In attesa di sentenza. Una storia radioattiva

Lettera di Gianfranco Bettin. Nei prossimi giorni giungerà a sentenza un processo che dura da anni, che riguarda una storia importante da molti dimenticata.

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27 Giugno 2013 - 22.14


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Lettera di Gianfranco Bettin.

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Nei prossimi giorni giungerà a sentenza a Roma un processo che dura da anni,
che riguarda una storia importante che forse molti hanno dimenticato e
di cui magari non importa quasi più niente a nessuno, ma che potrebbe
pesare molto sulla mia vita così come, in verità, sta già accadendo da
tempo. E’ un processo che, a latere, ma non tanto, dell’argomento
scatenante, per le modalità in cui si è svolto, chiama in causa anche la
natura stessa della rappresentanza democratica e la possibilità,
attraverso atti istituzionali così come attraverso la libera stampa, di
porre domande scomode, di cercare la verità
anche su fatti scabrosi.

E’ una storia che ri-comincia alcuni anni fa, nel 2005, ma che rinvia
a qualcosa che è accaduto in tempi più lontani, nel 1990 a Porto
Marghera, e che oggi sta per giungere a un primo  epilogo, dopo un lungo
processo presso il tribunale di Roma, nel quale sono coinvolto come
imputato. Rischio di essere condannato a pagare un milione di euro più
le spese legali, somma che (perfino in dimensioni molto minori di
queste) naturalmente non possiedo, con tutte le conseguenze del caso a
mio carico. A scanso di equivoci, anticipo subito che lo scopo di questa
mia nota è solo di far conoscere una storia che ha implicazioni pesanti
di natura generale, non solo per me. Per quanto riguarda la mia vita,
in ogni caso, cercherò di arrangiarmi. Qui vi chiedo soltanto, per
favore, di leggere con un po’ di attenzione il racconto che segue.

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Nel febbraio del 2005 a firma del giornalista Riccardo Bocca il
settimanale “L’Espresso”, nel quadro di una più vasta inchiesta che si
occupava tra l’altro delle piste seguite da Ilaria Alpi prima di essere
assassinata insieme a Miran Hrovatin a Mogadiscio nel 1994, pubblicò un
articolo su un traffico di rifiuti tossici e nocivi. In particolare si
occupò del carico trasportato dalla motonave “Jolly Rosso” che nel 1989
il governo italiano aveva inviato a Beirut per recuperare circa 2 mila tonnellate di rifiuti tossici,
contenute in circa 10 mila fusti, scaricate tempo prima da un’azienda
lombarda (la Jelly Wax), secondo una prassi che aveva visto per anni
molte aziende italiane smaltire, spesso con complicità mafiose e perfino
di apparati dello Stato, rifiuti tossici in altri paesi, oppure
affondandoli in mare (dopo averli a lungo smaltiti sul territorio
nazionale in discariche abusive, avvelenando buona parte di certe
regioni). Rientrata in Italia, la Jolly Rosso rimase dapprima all’ancora
in rada e poi entrò nel porto di La Spezia in attesa che si decidesse
come e dove smaltirne il carico tossico, cosa che infine fu stabilito
dovesse avvenire in alcuni siti industriali, tra i quali Porto Marghera,
precisamente nell’impianto SG31 della Monteco nell’area del petrolchimico.

E’ a questo punto che la storia di quei rifiuti diventa anche una nostra storia, e infine una storia mia.

All’epoca ero consigliere di quartiere a Marghera e, insieme ai Verdi
e agli ambientalisti della città, in diretto contatto con operai delle
fabbriche chimiche, partecipai attivamente alla mobilitazione per
conoscere l’esatta composizione di quei rifiuti. Dall’interno della
fabbrica, infatti, ci avevano segnalato alcune inquietanti anomalie a proposito dei fusti
trasferiti qui nell’aprile 1989 dalla “Jolly Rosso” che, tra l’altro,
tendevano a gonfiarsi. Sempre da dentro la fabbrica ci venne detto che,
nei rifiuti, sarebbe stato presente anche una certa quantità di URANIO.
Malgrado le proteste – compresa una petizione all’Ulss veneziana
(allora la n.36) sottoscritta da 50 operai del petrolchimico che
denunciava “l’insostenibile situazione creatasi in seguito alle continue emissioni di fumi e per altre sostanze di origine ignota”  – a partire dall’8 novembre i rifiuti tossici vennero bruciati nell’impianto SG31.

