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Di Matteo e Scarpinato: “La mafia non spara più, i politici se li compra”

La trascrizione delle principali risposte dell'intervista ai procuratori Roberto Scarpinato e Nino Di Matteo realizzata da Gianni Barbacetto il 1 settembre sul palco della festa del Fatto alla Versiliana.

Di Matteo e Scarpinato: “La mafia non spara più, i politici se li compra”
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9 Settembre 2017 - 20.51


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di Nino Di Matteo e Roberto Scarpinato

Roberto Scarpinato.

25 anni fa cade il Muro di Berlino, finisce l’Impero sovietico, finisce la Guerra fredda, il bipolarismo internazionale che aveva ingessato la storia italiana dentro la camicia di forza della Guerra fredda e il sistema di potere politico che si era fondato sulla paura dell’avvento dei comunisti al potere collassa improvvisamente, si sciolgono i serbatoi del voto ideologico, il voto d’opinione viene messo in libertà e all’improvviso quel sistema di potere si trova senza più le leve del comando. Un vuoto di potere che allora abbiamo scambiato per l’inizio di una nuova storia, ma oggi possiamo dire che è stata l’apertura di una parentesi, che forse si va a chiudere, in cui la magistratura riesce a fare indagini che prima non erano possibili.
La magistratura non scopre Tangentopoli all’inizio degli anni 90, l’aveva scoperta anche prima, ma il Parlamento aveva sistematicamente negato tutte le autorizzazioni a procedere, quindi non era stato possibile avviare indagini sulla corruzione. E Tommaso Buscetta, per anni, si rifiutò di rivelare a Falcone quali erano i rapporti tra mafia e politica, ripetendogli che l’Italia non era pronta. Buscetta inizia a parlare dopo le stragi, quando il sistema di potere crolla e molti collaboratori di giustizia ritengono che quegli uomini potentissimi che dovevano accusare, non hanno più il potere che avevano prima e si apre una nuova stagione dell’antimafia, e non è un caso che proprio in quel frangente si verificò lo stragismo, negli anni ‘92 e ‘93, ultimo colpo di coda di un sistema di potere che, nel momento in cui collassa, cerca con le stragi di interferire col nuovo corso della storia italiana.

Nino Di Matteo.

Quello del 1992 è un periodo che nessuno di noi potrà mai dimenticare. Io muovevo i primi passi da magistrato, da giovane siciliano palermitano avevo coltivato quel sogno avendo come punto di riferimento orazioni di Falcone e Borsellino, avevo fatto il tirocinio a Palermo, li avevo conosciuti. Mentre facevo il tirocinio sono stati uccisi nelle stragi di maggio e luglio.
Già Roberto Scarpinato ha rilevato i punti di analogia tra l’azione delle Procure di Milano e di Palermo, una magistratura che riacquista coscienza del valore della propria indipendenza, della propria autonomia dalla politica, che riacquista coraggio, una magistratura siciliana che sul sangue dei morti si ricompatta, opera una svolta che per alcuni anni produrrà i suoi frutti e i cui effetti purtroppo nella magistratura siciliana, ma in generale, si sono esauriti da qualche anno. Ci sono tanti punti di contatto tra mafia e corruzione. Sono due fenomeni che segnano la fine della Prima Repubblica. E la mafia siciliana, quando inizia la propria strategia stragista con l’omicidio Lima (marzo ‘92) intende – utilizzo parole di Riina come ci sono state raccontate da pentiti di mafia – “fare la guerra per poi fare la pace”, giocare un ruolo decisivo nel delineare nuovi assetti di potere mafioso, politico, imprenditoriale. Intende, attraverso gli omicidi eccellenti e le stragi, rinegoziare il proprio ruolo di potere. Le stragi sono stragi politiche. Quelle del ‘92 e ancora di più quelle del ‘93, quelle di Roma, Firenze e Milano. Con una natura terroristica che è anomala perfino per Cosa Nostra. In quel momento – lo dice anche uno degli autori principali delle stragi del ‘93, Giuseppe Graviano –, bisognava fare le stragi per creare un nuovo tipo di rapporto intenso, duraturo, importante, con la politica di alto livello.
Il procuratore Scarpinato ha subito delineato il fatto della ricerca di nuovi equilibri politici in quel momento da parte della mafia. Fa impressione un dato oggettivo, pesante, lo sancisce una sentenza passata in giudicato di cui pochi parlano e pochi vogliono parlare e su cui pochi vogliono riflettere. Mi riferisco alla sentenza del tribunale, e poi appello e Cassazione, su Marcello Dell’Utri. Quella sentenza sancisce in maniera definitiva cioè che Dell’Utri, uno dei fondatori di Forza Italia, è stato condannato per concorso esterno perché è stato il tramite della stipula e poi del mantenimento di un accordo intervenuto nel ‘74 e rispettato – così dice la sentenza –, almeno fino al ‘92, tra l’allora imprenditore Berlusconi, di lì a poco presidente del Consiglio, e le famiglie mafiose più potenti di Palermo. Io mi chiedo se questa conclusione definitiva di Cassazione abbia avuto un peso nella politica italiana. E la risposta non può che essere negativa, se è vero che nei giorni in cui quella sentenza della Cassazione veniva emessa e quelle motivazioni rese note, il presidente del Consiglio Renzi discuteva con Berlusconi di come riformare la Costituzione.

