilevante in pratica, perché il
tempo per raggiungerlo è troppo lungo. Altrimenti vi sono sistemi che
sono intrinsecamente fragili rispetto all’azione di piccole
perturbazioni, evolvendo in modo intermittente con un susseguirsi di
epoche stabili intervallate da cambiamenti rapidi e imprevedibili. In
altre parole, per molti sistemi fisici l’equilibrio stabile non è una
condizione raggiunta in maniera naturale: diversi sistemi raggiungono
invece una situazione di meta-stabilità e non un vero e proprio
equilibrio, come quello di un gas in una stanza isolata o di una pallina
in fondo a una valle, cioè una situazione di temporanea stazionarietà
ma di potenziale instabilità, tanto che è sufficiente una piccola
perturbazione per causare grandi effetti. Come succede quando, per
esempio, si accumula l’energia potenziale per effetto del moto relativo
di due faglie tettoniche. Questa energia, quando supera una certa soglia
critica, sarà a un certo punto rilasciata sotto forma di onde sismiche e
cioè ci sarà un terremoto: la dinamica dei terremoti è dunque
rappresentata da periodi di apparente quiete in cui il sistema si carica
e terremoti improvvisi (ciclici e non periodici) in cui l’energia
accumulata è rilasciata.


Proseguendo in questa metafora ci possiamo chiedere quale sia la
causa dell’accumulazione di energia potenziale nel sistema economico,
che è rilasciata al momento di una crisi. A mio parere la causa è
proprio la fiducia cieca e immotivata nell’autoregolamentazione dei
mercati, da cui consegue l’enorme sviluppo di strumenti finanziari che
grazie alla liberalizzazione dei mercati e alla loro deregolamentazione,
secondo il credo teorico, dovrebbero distribuire il rischio in maniera
ottimale. Esattamente il contrario di quello che succede in realtà, come
purtroppo abbiamo sperimentato.

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M: Si verifica dunque una discrasia tra modello teorico e
realtà. I modelli economici si basano su assunzioni che risultano essere
approssimazioni della realtà troppo semplicistiche. Gli economisti
paiono perdersi in un iperuranio di bei modelli, coerenti solo
matematicamente, ma che falliscono sistematicamente nelle loro
previsioni. E imperterriti proseguono nel loro vilipendio della realtà. A
suo parere quanto è legittimato un economista a dirsi scienziato o
l’economia a definirsi scienza?

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FSL: Uno dei problemi cruciali è proprio quello. Si badi bene che
l’economia è una scienza sociale molto difficile, interessante e
affascinante. Ma non è questo il punto della discussione sul carattere
pseudo-scientifico dell’economia neoclassica che usa una gran quantità
di matematica per dare l’impressione di risolvere il problema economico
attraverso teoremi rigorosi. Anzi, quest’apparente veste
tecnico-scientifica non corrisponde, come abbiamo discusso nel libro in
dettaglio, né alla capacità di fare previsioni per il futuro né allo
sviluppo di una tensione per confrontare i modelli con le osservazioni
empiriche.


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In realtà l’apparente veste tecnico-scientifica è un trucco che serve
solo a far passare quel tipo di economia per una scienza capace di
trovare in maniera univoca le risposte alle diverse questioni che
riguardano la vita economica di un paese, di una società o di un
individuo, in altre parole è una maniera artificiosa per far apparire le
scelte politiche come risultati tecnico-scientifici, e quindi neutri.


In altre parole: vogliamo giocare a fare gli scienziati? Bene: gli
scienziati spiegano fenomeni, nel senso che sono capaci di formulare
modelli per spiegare le osservazioni in maniera precisa e sono anche
capaci di fare delle previsioni per il futuro (e magari si assumono
anche le responsabilità dei propri fallimenti). Gli economisti, e qui mi
riferisco ai neoclassici e più tecnicamente all’assunzione di
equilibrio che sottende buona parte dell’economia moderna (anche quella
che si discosta dal cosiddetto neoliberismo), non sono capaci né di fare
previsioni di successo né di spiegare in modo preciso la realtà come
avviene per le scienze dure. Tantomeno traggono conseguenze dai loro
fallimenti, quale ad esempio eclissarsi dal dibattito pubblico come
avrebbero dovuto fare molti di loro già allo scoppio della crisi.

