La vera storia del giudice Di Matteo

Già condannato a morte dalla mafia. (E dallo Stato?) Nino di Matteo come Giovanni Falcone nel tritacarne del gioco grande che gioca a delegittimare.

Preroll AMP

Redazione Modifica articolo

10 Marzo 2014 - 18.56


ATF AMP

Top Right AMP

Già condannato a morte dalla mafia. (E dallo Stato?)

di Giorgio Bongiovanni e Anna Petrozzi

Dynamic 1 AMP

Minacciato, condannato, calunniato, sotto procedimento disciplinare, attaccato da ogni lato e accusato persino di essersi orchestrato da solo l’ordine di morte. Nino di Matteo come Giovanni Falcone nel tritacarne del gioco grande che ha mosso le sue pedine secondo la classica procedura della delegittimazione. Ma perché questo magistrato è finito nel mirino? Chi è?
Ha indossato la toga per la prima volta quando ha chiesto di essere tra i volontari che hanno vegliato la bara semi-vuota del giudice Paolo Borsellino adagiata nel corridoio del tribunale di Palermo. Il destino ha fatto sì che il suo primo incarico si svolgesse a Caltanissetta dove si è  occupato dell’omicidio del giudice Saetta e di suo figlio, ottenendo il primo ergastolo di una lunga serie per Totò Riina. Poi gli è stato affidato il processo ai danni del giudice Giuseppe Prinzivalli, condannato a 10 anni di reclusione per aver agevolato la mafia e deceduto prima che terminasse il secondo processo d’appello rinviato dalla Cassazione dopo l’assoluzione di secondo grado.
Sulla base di nuovi indizi Di Matteo fa riaprire le indagini sull’efferata strage che aveva ucciso, nell’estate del 1983, il giudice istruttore Rocco Chinnici, padre dello storico pool antimafia di Palermo. La condanna ottenuta in questo caso non è solo per gli esecutori ma anche per i mandanti esterni: i cugini Nino e Ignazio Salvo potentissimi non solo perché esponenti politici della DC legati ad Andreotti, ma anche perché essi stessi uomini d’onore.
Successivamente, siamo alla fine del 1995, viene incaricato di affiancare i colleghi Anna Maria Palma e Carmelo Petralia nella conduzione delle indagini sulla strage di via d’Amelio. Sono anni di grande concitazione per gli esiti di questo processo. Nel gennaio del 1996 ci sarà la sentenza di primo grado con durissime condanne basate in buona parte sulle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino. Catturato il 29 settembre 1992 ha cominciato a raccontare la sua falsa verità verso la fine del mese di giugno 1994.
E’ stato a lungo interrogato da diversi magistrati e per circa 17 volte dal pm Ilda Boccassini la quale, prima di lasciare Caltanissetta, aveva messo per iscritto le sue perplessità all’allora capo della Procura Giovanni Tinebra, senza mai dubitare della polizia giudiziaria che si è occupata del caso.
Il “pupo vestito”, come lui stesso si è definito, sarebbe invece stato costretto a mentire proprio dagli uomini di Arnaldo La Barbera, il super poliziotto, collaboratore dei Servizi Segreti con il nome in codice Rutilius, che aveva il compito di guidare la squadra speciale Falcone e Borsellino. Come noto la procura di Caltanissetta ha indagato a lungo per tentare di districare il mistero che si cela dietro questo “pentito fantoccio”. E l’impresa non è da poco. Se infatti è vero che Scarantino ha mentito è vero anche che ha riferito particolari poi confermati dallo stesso Spatuzza, suo grande accusatore. E’ un esempio lampante il nascondiglio in cui venne nascosta la 126 poi imbottita di tritolo. Scarantino si autoaccusa di averla portata lui stesso, smentito poi da Spatuzza che è il vero ladro dell’automobile.
La domanda però è: come faceva Scarantino a sapere che il mezzo era stato portato nel garage di tale Orofino così come poi realmente accaduto? Se è stato imboccato, guidato parola per parola, istruito ad imparare a memoria falsi elementi, chi gli ha suggerito quelli giusti? Se è corretta l’ipotesi secondo cui sono stati i poliziotti agli ordini di Arnaldo La Barbera ad organizzare il depistaggio come facevano a conoscere i dettagli corretti? E’ stato poi ipotizzato che una delle possibili ragioni di questa colossale falsificazione fosse quella di distogliere l’attenzione dalla famiglia mafiosa di Brancaccio e così attribuire la maggior parte delle responsabilità esecutive a quella di Santa Maria di Gesù di Pietro Aglieri facendo condannare altri uomini d’onore di alto rango. Questo per le relazioni che i Graviano, signori di Brancaccio, avrebbero intrattenuto con Marcello Dell’Utri, indagato assieme a Silvio Berlusconi, nell’ambito della ricerca dei mandanti esterni alle stragi con i nomi in codice Alfa e Beta (entrambi sono stati prosciolti nonostante un’archiviazione gravida di ombre).