Scarpinato.

Le stragi del ‘92 e ‘93 sono un prolungamento della strategia della tensione, che come accertato in varie sentenze, come quella su Bologna, è stata posta in essere nelle fasi storiche in cui si temeva che il Partito comunista potesse arrivare al governo. La storia italiana nasce con una strage, quella di Portella della Ginestra (1 maggio ‘47) in un momento in cui si teme che il blocco delle sinistre possa arrivare al potere. A fine anni 80 e inizio 90 la situazione è analoga. Il sistema di potere della Prima Repubblica crolla e avanza la “gioiosa macchina da guerra” degli eredi di Pci e sinistra Dc che si pronosticava potesse andare al governo. Erano in molti a temere quest’evento. Non solo i mafiosi, ma anche tutti quelli che, approfittando della Guerra fredda e della protezione Usa, si erano resi responsabili delle stragi neofasciste e avevano coperto gli esecutori materiali. Tutti costoro temono che un avvento delle sinistre al potere possa determinare l’apertura di scenari per loro terribili.
Vari collaboratori di giustizia ci dicono che i capi di Cosa Nostra, prima di lanciare l’offensiva stragista, si sono riuniti mesi per discutere del nuovo assetto politico dell’Italia e abbiamo anche risultanze processuali che ci fanno capire che c’è stato qualcosa che è andato al di là della mafia. Per esempio prima che inizi la strategia stragista, prima di Lima, abbiamo Elio Ciolini, implicato nella strage di Bologna, che scrive una lettera al giudice istruttore di Bologna annunciando che di lì a poco sarebbe stato assassinato un importante esponente della Dc, che da maggio a luglio si sarebbero verificate delle stragi e che poi la strategia sarebbe stata portata al Nord per distrarre l’opinione pubblica dalla mafia. O questo signore aveva la palla di vetro o, evidentemente, era stata pensata anche altrove. Pensiamo ancora che poi l’agenzia Repubblica, vicina ai Servizi segreti, 48 ore prima della strage di Capaci annuncia che di lì a poco ci sarà un grande botto. Gaspare Spatuzza ha rivelato che, quando stavano riempiendo di esplosivo la macchina poi lasciata sotto casa della madre di Borsellino, era presente un soggetto che non era di Cosa Nostra che non gli fu presentato.
Quando viene rapito il figlio del collaboratore Di Matteo, Giuseppe, si mette sotto intercettazione Di Matteo e la moglie. Lei gli dice: “Tu hai capito perché hanno rapito nostro figlio, dobbiamo salvare l’altro figlio, non parlare mai degli infiltrati della polizia nella strage di via D’Amelio”. Questi e altri fattori aprono scenari inquietanti perché sono indicativi del fatto che, così come avvenuto nella strategia della tensione negli anni 70, anche nelle stragi del ‘92-’93 in momenti cruciali di pianificazione politica e scelta obiettivi e anche nelle fasi esecutive, ci sono stati soggetti esterni alla mafia che hanno svolto un ruolo importante.

Di Matteo.