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In pratica si tratta di una pseudo-scienza e di pseudo-scienziati,
non diversi dagli astrologi che anche usano la matematica e un
formalismo apparentemente rigoroso ma completamente irrilevante per
spiegare la realtà. Questa pseudo-scienza è utilizzata per supportare
interessi politici ed economici ben precisi e questo a mio parere è
particolarmente scorretto proprio rispetto all’etica di uno studioso.

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M: Ricapitolando: i modelli degli economisti risultano troppo
astratti e sfuggono alla falsificazione della realtà fallendo le
previsioni, non spiegano i fenomeni, fanno un uso strumentale-retorico
della matematica, non ottengono sostegno empirico. Questi sono marchi
tipici della pseudoscienza e l’attività dell’economista può essere
secondo lei accostata a quella dell’astrologo che predice il futuro in
base a incroci casuali di astri. Nel loro modello tutto funziona alla
perfezione, peccato che la realtà non funzioni così. Ci si potrebbe
domandare se forse non stiano cercando qualcosa che non c’è, ponendosi
le domande sbagliate. Le regolarità della natura che la ricerca
scientifica cerca di individuare sono quasi sempre indipendenti
dall’attività umana, dalle nostre decisioni, dalla nostra storia. Le
regole delle società umane e le relazioni economiche sono invece
qualcosa che dipende da noi in modo essenziale, sono il risultato di
interazioni e contrattazioni, di una lunga storia tutta umana. Tentare
di estrapolare leggi universali utili poi a elaborare schemi predittivi
dalla società umana non è paragonabile al tentativo di estrapolare leggi
di natura dal gioco del Monopoli?


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FSL: Bisogna sempre precisare che stiamo discutendo di quegli
economisti neoclassici che usano in maniera infondata scientificamente
idee e concetti che sono stati sviluppati magari cinquanta anni fa da
studiosi e intellettuali di un certo livello. Le leggi dell’economia, a
differenza di quelle naturali, non sono né universali né immutabili.
Inoltre, mentre nel caso dei fenomeni naturali non si può intervenire
sulle leggi che regolano la loro dinamica, nel caso dell’economia queste
leggi sono frutto delle decisioni umane e dunque possono essere
cambiate dall’azione politica. Per questo motivo i decisori politici,
così come l’opinione pubblica nel suo insieme, dovrebbero essere molto
sensibili al tema delle previsioni e alla capacità dei modelli teorici
di spiegare la realtà.


Quando si parla di economia, infatti, non è possibile rapportarvisi
alla stregua di una disciplina delle scienze naturali, poiché l’oggetto
del suo studio è la società con caratteristiche storicamente
determinate. Guardare a un «modello» piuttosto che a un altro
nell’interpretazione fondamentale dei fatti economici non significa
quindi semplicemente introdurre assunzioni alternative rispondenti a uno
statuto epistemologico in grado di testarne la validità – così come
accade nelle scienze naturali. Piuttosto, significa sposare delle vere e
proprie Weltanschauungen diverse, visioni alternative del
mondo in cui la componente egemonica della cultura dominante in ogni
dato periodo svolge un ruolo determinante. In questo senso è possibile
affermare che la genesi della crisi, il suo svolgimento, le possibilità
di uscirne e gli effetti sulle economie che la attraversano sono
intrinsecamente collegati a un problema di egemonia culturale. Il
perdurare delle politiche di austerità, malgrado sia stato ampiamente
mostrato che stiano aggravando la crisi piuttosto che mitigarla, è un
esempio eclatante di questa situazione. L’origine della crisi è dunque
prima che politica, culturale.