In realtà anche in questo caso le dichiarazioni fumogene messe in bocca a Scarantino hanno comunque portato all’arresto e alla condanna definitiva di mafiosi di primo piano agli ordini dei Graviano come Fifetto Cannella, Francesco Tagliavia, Lorenzo Tinnirello e gli stessi Giuseppe e Filippo Graviano.  
La questione del depistaggio è dunque molto più complessa di quello che sembra, molto più intricata delle semplici dichiarazioni false di Scarantino che hanno toccato solo l’ala militare mafiosa.
Chi è rimasto fuori dalle indagini infatti non sono i mafiosi di Brancaccio, alla fine chiamati tutti a rispondere, compreso Giuseppe Graviano accusato dal collaboratore Fabio Tranchina di essere colui che ha premuto il pulsante del detonatore, ma tutte quelle figure ibride di cui non è stato possibile approfondire il ruolo. E sulle quali Di Matteo aveva insistito ad indagare fin da subito.
E’ il caso di Gaetano Scotto, boss dell’Acquasanta, prima all’attenzione degli inquirenti per quei misteriosi contatti con strutture deviate dei servizi segreti e oggi invece destinatario del processo di revisione della condanna definitiva all’ergastolo.
Stessa cosa dicasi per le dichiarazioni pasticciate, per usare un eufemismo, da parte di uomini delle istituzioni e delle forze dell’ordine. A parte la parentesi vergognosa relativa alla sparizione dell’agenda rossa, esiste tutto un filone di indagini conclusesi con il solito teatrino dell’equivoco tra “ho detto”, “non ho detto”, sulla presenza di Bruno Contrada in via D’Amelio.
Di Matteo aveva scandagliato quella ipotesi incriminando l’allora funzionario di Polizia Roberto Di Legami che avrebbe rivelato quell’informazione a due suoi colleghi: Umberto Sinico e Raffaele Del Sole, al tempo in forza al ROS. A far emergere l’intera vicenda era stato il tenente dei Carabinieri Carmelo Canale, stretto collaboratore di Paolo Borsellino, processato e poi prosciolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Tuttavia la ricostruzione fornita da tutti questi ufficiali non è mai combaciata e “tra non ricordo”, ritrattazioni e smentite si è messa una pietra tombale sulla questione. Bruno Contrada ha sempre sostenuto di aver appreso della strage (circa un minuto dopo l’esplosione secondo i tabulati) mentre si trovava in mare aperto a bordo dell’imbarcazione dell’amico Gianni Valentino che ha sempre confermato il suo racconto.
[url”La presunta confidenza di Di Legami a Sinico raccontava anche di una relazione di servizio che attestava la presenza di Contrada in via D’Amelio, andata però distrutta.”]http://www.antimafiaduemila.com/200803282684/articoli-arretrati/sto-vedendo-la-mafia-in-diretta.html[/url]
Questa vergognosa parentesi del tutto simile ai “non so” e ai “non ricordo” degli uomini di La Barbera chiamati a rispondere nel processo ad oggi in corso, il Borsellino quater, ci restituisce l’immagine di uno Stato avviluppato su se stesso in cui uomini delle forze dell’ordine si rimpallano le responsabilità, mentono e obbediscono allo stesso tempo, al fine di confondere ancor più le acque. Invece di fare corpo unico con un pm disposto a cercare la verità fino in fondo, si nascondono sotto l’ombrello protettivo dell’omertà di Stato. Altro che Falcone e Borsellino.
Di Matteo però è andato avanti per la sua strada e il cosiddetto Borsellino ter da lui condotto è stato il primo, in contemporanea con quello di Firenze istruito dal pm Gabriele Chelazzi per le stragi del ‘93, ad affrontare direttamente il tema dei mandanti interni ed esterni a Cosa Nostra.
Ed è proprio nell’ambito di questo processo che il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, stimolato dalle domande di Di Matteo, preciserà ulteriormente la questione della trattativa Stato-Mafia già emersa a Firenze.
Tra le ramificazioni della mafia nelle profondità più occulte Di Matteo non ha mai avuto paura di cercare. Uno dei primi casi di cui si trova ad indagare una volta rientrato a Palermo, siamo ormai nel 1999, è quello relativo alla scomparsa e all’omicidio di Emanuele Piazza. Il giovane poliziotto che collaborava con i servizi segreti nella caccia ai latitanti aveva stretto un legame di amicizia con Francesco Onorato, uomo d’onore della famiglia di San Lorenzo. Al tempo il mandamento era retto da Salvatore Biondino, l’uomo d’onore rimasto sconosciuto fino al momento dell’arresto a fianco di Totò Riina nel 1993, il quale vista la confidenza tra il suo soldato ed Emanuele gli aveva detto: “Ma che fai ti saluti con gli sbirri?”. Come Biondino sapesse dell’identità di Piazza è rimasto un mistero, ma Francesco Onorato una volta divenuto collaboratore ha dovuto raccontare di aver attirato il poliziotto in un’imboscata dove è stato strangolato e il suo corpo disciolto nell’acido. Anche per questo caso il pm ha ottenuto gli ergastoli per i colpevoli.