La strage di via D’Amelio è stata accelerata rispetto ai programmi originali dei mafiosi. Non era prevista l’eliminazione di Borsellino a 57 giorni soltanto dalla strage di Capaci e in un momento in cui, credetemi, la reazione dello Stato, manifestata con il decreto legge 8 giugno ‘92, si stava spegnendo. A livello politico stava prevalendo l’ipotesi di non convertire in legge il decreto che aveva introdotto il 41 bis. I mafiosi erano consapevoli che Falcone era un nemico per molti, anche all’interno delle istituzioni, e la sua eliminazione, purtroppo, era stata gradita anche in molti ambienti di potere. Nonostante questa consapevolezza, i mafiosi hanno ritenuto di fare un’altra strage. Bisogna capire il perché di questa accelerazione, per capire se riguarda per caso anche quello sciagurato dialogo che alcuni ufficiali dei carabinieri del Ros instaurarono con la mente politica di Cosa Nostra, Vito Ciancimino, che una sentenza definitiva di Firenze dice che oggettivamente provocò in Cosa Nostra la consapevolezza che la strategia delle bombe pagasse. I primi omicidi eccellenti avevano fatto sì che agli occhi di Totò Riina qualcuno dello Stato si fosse fatto avanti. Aveva creato consapevolezza che le bombe stavano costringendo lo Stato al dialogo, legittimando definitivamente Cosa Nostra come forza politica. Bisogna insistere su questo, capire a fondo l’attentato a Maurizio Costanzo, quello di via dei Georgofili, le stragi in contemporanea a Roma e a Milano il 28 luglio, dirette contro due chiese, capire perché le informative dei Servizi, venute fuori solo ultimamente grazie al nostro lavoro a Palermo nell’ambito del processo sulla Trattativa, avevano informato tutti di un possibile imminente attentato nei confronti o del presidente della Camera Napolitano o del presidente del Senato Spadolini. Ma bisogna capire anche, soprattutto, l’ultimo anello della strategia stragista, l’attentato allo Stadio Olimpico, quello in cui dovevano morire centinaia di carabinieri dopo una partita di calcio.
Le indagini hanno dimostrato che quell’attentato era pronto ed era stato materialmente predisposto per il 23 gennaio ‘94 in occasione di Roma-Udinese. L’attentato fallisce per un cattivo funzionamento del telecomando, ma tutti coloro che erano già presenti a Roma erano pronti a ripeterlo la settimana successiva. C’è un nesso tra questo fallito attentato e il fatto che 4 giorni dopo i principali protagonisti – Giuseppe e Filippo Graviano – a Milano, dove si erano recati per una vicenda relativa al provino nel Milan di un loro adepto, vengono arrestati? C’è un nesso col fatto che gli equilibri politici cambino di lì a poco? Ormai abbiamo capito il perché delle stragi, bisogna capire perché improvvisamente, e non credo che l’arresto dei fratelli Graviano possa essere il solo elemento, quelle stragi cessano. In Cosa Nostra si diffonde il convincimento di aver raggiunto l’obiettivo: far la guerra per la pace. Cosa Nostra si è dimostrata capace di uccidere magistrati, politici di governo e di opposizione, ufficiali dei carabinieri, questori, commissari, sacerdoti, imprenditori, giornalisti. E ha nel suo Dna, da sempre, la ricerca costante di rapporti di altissimo livello con la politica nazionale: Andreotti, Dell’Utri (sentenze definitive lo attestano), Contrada, e con il potere regionale (Cuffaro e Lombardo, per citare due casi).

Scarpinato.