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M: L”egemonia culturale di cui lei parla si realizza in una
vera e propria imposizione di una visione del mondo che viene traslata
anche ad altri ambiti della società, dalla politica ai media, dai quali
abbiamo sentito ripetere come un mantra che “non esistono alternative”.
Lei sostiene che anche la ricerca sembra soffrire, invece che giovarsi,
di un”ipercompetitività basata sul “dogma dell”eccellenza” veicolata da
questa visione del mondo. Nel suo libro dedica una parte importante al
ripensamento del ruolo della ricerca e delle modalità dei finanziamenti a
essa assegnati, proprio come strategia di uscita da una visione del
mondo dogmatica e al contempo come fucina di nuove soluzioni. Perché
l”investimento in ricerca è un passaggio fondamentale per risolvere i
problemi di un”economia e di una scienza economica che non godono di
buona salute?

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FSL: Penso che un investimento in ricerca più solido in un paese come
il nostro, ma anche negli altri paesi dell’area mediterranea,
rappresenti una condizione necessaria, ma non sufficiente, per iniziare
quella lunga e tortuosa via che potrà farci uscire dalle diverse crisi
in cui siamo immersi: culturale, politica, economica. Ci dovrebbero
essere due chiare priorità: dare la possibilità alle giovani generazioni
di avere un ruolo nella ricerca e nella società e scoperchiare il tappo
che sta soffocando la ricerca moderna. Si tratta evidentemente, anche
in questo caso, di problemi che non hanno solo una dimensione nazionale,
ma che hanno anche una caratterizzazione internazionale.


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Da una parte la marginalizzazione delle nuove generazioni e la loro
progressiva precarizzazione in nome dell’efficienza che scaturirebbe
dalla sempre più pressante competizione sono un fenomeno di dimensioni
internazionali. Ma sicuramente i paesi dell’Europa del sud, e
all’interno di questi le aree geografiche più svantaggiate (che nel
nostro paese coincidono con quelle meridionali), sono sicuramente i più
colpiti da questo fenomeno: paradossalmente sta avvenendo un
soffocamento proprio di quelle energie che dovrebbero fornire le nuove
idee e prospettive di cui abbiamo un disperato bisogno.


Dall’altra parte la pressante competizione unita alla scarsità di
risorse per la ricerca sta rendendo la gran parte della ricerca
accademica una corsa sfrenata al conformismo: una ricerca del consenso
sociale invece che una ricerca della verità scientifica. Sappiamo bene
però, e la storia ce lo insegna, che le idee innovative provengono molto
spesso, se non sempre, da scienziati che intraprendono ricerche che si
discostano da quelle che fanno la maggior parte degli altri. Il
conformismo sta dunque soffocando la ricerca attuale, e questo è un
fenomeno a livello internazionale, anche se nel nostro paese ci mettiamo
del nostro con un’agenzia della valutazione che ha introdotto criteri e
parametri sconosciuti a livello internazionale e che aggravano questa
tendenza.

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D’altra parte non vedo altre possibilità per un paese come il nostro.
Al contrario di quello che pensa, ad esempio, l’economista Luigi
Zinagles, l’Italia non può avere un futuro nel turismo lasciando stare
la ricerca nei campi di punta come le bio-tecnologie, anche se
ovviamente il turismo è e rimarrà una risorsa importante per il nostro
paese. Tuttavia una delle più importanti economie del mondo per rimanere
tale deve puntare a una specializzazione produttiva in cui la
conoscenza, e cioè la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica,
giochi un ruolo chiave. Per far sì che questo avvenga, data la struttura
del nostro sistema produttivo dominato da piccole e medie imprese che
non investono in ricerca e innovazione, c’è bisogno che lo stato faccia
uno sforzo d’investimenti di una certa dimensione. Ricordiamoci che
negli Stati Uniti la mano visibile del mercato è operativa grazie a un
investimento di 40 miliardi di dollari all’anno in ricerca fondamentale,
investimento che ha rappresentato il traino per lo sviluppo tecnologico
e scientifico di quel paese. Solo nei paesi periferici si sente parlare
di puntare sul turismo e lasciar perdere l’università e la ricerca:
un’altra prova, se ce ne fosse ancora bisogno, dell’impreparazione
tecnica di questo genere di economisti e del ruolo politico deleterio
che svolgono.