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Di fronte alle proteste, il direttore del servizio di Igiene pubblica
dell’Ulss 36 reagì contestando le valutazioni espresse dagli operai
sottoscrittori della petizione e dagli ambientalisti e, anzi, presentò
un esposto alla Procura di Venezia perché si sarebbe contribuito a
“diffondere disinformazione per creare allarme tra la popolazione”.
L’esposto fu archiviato.

Di questa storia si tornò a parlare, appunto, nel febbraio 2005 quando “L’Espresso”, ricordando quella vicenda, citò una relazione dell’Ulss 36 datata 28 febbraio 1990 nella quale, analizzando la condensa dei fumi usciti dal forno SG31 in due momenti diversi, 19 gennaio e il 7 febbraio 1990, si conferma la presenza di uranio. L’Espresso riportò anche il commento di Gianni Mattioli, allora docente all’Università di Roma, il quale, sottolineando come “le concentrazioni rilevate dall’Ulss 36 sono certamente preoccupanti e superano le percentuali allora fissate per legge”, anche considerando che i fumi del camino “prima di toccare terra subiscono una significativa diluizione”, sostenne che “nessuno
può negare che sia stata smaltita una sostanza radioattiva. Anzi, è
necessario aprire un’inchiesta per capire che tipo di uranio fosse,
visto che l’Ulss non lo indica. Si trattava di combustibile esaurito di
reattori? O di uranio impoverito? O, ancora, di combustibile nucleare?
”

Nel febbraio 2005 ero Prosindaco della città (lo rimasi fino
all’aprile di quell’anno) e consigliere regionale (lo sarei rimasto fino
al 2010). In questa duplice veste chiesi a chi di dovere spiegazioni su
tale vicenda, di cui come si è visto mi ero già occupato molti anni
prima, alla luce degli elementi nuovi che L’Espresso aveva pubblicato.
Presentai, dunque, un’interrogazione al presidente della giunta regionale del Veneto, nella quale, dopo aver sommariamente riassunto la vicenda, chiedevo alla giunta “se
è a conoscenza dei fatti; qual è l’entità e la natura dell’inquinamento
radioattivo, se intende rendere pubblico il referto dell’Ulss tenuto
segreto per 15 anni
”.

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La pubblicazione dell’articolo e la mia interrogazione (oltre a una,
analoga, presentata alla camera dei deputati dall’allora parlamentare
Luana Zanella) provocarono l’immediata reazione dell’ex responsabile del
servizio di igiene pubblica dell’Ulss, il dott. Corrado Clini,
che nel frattempo, dall’inizio del 1990 si era trasferito a Roma al
Ministero dell’Ambiente, del quale diventerà e resterà a lungo Direttore
generale (e, di recente, com’è noto, anche ministro, fino all’aprile
2013). Clini contestò in toto, con dichiarazioni riprese dalla stampa e
dagli altri media, la ricostruzione dell’Espresso e contro il
settimanale e contro gli autori delle due interrogazioni in sede
regionale e parlamentare, il sottoscritto e Luana Zanella, presentò querela in sede civile presso il tribunale di Roma.

Al dottor Clini, sia il sottoscritto sia Luana Zanella, risposero,
con un comunicato ufficiale, che nelle interrogazioni in Regione e in
Parlamento il suo nome veniva citato solo a proposito delle critiche che
egli aveva rivolto, all’epoca dei fatti, agli ambientalisti e che
nessuna insinuazione o affermazione esplicita era rivolta nei suoi
confronti e ogni riferimento a fatti specifici era posto al
condizionale, quando non supportato da precisi referti e che dunque il
solo fine dei nostri atti istituzionali era la piena conoscenza di
quanto avvenuto intorno alla vicenda Jolly Rosso, cosa in seguito
ribadita in diverse occasioni.

Alla vigilia del processo, il parlamento tutelò, come da prassi, l’on. Zanella rifiutando l’autorizzazione a procedere in quanto l’atto istituzionale – l’interrogazione – è prerogativa inviolabile di deputati e senatori.
Sulla stessa linea si mosse la giunta regionale di allora (2005 – 2010)
presieduta da Giancarlo Galan, che incaricò il prof. Mario Bertolissi,
docente di Diritto costituzionale all’Università di Padova, di stilare
un ricorso per conflitto di attribuzione presso la Corte Costituzionale la quale, dopo alcuni anni nel corso dei quali il processo rimase sospeso presso il Tribunale di Roma, stabilì che la Regione dovesse porre la questione all’apertura effettiva del processo.

