'L''Islam in carcere'

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16 Febbraio 2011 - 20.42


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Intervista a Mohammed Khalid Rhazzali di Davide Pelanda – Megachip.

«Nel carcere X (un carcere del Nordovest) c”erano tanti musulmani praticanti. E anche il carcere era diverso e potevamo incontrarci per pregare. Lì si poteva scegliere, durante l”orario della socialità, se giocare a carte, giocare a calcetto o pregare. Noi pregavamo con la guida di un fratello che ci faceva anche lezioni sulla vita del Profeta e altro» (Fathi).   «La prima volta mi avevano messo in una cella con dei marocchini, che pregavano e c”era un clima buono. Un clima di preghiera e dello stare con Dio. Quando mi sono trovato in questa condizione, ho preso coraggio e ho iniziato a pregare. Mi hanno insegnato come recitare il Corano: Anche se ho fatto un po” di scuola non è sufficiente, non si tratta di leggere un giornale» (Ramzi). Sono due testimonianze raccolte nel libro “L”Islam in carcere” da Mohammed Khalid Rhazzali.

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Rhazzali è dottore di ricerca in Sociologia dei processi comunicativi e interculturali presso l”Università di Padova nonché professore a contratto di Sociologia dei diritti umani presso la stessa università e docteur de recherche en Sociologie presso l”Ecole de Hautes Etudes en Science Sociale di Parigi.

Non si può non tenere in considerazione il fatto che le carceri sono piene di detenuti islamici: al 31 gennaio 2009, infatti, secondo il Dipartimento dell”amministrazione penitenziaria, i detenuti musulmani presenti nelle carceri italiane erano 9.006 contro gli 8.382 degli appartenenti ad altra religione e sul totale di 21.891 detenuti stranieri.

 

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Professor Rhazzali, nel mondo post-11 settembre 2001 ritiene che anche nel carcere sia cambiato l”atteggiamento verso i musulmani?

«Mi sono fatto raccontare dagli operatori carcerari: ebbene tutti quanti sono consapevoli che è successo qualche cosa dopo quella data, qualche cosa che ha cancellato anni di dialogo, ad esempio, interreligioso tra cristiani e musulmani, è come se si fossero azzerati tutti i rapporti positivi che c”erano tra istituti penitenziari e associazioni islamiche.

I linguaggi sono cambiati rispetto a prima, quando non c”erano le categorie del post-undici settembre 2001, che hanno influenzato negativamente qualsiasi politica che miri a valorizzare il dato religioso musulmano. Era quindi più facile che i musulmani e gli altri si confrontassero sull”opportunità dell”assistenza spirituale o religiosa in carcere, vista anche in tutta la sua efficacia riabilitativa.

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Ho interpellato anche degli Imam circa la loro attività nelle carceri. È emersa però una figura di Imam specifica del contesto europeo che si configura su di versi campi del sociale. L”assistenza religiosa, anche in altre istituzioni (ospedali, caserme,..), e altre funzioni tipiche del sociale (mediazione istituzionale e di prossimità) risultano essere sempre di più campi in cui l”Imam si trova coinvolto, ma non si potrebbero collocare in qualche tradizione teologica islamica. Tuttavia, e il caso ce lo dimostra, la tradizione teologica islamica si trova in coerenza con i propri principi che le permettono, mediante il concetto di al-Ijtihad al-”Aqli (lo sforzo intellettuale), di rivedere in continuazione il suo rapporto con il presente e il futuro. Da questo punto di vista l”Islam è molto flessibile ed è capace di “inventarsi” degli istituti legati ai tempi ed ai territori in quei i fedeli si trovano».

 

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Quali sono le problematiche generali più sentite dai musulmani in carcere? È proprio solo la religione, la preghiera, la moschea, oppure il permesso di soggiorno, il procurarsi il cibo o trovare lavoro quando usciranno da quella struttura?

«Bisogna distinguere. Ci sono i musulmani italiani, incluse anche le seconde generazioni che non si trovano ad avere i problemi legati al permesso di soggiorno. Poi c”è l”Islam migrante che deve fare in conti con le dinamiche migratorie, le leggi e la condizione giuridica in cui si trovano. I musulmani, da questo punto di vista, hanno gli stessi problemi di un altro straniero: l”espulsione o la clandestinità dopo la conclusione della pena.