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M: I finanziamenti alla ricerca di base dovrebbero essere
fondamentali per diversificare la ricerca e sottrarla al conformismo
accademico. Ma a dispetto di ciò il maxi finanziamento europeo allo
Human Brain Project [3]
è stato un esempio, per altro molto criticato dalla stessa comunità
scientifica, di “big science” calata dall”alto, che impone una linea di
ricerca troppo rigida su un tema, la comprensione del cervello umano,
che ha bisogno quanto mai di pluralità di vedute. In Italia lo Human
Technopole che sorgerà sulle ceneri di EXPO riceverà un finanziamento di
un miliardo e mezzo di euro nei prossimi 10 anni, mentre i Progetti di
Rilevante Interesse Nazionale (PRIN) prevedono la spartizione di 92
milioni di euro per progetti triennali provenienti da tutte le aree
scientifico-disciplinari. Perché la classe dirigente attuale si aspetta
che questa sia una strategia vincente, mentre lei nel suo libro
argomenta nella direzione opposta?


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FSL: Purtroppo l’egemonia culturale che abbiamo visto essere presente
nell’economia ha percolato in tutta la società e specialmente tra le
classi dirigenti che si accontentano di ricette superficiali e
ideologiche, potremmo dire mitologiche, sul funzionamento della ricerca e
dell’istruzione superiore. Ormai per gli stati la panacea di tutti i
problemi, nel campo dell’istruzione superiore e della ricerca, è
l’aspirazione ad avere l’università di Harvard nel proprio territorio:
quello che chiamo il “modello Harvard here”. Come se questa fosse la
soluzione a tutti i problemi e come se bastasse avere una o qualche
università nelle prime cento posizioni al mondo per trasmettere
conoscenza e capacità a tutto il sistema. Questa è una visione
ideologica che si rifà alla trickle down economics (economia
dell’”effetto sgocciolamento”) e di cui abbiamo già visto gli effetti
nella società: accentramento della ricchezza in una piccola élite e
impoverimento progressivo di tutto il resto della popolazione.


Quello che sottende questo modello è una pianificazione top-down per
poter sviluppare ricerca e didattica di alto livello. In realtà questo
modello iper-competitivo somiglia ogni giorno di più al tanto vituperato
modello centralizzato di sovietica memoria in cui lo stato cercava di
programmare come, quando e perché la ricerca dovesse essere svolta. La
spinta per questo tipo di politica è di nuovo una ignoranza strutturale
su come funziona la ricerca in realtà: la diversificazione invece che
l’accentramento è la chiave per lo sviluppo di un sistema di ricerca
innovativo. Questo è il risultato che si può osservare essersi
realizzato nei maggiori paesi industrializzati. D’altro canto la
canalizzazione dei fondi di ricerca su determinati temi sta soffocando
l’innovazione: la storia della scienza, infatti, ci insegna che non è la
competizione tra i singoli ma la competizione tra le idee e tra i
progetti di ricerca alternativi la spinta propulsiva del progresso
scientifico e tecnologico. Inoltre questa tendenza permette un controllo
politico sui temi della ricerca: questo è il caso dei campi più vicini a
interessi immediati politici ed economici. Nel nostro paese, per fare
un esempio, gli esperti valutatori per l’area economica erano anche
membri, per la maggior parte, di un partito politico (Fermare il
Declino, il cui leader era Oscar Giannino): un caso allarmante ed
evidente di ingerenza della politica nella scienza e nella ricerca.

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M: Gli atenei sono diventati, lei scrive, specchio della
disuguaglianza economica e sociale del paese. Pochi virtuosi ottengono i
finanziamenti di merito e molti rimangono a bocca asciutta. In questo
ci vede anche una colpa dei metodi di valutazione del “merito” (vedi VQR
– Valutazione della Qualità della Ricerca) che contribuiscono a
beneficiare chi già appartiene a un élite ristretta? Come si potrebbe
arrivare alternativamente a una ricerca più cooperativa e meno
competitiva?