La corruzione è oggi il principale strumento di penetrazione delle mafie nelle istituzioni. Si è ridotto il tasso di violenza perché non c’è più bisogno di uccidere, corrompi. Abbiamo un ceto politico che, dopo il crollo della Prima Repubblica, ha progressivamente emanato una serie di leggi che hanno impedito il contrasto giudiziario alla corruzione. Oggi la corruzione è sostanzialmente impunita: su 60.000 detenuti, quelli condannati in sede definitiva per corruzione sono talmente pochi che non sono statisticamente riportati. E c’è una differenza fondamentale tra la corruzione della Prima Repubblica e quella della Seconda. Nella prima, quando lo Stato italiano aveva il potere di emettere moneta e obbligazioni di Stato, poteva finanziare la spesa pubblica in modo illimitato e finanziava anche la corruzione. Dopo la fine della Prima Repubblica e poi con i trattati di Maastricht, e l’importanza dell’Ue manifestata in rigorosi vincoli di bilancio, non è più possibile finanziare la corruzione con la spesa pubblica. La corruzione però è rimasta e, anzi, è aumentata, ma ora si finanzia con il taglio ai servizi dello Stato sociale. Uno dei più famosi casi di corruzione è il Mose di Venezia, 2 miliardi il costo iniziale previsto e costo finale, invece, di 6 miliardi, di cui 4 di spesa di corruzione. Nella Prima Repubblica questi 4 miliardi erano di spesa pubblica in più, nella Seconda sono tagli agli ospedali, alle scuole, alle pensioni… Non serve a niente minacciare delle pene severe, perché i colletti bianchi che delinquono sono operatori razionali e prendono in considerazione il concreto rischio di essere scoperti e le concrete conseguenze penali. Oggi il rischio e il costo penale sono prossimi allo zero. Il rischio di essere scoperto è ridotto perché nel mondo dei colletti bianchi c’è un’omertà superiore a quella della mafia, tanto è vero che non abbiamo quasi mai collaboratori. E il rischio è ridotto anche dalla prescrizione, che l’Unione europea ha detto essere criminogena per come è stabilita, perché impedisce di combattere la corruzione, perché non decorre dal momento in cui io pubblico ministero accerto il reato, ma dal momento in cui il reato è stato commesso. Quindi, tutta una serie di reati, dall’abuso d’ufficio al traffico di influenze illecite, il pilotaggio di gare d’appalto, il reato di frode nelle pubbliche forniture, essendo puniti con pene inferiori a 5 anni, si prescrivono in 7 anni e mezzo da quando il reato è stato consumato. Se i reati sono stati consumati 3 o 4 anni fa, a me restano uno o due anni per una sentenza definitiva, impresa impossibile, e non c’è verso di avere una normativa che sia ragionevole. Tutte le riforme che hanno fatto ultimamente non servono, perché sospendere la prescrizione dopo la sentenza di primo grado non serve, tenuto conto che i pm, di solito, vengono a conoscenza dei reati qualche anno dopo che sono stati compiuti.

Di Matteo.

Il sistema mafioso, la sua integrazione col suo sistema corruttivo, la diffusione di metodi mafiosi persino nell’esercizio del potere istituzionale, costituiscono un fattore gravissimo di compromissione della democrazia. Da magistrati, abbiamo una sensazione sgradevole, quella di guidare una macchina della giustizia che ha due velocità: potente ed efficiente quando vuole, perfino spietata, nei confronti della criminalità comune, e assolutamente incapace di sanzionare la criminalità dei colletti bianchi. Penso, ad esempio, alla riforma della prescrizione, che deve decorrere da quando il reato viene scoperto, oppure deve terminare quando il magistrato esercita l’azione penale. In quel modo, ogni intento dilatorio e di fuggire al processo, nonostante i corrotti si possano avvalere degli avvocati più bravi, sarebbe inutile. Penso a una riforma che, sulla falsariga di ciò che è previsto negli Usa, preveda la possibilità di usare gli agenti provocatori per scoprire i corrotti nella PA. Penso alla previsione di benefici sostanziali sulla falsariga di quelli previsti per i collaboratori di giustizia per mafia per chi collabora per reati di corruzione o contro la PA. Penso all’estensione della normativa sulle misure di prevenzione patrimoniali per gli indiziati di mafia nei confronti degli indiziati di fatti gravi di corruzione. Sono tante le possibilità di riforma normativa di cui pure si è parlato ma che normalmente si infrangono contro quella che è una mancanza di volontà di considerare questi problemi come prioritari. Ma oggi, addirittura, e torno a parlare di mafie, non solo non si vuole andare avanti, ma si stanno mettendo in discussione quei capisaldi della normativa che hanno fatto sì che comunque, almeno nei confronti della mafia militare, i passi in avanti siano stati importanti. Si sta nuovamente mettendo in discussione l’ergastolo, l’ergastolo ostativo, cioè l’impossibilità per i condannati per mafia, di godere benefici. Si sta cominciando nuovamente a mettere in discussione, attraverso anche, purtroppo, un sempre più diffuso lassismo nell’applicazione, l’istituto del 41 bis, il carcere duro. Oggi, paradossalmente, ci tocca difendere quegli strumenti normativi che tutto il resto del mondo ci invidia, perché li riconosce come strumenti efficaci contro la mafia.
Oggi gli attacchi all’autonomia della magistratura, che ci sono sempre stati, non provengono solo dal ceto politico. Oggi quegli attacchi portati avanti con campagne ventennali di delegittimazione non della magistratura in generale, ma di quei magistrati che, intendendo il principio della legge uguale per tutti veramente come tale, hanno osato indagare anche sul potere, oggi quegli attacchi non provengono solo dalla politica, ma hanno fatto breccia anche all’interno della magistratura e dell’organo di autogoverno della magistratura, il Csm. Si stanno creando condizioni pericolose non per la magistratura, ma per i cittadini. Nel 2006 è stata approvata la riforma dell’ordinamento giudiziario che ha previsto una accentuazione della gerarchizzazione delle procure e dei poteri dei pm. Si è venuta a creare una condizione tale per cui gli organi di autogoverno hanno mutuato dalla peggiore politica gli stessi meccanismi spartitori del potere, per esempio nelle nomine dei capi degli uffici, che subiscono sempre di più la volontà di un ceto politico che pregiudizialmente non vuole che certi uffici nevralgici nella struttura giudiziaria complessiva del Paese vengano affidati a magistrati realmente autonomi, coraggiosi, indipendenti, che non tengano in nessun conto il principio di opportunità delle loro iniziative politiche, ma solo il principio della doverosità delle loro iniziative giudiziarie.
Sento sempre più nel nostro ambiente affermare l’importanza della valutazione del principio di opportunità di certe scelte giudiziarie. Per esempio, nell’ambito del Processo per la trattativa, ci siamo sentiti dire “avete agito correttamente, rispettando le norme quando avete citato Napolitano nel processo, avete fatto bene, però non era opportuno”. Sapete quante volte, in indagini come quella su Ilva o in altre, il criterio dell’opportunità finisce per prevalere sugli altri? E quante volte il Csm tende ad assecondare i desiderata politici di nomina nei posti direttivi di magistrati sensibili a quel criterio? Questa è la fine dell’indipendenza della magistratura e fino a quando crediamo nei valori costituzionali anche noi magistrati dobbiamo avere il coraggio di dirlo.

