Violenza quotidiana e risposta politica: il caso del taxista di Milano

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9 Maggio 2012 - 22.07


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di Romano CalvoMegachip

Il taxista Luca Massari, il 10 ottobre 2010, con la sua auto sta percorrendo via Ghini, dopo aver lasciato un cliente in via Ripamonti. Da un giardino pubblico, spunta all”improvviso, un cucciolo di cocker sfuggito al controllo della sua padrona. Il tassista frena di scatto, ma non riesce a evitarlo. L”animale muore all”istante, Massari se ne accorge e si ferma immediatamente per cercare di rendersi utile. È la sua fine. In pochi attimi viene preso di mira dalla proprietaria, Stefania Citterio, 26 anni, che gli inveisce contro scagliandogli minacce e insulti. Ad assecondare le richieste della donna ci pensano il fidanzato, Morris Ciavarella, 32 anni e suo fratello, Pietro Citterio, 27 anni.

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Massari, 45 anni, finisce la sua vita esattamente un mese dopo, in un reparto di terapia intensiva, per una lesione cerebrale causata da una ginocchiata in pieno volto. Ciavarella viene portato in carcere poche ore dopo il pestaggio. Ma per identificare i suoi due complici, invece, serviranno giorni ed estenuanti interrogatori. Da subito il pm Tiziana Siciliano e la squadra mobile di Milano si trovano di fronte all”omertà quasi totale. Chi si azzarda a raccontare come sono andati realmente i fatti, come un giovane studente universitario, all”indomani si trova l”auto bruciata.

Solo quattro testi, infatti, hanno confermato quello che hanno visto. Sono gli unici testimoni diretti dell”aggressione, che non vivono più nel quartiere di via Ripamonti.

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Propongo una riflessione. Lasciamo perdere l”omertà, il clima mafioso ed il tasso di delinquenza che circola nelle vene di quei tre.

Vediamola da un punto di vita sociologico: l”assenza di istanze di mediazione sociale, l”anomia, la solitudine e l”isolamento, producono mostri.

Tenete conto che quello non è un quartiere a rischio, né un ghetto. Si tratta di un normale contesto urbano e si tratta di persone perfettamente “normali”. Ciò che è accaduto, potrebbe ripetersi in ogni momento.

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Fino a quando non si cominciasse a ragionare sui meccanismi profondi che stanno scattando nella testa di tutti noi.

Siamo soli, nella giungla urbana. Sappiamo di non poter ricevere alcun aiuto da nessuno. Viviamo ogni giorno piccole o grandi prepotenze. E non esiste Stato, Polizia, Comune o Prete che ci possa aiutare, concretamente.

Ed allora cresce il mostro dentro di noi e gradualmente nelle menti più deboli riaffiorano gli istinti più atavici, quelli della difesa corpo a corpo.

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Pensateci bene: il taxista è morto perché una ginocchiata gli ha sfasciato il cranio. I violenti non hanno usato alcun attrezzo, solo le nude mani. E non sono scesi per uccidere o meglio, non hanno messo in atto “tecniche” mirate ad uccidere. No, un puro sfogo, pura aggressività. Fino alla morte.

Si dovrà prima o poi riprendere il contributo di Basaglia, di Weber, di Habermas. per renderci conto che di fronte al fenomeno dell”urbanizzazione e della modernità, per decenni si è tentato di correre ai ripari dalle inevitabili disfunzioni, inventando nuove e più strutturate istanze di mediazione sociale (gli assistenti sociali, i servizi sociali, gli apparati di sicurezza) in una corsa senza fine, dove le istanze di mediazione sociale strutturata si trasformano in burocrazia, in medicalizzazione del sociale ed in securitarismo mentre contemporaneamente emergono sempre nuove domande di mediazione sociale a cui lo stato sociale non riesce a stare dietro (anche per problemi fiscali).

Con gli esiti che abbiamo davanti agli occhi.

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Sono nato e vissuto in un paese del Piemonte dove fino ai 18 anni non ho mai avuto il piacere di vedere un poliziotto, un vigile o un carabiniere. Su quei mille abitanti fuori dal mondo, vigilava la “comunità” cioè una entità immateriale per cui ogni conflitto finiva sempre per essere ricomposto, senza uso di armi, di avvocati, di assistenti sociali e di polizia. C”era il Maestro Allasia, il medico condotto, il Parroco ed i Massari pronti ad intervenire in ogni bega, anche familiare.

Quel paese si chiama Levaldigi, e non mancavano i matti, i sordomuti, gli zoppi, gli zingari, i furbetti, i violenti, i perversi ecc. Come non mancavano gli antichi rancori tra vicini di terreno.

Eppure, magicamente, tutto ritornava a posto.

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Non era un paradiso ed infatti a 18 anni ho deciso di andarmene, perché mi sentivo soffocato. Mi sembrava tutto così mediocre mentre sognavo Milano, con la sua beata complessità, le sue lotte, le sue donne ed i soldi.

Ed ora sono qui, chiuso nel mio bel condominio della Milano bene e so che in qualsiasi momento il “mostro” potrebbe impadronirsi di me, magari contro il vicino di finestra, che fa un casino della madonna nel preciso momento in cui sto scrivendo.

La politica, anche quella più illuminata, non è ancora uscita dalla logica per cui ad ogni problema sociale vi debba per forza essere una risposta di medicalizzazione sociale.

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Eppure è importante ricordare che in questa città, ancora nei primi anni ottanta, ogni domenica, in contemporanea, si riunivano in diversi punti della città, molte centinaia di gruppi organizzati, che si chiamavano partito socialista italiano, democrazia cristiana, parrocchia, Acli, Arci, quartiere, e quant”altro. Certo, molti andavano anche allo stadio, ma tutti, dico tutti, partecipavano ad una qualche forma di convivio sociale.

Oggi, si va al Centro Commerciale e poi si sta da soli davanti al televisore o facebook.

La risposta è lì.

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Le istanze della mediazione sociale non possono essere delegate soltanto alle forme strutturate del welfare state. Devono ripartire dalla vita comunitaria.

E” vero, la modernità è un dato strutturale, la mia Levaldigi è ormai sepolta nel passato come lo sono i partiti di massa. Non torneranno più in quelle forme.

Ma in una qualche altra forma, la comunità dovrà rinascere. Forse sta già rinascendo.speriamo prima che il mostro ci sbrani tutti.

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