Altra cosa è invece l”istituto penitenziario, che ha una sfida da affrontare legata al futuro della società italiana e quindi anche alla pluralità culturale e religiosa presente in tutte le sfere pubbliche di questa società. Quindi non bisogna lasciare da soli gli istituti di pena a gestire la complessità da un punto di vista discrezionale. Questa sfida è un tema di grande attualità sempre all”ordine del giorno, dove le istituzioni hanno sempre bisogno di modelli operativi e di una legislazione chiara. Faccio l”esempio del dare o meno da mangiare la carne halal (dove cioè l”animale è stato macellato secondo le norme della legge islamica): la carne halal non viene data o viene data a seconda delle diete e a seconda delle risorse che si hanno all”interno della singola struttura penitenziaria. È ovvio che gli istituti sono interessati in linea di principio a queste tematiche perché sono interessati a mantenere l”ordine dentro il carcere e non. Ma questi dibattiti devono essere svolti altrove, non ci può essere una negoziazione a livello locale, anche se in realtà ogni carcere rispetta le leggi e i regolamenti e tutti risultano essere in linea con i principi costituzionali.

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Ci sono delle buonissime pratiche nelle carceri ma il problema è: la politica cosa sta facendo per i problemi del carcere? Non si può demandare tutto alla sensibilità o meno del singolo direttore. Diciamo che non c”è chiarezza e non ci sono modelli operativi. Dal punto di vista del rispetto della religione nel carcere la maggior parte dei musulmani praticanti dicono che ci sono delle buone pratiche e c”è il rispetto, anche da parte delle guardie».

 

Che siano musulmani o meno, può accedere che i detenuti siano depressi e che magari possano esserci dei suicidi. C”è una richiesta verso l”esterno di aiuto e di ricerca di spiritualità per “redimersi” e riscattarsi?

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«Sì, il tema dei suicidi ha dimostrato che tale fenomeno non risparmia nessuno. Gli ultimi dati presentano uno scenario in cui si muore interculturamente di carcere: ricorrono al suicidio musulmani e cristiani, tunisini e romeni, nigeriani e italiani. Vi è già un”ampia letteratura che insiste su un intreccio di fattori (sovraffollamento, maltrattamento) esterni e la correlazione tra questi e l”aumento del tasso di suicidio. In questa prospettiva, risulta arduo parlare per ragioni legate alla nostra storia politica laica di spiritualità o di religione come soluzione o strumento che possa attenuare tale fenomeno. Questa in parte è stata la mia premessa nel mio studio, cioè rimettere in discussione la rilevanza o irrilevanza del religioso nel contesto carcerario e nella contemporaneità in generale. I carcerati esprimono con forza questo bisogno (religioso) e se questo per alcuni può risultare regressivo, ciò va analizzato e preso sul serio.

 

Non tutte le carceri accettano l”Imam all”interno della struttura; alcuni direttori hanno difficoltà a vedere dal punto di vista formale e giuridico quale Imam dovrebbero fare entrare, fra i tanti delle molte correnti islamiche. Lei ha notato questa prima difficoltà?

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«C”è un vuoto regolamentare, che però non è un vero vuoto perchè il principio dell”assistenza religiosa e spirituale c”è e vale per tutti.

Il problema va rinviato al rapporto tra tutte le comunità islamiche e l”amministrazione pubblica: per dirla in breve, sono vent”anni che i musulmani aspettano l”intesa tra lo Stato e le organizzazioni islamiche d”Italia. Anche se da una parte c”è una certa maturità, dall”altra parte tutto viene lasciato alle sensibilità dei singoli attori che operano in un territorio nazionale caratterizzato ormai da una certa differenziazione del welfare, dei diritti sociali, che però potrebbe risultare alla lunga rischiosa. Dunque se siamo ad esempio in Emilia Romagna, in Piemonte o anche in alcune parti della mia Regione, il Veneto, può darsi che si verifichino spontaneamente e in coerenza con certe tradizioni welfaristiche locali sensibilità e collaborazioni tra gli istituti penitenziari e il territorio circostante al di là dei formalismi».

 

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Dipende allora da direttore e direttore?

«Esattamente, e dipende anche dalla collaborazione dei musulmani che sono in quella determinata struttura carceraria. Dipende anche dall”esistenza di un”associazione islamica o moschea in prossimità del carcere o nella città più vicina. Dipende dalla risorsa umana e materiale che tale associazione ha a disposizione da destinare al tema carcere. Trattandosi comunque di associazioni no profit, di volontari: bisogna vedere dunque se hanno le forze per occuparsi anche dei detenuti. Dipende dalla rete di relazioni che hanno sviluppato con le istituzioni e le associazioni laiche e religiose che lavorano all”interno del carcere».

 

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