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FSL: Ci sono varie questioni che s’intrecciano: (1) la parte premiale
del fondo di finanziamento ordinario è un nome di orwelliana memoria.
Non c’è alcun fondo premiale, c’è il fondo ordinario decurtato del 20%
rispetto al 2008. Una parte di questo fondo è chiamato premiale, ma
appunto non è un nome corretto perché la parola premio fa immaginare
qualcosa in più. Invece si tratta di qualcosa che è molto meno per molti
e qualcosa poco in meno per pochi altri. Tutti gli atenei hanno subìto
un taglio delle risorse (in una situazione in cui il finanziamento già
non era al pari dei paesi con cui vorremmo competere), ma molti l’hanno
subìta più di altri. In questa situazione la valutazione è stata usata
come uno strumento per drenare risorse ad alcuni atenei, in particolare
quelli del centro sud, per trasferirli agli atenei del centro nord. (2) I
criteri e le modalità con cui è stata fatta la ripartizione del fondo
premiale della VQR sono da una parte completamente arbitrari, cioè non
corrispondono affatto alla “misura” della “qualità” della ricerca, e
dall’altra non trovano riscontro in alcun altro esercizio di valutazione
nazionale effettuato sul pianeta Terra. (3) Nel Regno Unito, ad
esempio, non si mettono in competizione per risorse scarse le università
della Scozia con Oxford e Cambridge ma si è diviso il paese in tre
macroregioni per non creare degli squilibri geografici, come sta invece
accadendo da noi. Per fare un esempio le università della Sardegna sono
vicine alla chiusura: ha senso chiudere delle università? (4) La VQR è
un esempio di governo attraverso i numeri: la politica scientifica e
dell’istruzione superiore in un paese avanzato non può essere fatta in
questo modo e soprattutto non può essere lasciata nelle mani di gente
incompetente che la interpreta in questo modo. (5) Per quanto mi
riguarda prima di spendere circa 200 milioni di euro per fare la VQR mi
chiederei se ad esempio nel Regno Unito, dove si fa da una trentina
d’anni, un esercizio di valutazione di questo tipo ha aumentato la
qualità della ricerca. La mia risposta, da quello che ho letto nella
letteratura, è negativa. (6) La risposta alla vostra domanda “Come si
potrebbe arrivare alternativamente a una ricerca più cooperativa e meno
competitiva?” è semplice: distribuire risorse attraverso progetti a chi è
capace di proporre idee innovative. Dunque è necessario aprire bandi
con finanziamenti piccoli, medi e grandi. Bandi che abbiano scadenze
annuali, o anche semestrali, e in cui i tassi di accettazione si
aggirino intorno al 30% almeno. Invece di spendere 200 milioni in un
esercizio di valutazione che non solo è inutile ma è pure dannoso, in
quanto premia chi è già premiato e continua a perturbare l’oggetto di
valutazione, cioè il ricercatore, con criteri senza senso. Bisogna
finanziare progetti di diversa natura lasciando ampi spazi ai giovani. È
necessario cambiare tutto nella gestione della ricerca che si è creata
negli ultimi vent’anni perché è tutto profondamente sbagliato.

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M: Tuttavia, ad essere realisti, non si può negare che non
tutti i ricercatori e docenti producono la stessa qualità di ricerca: un
qualche parametro trasversale di valutazione va trovato. Vi è una parte
propositiva nel suo libro? In altri termini, anche il bando
diversificato con un 30% di esiti positivi richiede una selezione e una
valutazione, ma di che tipo? Solo a priori o anche a posteriori per
verificare come sono stati impiegati i soldi pubblici?