Il livello delle indagini si alza progressivamente su questa linea per Di Matteo che viene incaricato di istruire il processo a carico di Ignazio D’Antone, l’ex capo della Criminalpol di Palermo, accusato e condannato, così come il suo collega Bruno Contrada, per aver favorito la latitanza di alcuni boss del calibro di Mimmo Spadaro e Cosimo Vernengo. Mentre è impegnato in una forte azione di contrasto alle spietate cosche gelesi, gli vengono affidate alcune delicatissime indagini sui favoreggiatori e fiancheggiatori del boss Bernardo Provenzano annidati nelle istituzioni, nella politica e nell’imprenditoria che gestisce il suo patrimonio con prestanomi di alto livello.
Per Nino Di Matteo comincia così l’inchiesta denominata “Grande Oriente” basata sulle dichiarazioni del colonnello del Ros Michele Riccio e del confidente Luigi Ilardo, assassinato il 10 maggio 1996 ad una settimana dalla sua espressa volontà di collaborare con la giustizia. Riccio racconterà al pm di essere stato ad un passo dalla cattura del super latitante ma di essere stato ostacolato nel portarla a termine dai suoi superiori. Le sue ricostruzioni corredate da audiocassette registrate con Ilardo e i conseguenti accertamenti porteranno al processo contro gli ex alti ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu conclusosi lo scorso anno con un’assoluzione per entrambi in primo grado “poiché il fatto non costituisce reato” appellata immediatamente dal pm Di Matteo e dai suoi colleghi della procura di Palermo.
Dal versante istituzionale a quello politico l’inchiesta denominata “Ghiaccio” ha invece individuato la profonda commistione tra mafia e politica al tempo di Provenzano, ma in anni molto più recenti.
Siamo già nel 2003 quando verranno rese note le intercettazioni realizzate all’interno del salotto del capo mafia di Brancaccio, nonché medico (aiuto primario all”ospedale civico di Palermo), Giuseppe Guttadauro dove si riunivano notabili e portaborse a chiacchierare delle formazioni delle liste in vista delle elezioni Politiche e Regionali del 2001.
Nell’ambito di questa inchiesta i processi istruiti da Di Matteo hanno visto sfilare sul banco degli imputati l”ex assessore alla Sanità del comune di Palermo Mimmo Miceli, il Re mida dell”oncologia siciliana Michele Aiello, i carabinieri Giorgio Riolo, Giuseppe Ciuro, Antonio Borzacchelli e soprattutto il presidente della regione Siciliana Totò Cuffaro.
L’inchiesta “Talpe alla Dda” scaturita da “Ghiaccio” aveva infatti rivelato un sistema di monitoraggio delle inchieste della procura al fine di proteggere gli uomini di Provenzano e soprattutto i suoi affari. Anche per l’ex presidente Cuffaro era stato individuato un ruolo di favoreggiamento e per questo sta scontando la sua pena definitiva a sette anni di reclusione.
Dall’operazione “Gotha” invece è scaturito il processo a Giovanni Mercadante, il primario di radiologia del “Maurizio Ascoli” di Palermo indicato dal collaboratore di giustizia Antonino Giuffré come “una creatura di Provenzano”. Dopo aver chiesto e ottenuto la condanna in primo grado Nino Di Matteo aveva dichiarato: “Per la prima volta siamo di fronte a un politico condannato per aver fatto parte dell’organizzazione mafiosa pur non essendo formalmente combinato”. Oggi Mercadante sta attendendo l’esito del secondo processo d’appello dopo che la Cassazione ha annullato l’assoluzione di secondo grado.
Le indagini condotte da Di Matteo si sono mosse da sempre nell’insidiosa e paludosa zona grigia, quella in cui Cosa Nostra è inserita fin dai suoi albori, quella che con la complessità e la decadenza del mondo moderno si è evoluta nei cosiddetti “sistemi criminali”. Termine coniato dai magistrati della Procura di Palermo (in particolare da Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia) per indicare quel network che condivide i medesimi obiettivi criminali di arricchimento mediante la violenza, ma soprattutto di eversione e gestione del potere al di sopra delle regole Costituzionali.