Scarpinato.

Qualche anno fa, Time ha pubblicato una graduatoria dei giganti del capitalismo americano. Nei primi 20, accanto a Rockefeller e Bill Gates, ha messo anche Lucky Luciano. Ho chiesto ad alcuni giornalisti del Time il perché della loro scelta. Risposta: “Prima di Lucky Luciano la mafia americana era come quella siciliana, predatrice, quella delle estorsioni, del racket. Lucky Luciano ha un colpo di genio: negli anni del proibizionismo si rende conto che milioni di americani volevano beni e servizi vietati e si inventa la mafia mercatista, che offre sul libero mercato beni e servizi per cui c’è una domanda di massa. A fronte di questa offerta, introita capitali che immette nel circuito produttivo, aiutando il capitalismo americano a decollare”. Questa è diventata una storia italiana.
Dal 2014, l’Ue ha stabilito che nel calcolare il Pil dei Paesi membri bisogna calcolare anche il fatturato della droga, della prostituzione e del contrabbando. Me lo sono fatto spiegare da alcuni economisti: la mafia delle estorsioni sottrae risorse al ciclo produttivo, se impone il suo monopolio è contro la concorrenza e zavorra il Pil, la mafia mercatista invece, che offre droga e prostituzione, a fronte della libera trattazione riceve una prestazione monetaria che fa crescere il Pil. Quindi, ormai, la distinzione di base è tra una mafia predatrice violenta classica e quella nuova, che aumenta il Pil. La mafia russa, in un momento di crisi dell’economia spagnola, ha cominciato a investire nella costruzione di villaggi, facendo girare l’economia, e io credo che molti Paesi dell’Ue, in momenti di recessione come questo, non abbiano interessi a fare l’analisi del sangue ai capitali esteri che investono.
Perché non c’è una reazione popolare? Io non credo sia per paura, credo che invece la mafia mercatista, che si è insediata al Nord, si rapporti alle popolazioni come un’agenzia che offre beni e servizi, immette capitali, fa girare l’economia e che quindi sta diventando molto più pericolosa di quella di Totò Riina e Bernardo Provenzano.
Dopo la globalizzazione, la creazione di un mercato unico delle merci, la crescita di reddito dei Paesi emergenti consente milioni di nuovi ricchi nel mondo che vogliono imitare lo stile di vita occidentale, il volume globale degli affari di mafia è cresciuto in maniera tale che non è gestibile penalmente. Questo è il terreno di riflessione che manca.

Di Matteo.