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FSL: Nel mio libro discuto il problema del finanziamento ai progetti.
In genere ci si concentra esclusivamente sull’idea di rendere la
ricerca più conveniente ritirando i fondi ai «cattivi ricercatori» per
darli piuttosto ai «buoni ricercatori». Non ci si preoccupa della
possibilità di fare un errore di questo tipo: ritirare i finanziamenti
ai ricercatori che avrebbero compiuto importanti progressi se la loro
ricerca fosse stata sostenuta.  Una delle idee che mi sembrano
interessanti da considerare per alleviare il problema, e che da poco ha
avuto risonanza anche su riviste di una certa notorietà, riguarda
l’introduzione di un po’ di casualità nel processo di selezione. Un po’
di rumore può aiutare a dirottare i fondi di ricerca verso progetti che
non siano troppo conformisti: in fin dei conti è una storia nota, e
anche nella scelta del Doge di Venezia si adottava un criterio che
introduceva un po’ di casualità per non scegliere sempre i rampolli
delle solite famiglie


Per quanto riguarda la valutazione dell’operato dei ricercatori e dei
docenti la situazione è diversa. Innanzitutto bisogna sempre tener
conto di due punti: (1) il compito di un docente universitario non è
solo far ricerca e (2) le aree più problematiche sono quelle contigue
alle professioni. Per quanto riguarda il primo punto, malgrado sia
ovvio, molto spesso viene dimenticato: nell’università è importante la
didattica oltre che la ricerca. La valutazione della didattica è molto
più difficoltosa, ma questo non è un buon motivo per ignorarla come
viene fatto ora: il filosofo della scienza Donald Gillies nel suo
interessante libro “How should research be organzied” ha proposto con un
certo dettaglio un sistema di valutazione che consideri la didattica e
non soffochi l’innovazione. Per quanto riguarda il secondo punto è del
tutto chiaro che le aree in cui ci sono fenomeni più frequenti di
malcostume sono quelle in cui l’attività accademica e quella
professionale sono molto vicine, e in cui l’una supporta l’altra. Per
questo basterebbe intervenire in maniera semplice a partire da un
monitoraggio degli incarichi e dalle entrare extra universitarie. In
ogni caso un discorso serio sulla valutazione si può fare solo in
presenza di risorse e non in una situazione di radicale riduzione di
queste.

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M: Il quadro che viene a dipingersi pare piuttosto cupo visti
i tanti effetti collaterali dei modelli “platonici” degli economisti
sulle istituzioni e sulla qualità della vita dei cittadini, inoltre i
politici non sembrano ben predisposti ad alcuna epifania su tali
questioni. Lei cita nel suo libro un articolo di Jean Philippe Bouchaud,
datato al 2008 e pubblicato su Nature, che invoca una
rivoluzione scientifica per l’economia. Isaac Asimov ne “il ciclo della
fondazione” aveva inventato una scienza statistica immaginaria, la
psicostoria (un misto di psicoanalisi e teoria dei giochi), in grado di
prevedere l”evoluzione della società umana. Possiamo usarla come
analogia per domandarle quanto distanti siano eventuali programmi di
ricerca odierni in economia, magari bollati come eretici dai
neoclassici, da quell’ideale conoscitivo auspicato e realizzato nelle
storie di Asimov.

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FSL: A mio parere il problema è il seguente. Chi maneggia gli
strumenti della fisica moderna si rende facilmente conto che il concetto
di equilibrio è usato in economia come era usato in fisica alla fine
dell’Ottocento. C’è un secolo di studi e di scoperte che è lasciato
fuori dalla teoria fondamentale. Il fatto che gli economisti neoclassici
credano che il problema economico si possa risolvere attraverso un
teorema matematico, a un fisico fa tenerezza. I fisici sono abituati a
ragionare in termini di ordini di grandezza, mentre gli economisti
subiscono un insegnamento eccessivamente formale e dogmatico. Ma il
problema di fondo rimane un problema politico e di questo sono consci
gli economisti che al momento passano per “eterodossi”: la discussione e
il confronto tra approcci differenti sono sicuramente la linfa vitale
per un campo come l’economia. Ma al momento gli eterodossi sono trattati
come i dissidenti dei regimi totalitari.