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Si giunse quindi, nel 2010, all’apertura del processo nel
quale, come imputati, eravamo rimasti soltanto il sottoscritto e il
giornalista Riccardo Bocca autore del servizio pubblicato dall’Espresso.
Nel frattempo era mutata la giunta regionale, ora presieduta da Luca
Zaia, e il sottoscritto, non più consigliere regionale, provvide a
segnalare alla Regione la necessità di procedere secondo l’indicazione
della Corte Costituzionale e secondo la stessa prassi seguita dalla
Regione da sempre, volta a tutelare il diritto dei suo eletti a porre,
attraverso interpellanze, interrogazioni e altri atti ispettivi,
qualunque domanda si ritenga necessaria per conoscere una data
situazione e un dato problema.

La Regione, tuttavia, non ha mai provveduto a sollevare il
conflitto di attribuzione, non ha mai difeso, in questo processo, il
diritto dei propri rappresentanti – che sono, nella regione,
rappresentanti del popolo esattamente come i parlamentari lo sono a
livello nazionale – a essere tutelati nelle proprie prerogative.
Le quali non sono affatto dei privilegi ma rappresentano la garanzia
che, in nome dei cittadini tutti, si possano porre anche le domande più
scomode, anche nei confronti di chi è potente, persona o istituzione
che sia
.

La Regione, a differenza di come si è sempre comportata in passato,
ha lasciato aprire il processo, lo la lasciato continuare e infine
chiudere, senza muovere un dito. Creando, così, un precedente pericolosissimo sia sul piano istituzionale e formale sia su quello sostanziale.
Se passa il principio che si può querelare un’interrogazione, un atto
ispettivo (insieme alle dichiarazioni che lo illustrano), si crea un vulnus letale nella rappresentanza
e nei suoi diritti e poteri. Ignoro il motivo di questa scelta: si può
pensare a sciatteria oppure a precisa volontà politica di discriminare
il sottoscritto o ad altri motivi ancora. L’effetto è che comunque viene
minata la pienezza del mandato istituzionale e che uno strumento
indispensabile per l’accertamento delle verità viene svuotato
.

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Non ho niente da dire sul dott. Corrado Clini. Egli –
assistito dal grande studio legale che presta anche consulenza giuridica
al ministero per l’Ambiente – esercita una possibilità che l’attuale
normativa lascia a chiunque, specie se potente, scambi le critiche per
reati e dunque voglia e possa tenerti per anni in un processo, costoso,
lungo, scomodo, scoraggiante per chiunque non disponga di mezzi per
sostenere questa pesante prova. E’ la legge che andrebbe cambiata,
come da tempo sostengono in molti, dall’Associazione art. 21 a
giornalisti e operatori dell’informazione ad associazioni e attivisti
che si vedono opporre querele milionarie e processi insostenibili per
modi e tempi
. Ed è la Regione del Veneto a dover essere indicata come un ente che non rispetta sé stesso né i propri esponenti,
che non ha avuto in questo caso la dignità di rivendicare il proprio
ruolo non certo a difesa di un privilegio bensì a tutela del diritto di
tutti i cittadini alla piena e inviolabile rappresentanza.

Ora, infine, sto aspettando la sentenza, che dovrebbe giungere a
giorni, se non a ore. L’aspetto con un carico di vera angoscia
determinato sia dal rischio concreto – pagare una cifra esorbitante, che
non possiedo, e restare magari per altri anni inchiodato a un processo
che anche in caso di assoluzione continuerebbe in Appello e in
Cassazione, con altre spese e altre complicazioni, e con rischi immutati
– sia dalla prospettiva di veder dissolversi, per l’ignavia o a causa
della complicità attiva della Regione Veneto, forme consolidate di
tutela per chi, per ruolo istituzionale (come i consiglieri o gli
amministratori) o per attività professionale (come i giornalisti), ha il
diritto e il dovere di porre anche le domande più scomode, di continuare a cercare la verità su vicende in cui siano in gioco l’interesse pubblico e il diritto a sapere di tutti i cittadini.

Vi ringrazio dell’attenzione

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Gianfranco Bettin

Venezia, giugno 2013

Fonte: http://ecovenezia.wordpress.com/2013/06/26/in-attesa-di-sentenza-una-storia-radioattiva-lettera-di-gianfranco-bettin/.

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