L’inchiesta “sistemi criminali” divisa in due fasi non è mai sfociata in un processo, ma alcuni di quegli elementi ai quali è stato trovato riscontro sono stati inglobati dallo stesso Antonio Ingroia nell’impianto accusatorio del processo ormai noto come quello della trattativa tra Stato e Mafia di cui il pm è stato titolare fino a quando ha lasciato la magistratura.
Ed è in questo quadro che Nino Di Matteo, fedele solo a quel giuramento prestato ormai tanti anni fa sulla nostra Costituzione e al sacro principio della “legge uguale per tutti”, ha ereditato il processo dei processi, quello per cui Totò Riina, inspiegabilmente più infastidito da questo che dai 5 ergastoli che Di Matteo ha ottenuto a suo carico, ha ordinato che gli venga fatta fare “la fine del tonno”.  
Il dibattimento, in corso a Palermo ormai da diversi mesi, vede sul banco degli imputati di fronte al giudice Alfredo Montalto, giudice a latere Stefania Brambille e alla giuria popolare, mafiosi di primo rango, ma anche ufficiali e politici, di primo rango. Tra i testimoni, oltre a collaboratori di giustizia di lungo corso e ritenuti ormai attendibili, sfileranno ex ministri, senatori, deputati… su su fino al capo dello Stato.
(Tra tutti il solito Marcello Dell’Utri, tra i pochi con una carriera ancora attiva a fianco di Silvio Berlusconi).
Ma non è solo il processo a suscitare tanto scandalo. E’ ormai risaputo che le indagini proseguono su altri filoni della trattativa bis e si muovono, come presumibile, su di un livello molto alto e, in un momento così delicato del nostro Paese, potrebbero coinvolgere uomini a tutt’oggi ai vertici del potere.
E’ dunque logico pensare che chi ha convissuto e trattato da sempre con la mafia possa avvertire Nino Di Matteo e i suoi colleghi come un ostacolo, elementi di rottura per il buon andamento degli affari del sistema criminale attuale?
Sì lo è. Totò Riina, quindi, sta mandando dal carcere messaggi ben precisi. Innanzitutto che si sente in ottima forma e che se domani si trovasse ridotto come Provenzano in coma non sarebbe per una malattia. Poi ai vecchi alleati per dir loro che si è stancato, che non ha niente da perdere in questo processo, ma che si ricorda tutto.
E poi alla [url”sua Cosa Nostra (oggi nelle mani di uno che considera un debole, Matteo Messina Denaro)”]http://www.antimafiaduemila.com/2014012147368/giorgio-bongiovanni/una-strage-per-colpire-di-matteo-riflettori-puntati-su-riina-e-lorusso.html[/url] per saggiare se c’è ancora qualcun altro che ha invece il coraggio di riportare la mafia al potere tramite la violenza.
Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri ha dato in questo senso una chiave di lettura molto importante: “Riina non è solo il capo di Cosa Nostra, ma un personaggio carismatico e rispettato da tutta la criminalità organizzata, dalla ‘ndrangheta, dalla Sacra Corona Unita e dalla Camorra”.
Ed è sicuramente ascoltato “perché fedele al silenzio, rispetta le regole e sebbene al 41 bis da 21 anni, non parla”.
Alcuni giorni fa è uscita la notizia che Riina avrebbe ricevuto una minaccia firmata Falange Armata, la sigla di una fantomatica struttura terroristica che avevano utilizzato i mafiosi per rivendicare il proiettile posto nel giardino dei Boboli a Firenze prima della strage del ’93, e a sigillo di tante altre stragi.
La risposta a tanto parlare di Riina sarebbe: “chiudi quella bocca, ci pensiamo noi”. Ma noi chi?
Raccontata così questa potrebbe essere la traccia di un romanzo. Invece è la storia vera di un magistrato che ha lottato davvero contro Cosa Nostra nel suo concetto più ampio delle relazioni che le consentono di essere ancora viva e vegeta dopo duecento anni.
Le narrazioni prendono a volte la piega del passato, come se Di Matteo non ci fosse più. Grazie a Dio questa volta non è questo il caso. Chiediamo a tutti i suoi amici, che crescono ogni giorno di più in Italia, di essere vigili e attenti, di essere solidali e di appoggiare anche gli altri magistrati come lui. Ai falsi amici, agli ipocriti, dentro la magistratura, nella politica, nelle istituzioni, spesso colleghi, se l’invidia, la gelosia, il carrierismo o altri motivi più spregevoli vi inducono a isolare quest’uomo, fate almeno la cortesia di tacere. Perché un altro giudice, Giovanni Falcone, Maestro per Di Matteo e per tutti disse: “La cultura del sospetto non è l”anticamera della verità, è l”anticamera del khomeinismo”.

Tratto da: [url”antimafiaduemila.com”]http://www.antimafiaduemila.com[/url]

Foto originale © Stefanini/Imagoeconomica

Dynamic 1 AMP

FloorAD AMP
Exit mobile version