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Ad esempio, come ha scritto Paul Krugman, malgrado il fatto che le
previsioni della posizione pro austerità siano state smentite dai dati
empirici, la teoria a favore dell’austerità ha rafforzato la sua presa
sull’élite proprio in quanto il programma dell’austerity avvantaggia la
posizione dei ceti abbienti: «ciò che il più ricco un per cento della
popolazione desidera diventa ciò che la scienza economica ci dice che
dobbiamo fare».


Dunque il problema è al contempo politico e culturale: bisogna agire
su entrambi i fronti, ma a mio parere il campo culturale è al momento
quello più interessante, dove davvero si possono cambiare le cose. La
politica non potrà che seguire gli avvenimenti.

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M: Un ultimo punto. L”egemonia culturale imposta da questo
paradigma economico ha intaccato anche la nostra idea di benessere,
definito solo in relazione alla crescita del PIL nazionale: la
massimizzazione del profitto è identificata con il benessere. Per non
parlare dell”impatto ambientale della crescita: nessuna norma che mira a
riequilibrare il mercato può riequilibrare la perdita di biodiversità,
dovuta ad esempio a deforestazione o inquinamento industriale. I futuri
modelli economici non dovrebbero mirare a ridefinire l”idea di benessere
collettivo?

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FSL: Sicuramente! La crescita e lo sviluppo sono due cose diverse. Il
PIL può crescere fabbricando mine antiuomo e lo sviluppo può avvenire
aumentando il tasso di scolarizzazione inferiore o superiore, cosa che
non rientra nel computo del PIL. La misura quantitativa di per sé non
riesce a cogliere la realtà nella sua complessità e si focalizza solo su
qualche suo aspetto molto parziale e vagamente connesso con ciò che si
vorrebbe misurare: questo è un problema ricorrente nelle misure
pseudo-quantitative che si sono molto diffuse in ogni campo
dell’attività umana proprio per la volontà di dare un valore a qualsiasi
cosa.  Basti pensare che, ad esempio, oggi gli articoli scientifici si
chiamano prodotti!


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In realtà la risorsa fondamentale di ogni paese non è tanto il PIL,
che può aumentare semplicemente vendendo risorse naturali per i paesi
che le possiedono, ma è la diversificazione della sua struttura
produttiva e del suo sistema di ricerca. E’ questa diversificazione che
determina la potenzialità di sviluppo. In ultima analisi, questa è
legata allo sviluppo infrastrutturale materiale e di conoscenze di ogni
paese, che è rappresentato dall’insieme delle capacità produttive, delle
materie prime, del livello d’istruzione medio, della qualità
dell’istruzione avanzata e del sistema della ricerca di base, delle
politiche del lavoro, della capacità di trasferimento tecnologico
dall’accademia al sistema produttivo, del livello di welfare sociale, di
una burocrazia e di un sistema di leggi efficienti. In pratica, da
tutto ciò che concorre a creare un ambiente adatto allo sviluppo
economico e civile. I beni si possono importare o esportare, mentre
queste capacità sono intrinseche a ogni paese.


In breve, una risorsa fondamentale di ogni paese è determinata dalla
complessità della sua struttura produttiva e della conoscenza; lo sforzo
per lo sviluppo dovrebbe essere indirizzato a generare le condizioni
che permettono l’emergenza della complessità per produrre crescita e
prosperità. Lo sviluppo economico aumenta le capabilities di un
paese e dunque anche il suo grado di sviluppo civile: questo permette, a
sua volta, di favorire l’innovazione, che fornisce un vigoroso impulso
allo sviluppo economico. Questo circolo tra sviluppo economico e
sviluppo civile rende possibile non solo la crescita del PIL, ma lo
sviluppo vero e proprio di un paese.

NOTE

[1] https://francescosyloslabini.info/about/http://www.roars.it/online/

[2] Francesco Sylos Labini, Rischio e previsione – cosa può dirci la scienza sulla crisi, Laterza, Roma-Bari 2016.

[3] Per approfondimenti si veda http://www.unipd.it/ilbo/content/mappatu…

Fonte: http://lameladinewton-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/06/20/l%E2%80%99economia-neoclassica-una-pseudoscienza/.

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