Voi al governo, che cosa avete capito?

'Il prof. Zagrebelsky descrive le conseguenze della ''deforma'' della Costituzione, voluta da nuovo regime tecnocratico-oligarchico che vuole distruggere la democrazia'

Voi al governo, che cosa avete capito?
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12 Gennaio 2016 - 23.39


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di Gustavo Zagrebelsky.

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Coloro che vedono le
riforme costituzionali gravide di conseguenze negative non si aggrappano alla
Costituzione perché è «la più bella del mondo». Sono gli zelatori della riforma
che usano quell’espressione per farli sembrare degli stupidi conservatori e distogliere
l’attenzione dalla posta in gioco.

La posta in gioco
è la concezione della vita politica e sociale che la Costituzione
prefigura e promette, sintetizzandola nelle parole «democrazia» e «lavoro»
che campeggiano nel primo comma dell’art. 1.

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Quali credenziali
possono esibire gli attuali legislatori costituzionali?
A parte la
questione, bellamente ignorata, dell’incostituzionalità
della legge elettorale
in base alla quale essi sono stati eletti;
a parte la falsificazione delle
maggioranze
che quella legge ha comportato, senza la quale non ci sarebbero
stati i numeri in Parlamento; a parte tutto ciò, la domanda che deve
essere posta è: quale visione della vita
politica
li muove? A quale
intento
corrispondono le loro iniziative?

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C’è un «non detto» e lì
si trovano le ragioni di tanta enfasi, di tanto accanimento, di tanta
drammatizzazione che non si giustificherebbero se si trattasse solo di
riduzione dei costi della politica e di efficientismo decisionale. La posta in gioco non è di natura
economica e funzionale
. Se fosse solo questo, si dovrebbe trattare la
«riforma» come una riformetta da discutere tecnicamente, incapace di sommuovere
acute passioni politiche.

Invece, c’è chi la
carica d’un significato eccezionale, si atteggia a demiurgo d’una fase
politica nuova e dice d’essere pronto a giocarsi su di essa perfino
il proprio futuro politico.

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Ciò
si spiega, per l’appunto, con il «non detto». Cerchiamo, allora, di dirlo, nel
quadro delle profonde trasformazioni istituzionali degli ultimi decenni, trasformazioni
che hanno comportato un ribaltamento
della democrazia parlamentare in uno strano regime tecnocratico-oligarchico

che, per sua natura, ha come punto di riferimento l’esecutivo. Viviamo in «tempi esecutivi»!

La politica esce di scena. I tecnici
ne occupano lo spazio nei posti-chiave
, cioè nei luoghi delle decisioni in
materia economica, oggi prevalentemente nella versione della finanza,
e nel campo della politica estera, oggi principalmente nella versione
degli impegni militari.

La partecipazione politica che dovrebbe
potersi esprimere nella veritiera rappresentazione del popolo, cioè in
parlamento, a partire dai bisogni, dalle aspirazioni, dagli ideali non
è più considerata un valore democratico da coltivare, ma un intralcio.

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Così, del fatto che la
metà degli elettori sia lontana
dalla politica al punto da non trovare
attrattive nell’esercizio del diritto di voto
, nessuno si preoccupa: pare
anzi che ce ne si rallegri.

Il fatto che i sindacati trovino difficoltà nel
rappresentare i bisogni dei lavoratori, invece che spingere a misure
che ne rafforzino la capacità rappresentativa, induce ad atteggiamenti
sprezzanti e di malcelata soddisfazione.

Che i diritti dei lavoratori siano sottoposti
e condizionati alle esigenze delle imprese, non fa problema: anzi il
ritorno a condizioni pre-costituzionali si
considera un fattore di modernizzazione.

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Che i partiti siano a loro volta ridotti
come li vediamo, a sgabelli per l’ascesa alle cariche di governo
e poi a intralci da tenere sotto la frusta del capo e di coloro
che fanno cerchio attorno a lui, non è nemmeno da denunciare con più
d’una parola. A questa desertificazione
social-politica
corrisponde perfettamente la legge elettorale. Essa dovrebbe servire a incoronare «la sera
stessa delle elezioni» il vincitore, cioè il capo politico che per cinque anni
potrà governare controllando il parlamento attraverso il controllo del partito
di cui è capo. La piramide si è progressivamente rovesciata
e non abbiamo fatto il necessario per impedirlo. La democrazia dalle larghe basi voluta dalla Costituzione è stata
sostituita da un regime guidato dall’alto
dove si coagulano interessi
sottratti alle responsabilità democratiche.