C’è speranza di capire chi sono quelli che hanno collaborato con Cosa Nostra per le stragi? Chi siano i mandanti? Bisogna leggere le sentenze dei giudici per comprendere che quelli che i mandanti a volto coperto ci sono. Ma finora non c’è stata volontà di dare un nome. In questo momento storico la ricerca dell’approfondimento della verità sulla stagione stragista è rimasta sulle spalle di pochissimi magistrati e pochi investigatori, che pagano prezzi altissimi, primo dei quali la solitudine assoluta, trattati come gli ultimi giapponesi che non capivano che la guerra fosse finita. Vengono denigrati, messi in ridicolo, così come abilmente vengono delegittimati quei pochi collaboratori di giustizia che ancora sono rimasti disponibili a cercare di aprire spiragli di verità.
Oggi ci vorrebbe una mobilitazione forte, anche politica, un’iniziativa non estemporanea da parte di una Commissione parlamentare. Tutto questo non c’è. Non c’è la volontà, al di là di quello che si dice in occasione degli anniversari del 23 maggio e 19 luglio, di completare quel percorso di verità, anzi, quando c’è qualche iniziativa giudiziaria, che al di là delle critiche che si possono muovere e che quindi si possono accettare, come a noi a Palermo col processo alla Trattativa, che ha portato alla sbarra contemporaneamente mafiosi riconosciuti come Riina, Bagarella, Brusca, esponenti delle istituzioni e delle forze di polizia, ed esponenti politici, ecco, quel processo è diventato il bersaglio preferito da colpire, perché è il simbolo di quella pretesa della magistratura di fare luce a 360 gradi.
Quando il capo dello Stato Giorgio Napolitano ha mosso un conflitto di attribuzioni nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo, quel processo è diventato ancor più un bersaglio, anche all’interno della magistratura. Ci sono stati perfino procuratori generali di altri distretti, che nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario in Alto Distretto, hanno criticato l’iniziativa della Procura della Repubblica e della Corte d’Assise (fu Giovanni Canzio, a Milano). Quando si parla del processo sulla Trattativa e di possibili mandanti occulti, tutto si può fare, tutto si può criticare, anzi, chi muove delle critiche o degli attacchi calunniosi è sempre da apprezzare.
Non è importante l’azione del singolo magistrato o l’esito di questo o quel processo, certe volte da questo punto di vista, nei momenti anche di maggiore scoramento, ho l’orgoglio di essere appartenuto a un ufficio che comunque, negli anni, al di là del fatto se le sentenze siano state di condanna o assoluzione, ha fatto venire fuori determinati fatti che il potere non voleva far venire fuori.
Avere stabilito, grazie alle iniziative giudiziarie della Procura di Palermo, con sentenze definitive, che un politico sette volte presidente del Consiglio ha trattato e incontrato personalmente i capi della mafia palermitana prima e dopo l’omicidio di Pier Santi Mattarella, parlandone prima e dopo, non è una cosa da poco. Avere scoperto che uno dei fondatori del partito Forza Italia, Marcello Dell’Utri, è stato colui il quale ha fatto da garante di un patto tra Silvio Berlusconi e i mafiosi, non è cosa da poco. Non è cosa da poco nemmeno aver stabilito, al di là di quella che sarà la sentenza, che nel momento in cui i mafiosi mettevano le bombe, qualcuno dello Stato andava a cercare i mafiosi e chiedeva loro – utilizzo le loro stesse parole nel processo di Firenze –, “Cos’è questo muro contro muro? Cosa si deve fare per far finire queste stragi?”.
Questi sono fatti che l’opinione pubblica deve conoscere e che sono venuti fuori non grazie a un impegno politico, ma grazie all’azione testarda e incisiva della Procura della Repubblica di Palermo negli anni. I fatti sono fatti, anche quando vengono giudicati in sentenza come non sufficienti per condannare qualcuno, perché non c’è la prova del dolo, come avvenuto anche in altri processi recentemente a Palermo, questo significa che i fatti comunque si sono verificati. Adesso la partita è questa: vogliamo una magistratura che si accontenti di perseguire in maniera efficace i criminali comuni o, come accadde miracolosamente all’indomani delle stragi, possiamo aspettarci ancora che l’azione della magistratura si diriga anche nel controllare il modo in cui il potere viene esercitato in Italia? Questa è una partita decisiva per la nostra democrazia e per il nostro futuro.

(Il Fatto Quotidiano, 5 settembre 2017)

 

Fonte: Micromega online

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