L’informazione si allinea; la vita pubblica è drogata dal conformismo;
gli intellettuali tacciono; non c’è
da attendersi alcuna vera alternativa dalle elezioni, pur se e quando esse
si svolgano, e se alternative emergessero dalle urne, sarebbe la pressione
proveniente da fuori (istituzioni europee, Fondo monetario internazionale,
grandi fondi d’investimento) a richiamare all’ordine; nella scuola si affermano modelli
verticistici e i nostri studenti e i nostri insegnanti gemono sotto
programmi ministeriali finalizzati a produrre non cultura ma tecnica esecutiva.

Può essere che questo
è quanto richiedono i tempi che viviamo, i tempi dello sviluppo
per lo sviluppo, dell’innovazione per l’innovazione, della competitività che
non ammette deroghe, della spremitura
degli esseri umani
, dei diritti dei più deboli e delle risorse
naturali per tenere il passo sempre più veloce della concorrenza. Può essere
che solo a queste condizioni il nostro paese sia annoverabile tra
i virtuosi, nei quali la finanza sovrana consideri conveniente investire
le sue immani risorse; cioè, in termini più realistici, consideri conveniente
venire a comperarci,
approfittando delle tante privatizzazioni
che segnano l’arretramento dello stato a
favore degli interessi del mercato
.

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Gli inviti che
provengono dalle istituzioni sovranazionali, legate al governo della finanza
globale, sono univoci. I moniti che provengono dall’Europa («ce lo chiede
l’Europa») sono dello stesso segno. Perfino una banca d’affari (gli «analisti»
della J.P. Morgan) ha dettato la
propria agenda, nella quale è scritta anche la riduzione degli spazi di democrazia che le costituzioni
antifasciste del II dopoguerra hanno garantito ai popoli usciti dalle dittature
(è detto proprio così e nessuno, tra le autorità che avrebbero il dovere
di difendere la democrazia e la Costituzione, ha protestato).

La riforma della Costituzione, promossa, anzi imposta
dall’esecutivo, s’inserisce in questo contesto generale. Il «non detto» è qui
.

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Occorre dimostrare
d’essere capaci di rispondere alle richieste. Se, come si dice nella prosa
degenerata del nostro tempo, non si riesce a «portare a casa» il
risultato, viene meno la fiducia di cui i governi
esecutivi
devono godere rispetto ai centri
di potere che stanno sopra di loro
e da cui, alla fine dipende la loro
legittimazione tecnica.

La chiamiamo «riforma
costituzionale», ma è una «riforma esecutiva»
. Stupisce che tanti
uomini e tante donne che hanno nella loro storia politica numerose
battaglie per la democrazia, si siano adeguati a subire questa
involuzione, anzi collaborino attivamente chiudendo
gli occhi
di fronte a ciò che a molti appare evidente. La riforma
costituzionale è il coronamento, dotato di significato perfino simbolico,
di un processo di snaturamento della democrazia che procede da anni. Coloro che
l’hanno non solo tollerato ma anche promosso sono oggi gli autori della riforma.
Sono gli stessi che ora ci chiedono un voto che vorrebbe essere di
legittimazione popolare a un corso politico che di popolare non
ha nulla.

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I singoli contenuti
della riforma importano poco o nulla di fronte al significato politico
. Contano così poco
che chi avesse voglia di leggere e cercare di capire ciò su cui ci si
chiede di esprimerci nel referendum resterebbe sconcertato (…). Siamo di fronte
a un testo incomprensibile.

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Verrebbe voglia di
interrogare i fautori della riforma — innanzitutto il presidente della
Repubblica di allora, il presidente del Consiglio, il ministro —
e chiedere, come ci chiedevano a scuola: dite con parole vostre che
cosa avete capito. Qui, addirittura, che cosa avete capito di quello che avete
fatto? Saprebbero rispondere? E noi, che cosa possiamo capirci?

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Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento
del professore Zagrebelsky, letto l”11 gennaio 2016 davanti all’assemblea del
comitato del No dal professore Francesco Pallante.

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