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Sto leggendo in questi giorni Einstein. «Sottile è il Signore…». La scienza e la vita di Albert Einstein, di Abraham Pais (ed. Bollati Boringhieri), in cui l”inizio del secondo capitolo è dedicato a “Transizioni ordinate e periodi rivoluzionari”.
Scrive Pais: «La presenza del nuovo indica una rottura netta con il passato. L”immediata riconoscibilità del vecchio mostra che questa rottura è ciò che chiamerò una transizione ordinata. Al contrario, nella scienza, si ha una rivoluzione se, in una prima fase, il nuovo si presenta ”da solo”. Da quel momento fino a quando il vecchio ritrova un posto nel nuovo quadro (è una regola, non una legge, che ciò debba sempre accadere in fisica) si ha un periodo di rivoluzione.
Così, nel caso della nascita delle due teorie della relatività si trattò di transizioni ordinate, mentre l”epoca della vecchia teoria dei quanti fu un periodo rivoluzionario. Sottolineo che tale distinzione è da intendere applicata al processo storico della scoperta, non al contenuto dell”una o dell”altra teoria fisica».
Mi sembra interessante questa considerazione sui processi storici della scoperta del nuovo.
Pais, che pure è uno scienziato, un fisico, non parla di massa critica di contraddizioni ed eccezioni come condizione necessaria per la concezione di un nuovo paradigma. Anzi, nella sua biografia osserva ripetutamente come Einstein non fu né un rivoluzionario né un ribelle: il suo ragionamento non seguiva schemi oppositivi vecchio/nuovo, era viceversa libero da questo genere di modelli, ricercando un”organicità di tipo diverso e di proporzioni più vaste, in cui non c”erano contraddizioni ma nuovi livelli di comprensione e di integrazione di quanto già scoperto in passato.
Credo che la miglior spiegazione di come avviene in realtà quella scoperta che determina all”intorno il periodo di rivoluzione, sia fornita dalle parole dello stesso Einsten, che scrisse a Max Planck in occasione del suo sessantesimo compleanno: «Il desiderio di contemplare (…) l”armonia prestabilita è la fonte dell”infaticabile perseveranza e costanza con cui vediamo Planck dedicarsi ai problemi più generali della nostra scienza, senza lasciarsi distrarre da traguardi più allettanti e più facili da raggiungere. Ho spesso sentito dire di colleghi propensi ad attribuire questo atteggiamento a un”eccezionale forza di volontà e disciplina; credo che ciò sia del tutto falso. Lo stato emotivo che rende possibili tali risultati è simile a quello delle persone religiose o innamorate; la ricerca quotidiana non trae origine da un progetto o da un programma, ma da un”esigenza immediata».
Nessuno potrebbe scrivere queste cose, né comprenderle, se non per averle sperimentate in prima persona. Certamente Einstein parlava anche di sé. Inutile sottolineare che nessuna ricerca quotidiana può approdare a scoperte epocali se non interviene anche qualcos”altro, che sta su un livello diverso, e che è destinato a sfuggire alle descrizioni, alle analisi e alle spiegazioni. Questo lo diceva ancora una volta lo stesso Einstein, parlando di se stesso.
Si direbbe dunque che lo stato emotivo del ricercatore (sia egli ricercatore della scienza, della bellezza o dello spirito), sia paragonabile a quello di uno sospeso tra i mondi, il quale ha conoscenza e visione della bellezza e del linguaggio peculiare di ognuno, ha – per grazia e per condanna – il compito di tradurre da uno all”altro ciò che gli è dato di conoscere e contemplare, e sa che – per la natura stessa di quei mondi e di quei linguaggi – gli sarà impossibile completare l”opera alla quale tuttavia non può sottrarsi per via del grande amore che lo lega ad essa.
In queste pagine non paiono dunque essere la tensione, lo sforzo o in qualche modo la pressione e l”opposizione le condizioni necessarie e/o favorevoli per il palesarsi di nuovi paradigmi, che soli possono muovere intorno a sé delle rivoluzioni.
Nemmeno il caos, il disordine di una massa critica, pare una condizione necessaria per il cambiamento: ci impressiona solo perché non riusciamo a comprederlo con la mente, e quindi gli attribuiamo funzioni e poteri che non ha, come fa un bambino quando dice che il nuvolone nero genera il fulmine. In realtà non è il caos a portare il nuovo, semmai è il contrario: il nuovo emerge dal caos, se ne distingue, se ne allontana e ci allontana da esso. Come se il caos fosse soltanto una nuvola che nasconde l”arrivo e l”origine del cambiamento, un accessorio, la quinta di un palco che copre l”entrata in scena di un nuovo personaggio.
Nelle parole di Einstein e di Pais, le condizioni per la nascita del nuovo sembrano piuttosto essere la libertà , intesa come massima apertura e duttilità mentale, e la contemplazione amorosa dell”armonia prestabilita. È infatti un “desiderio” (non la ragione) quella “esigenza immediata” che muove il ricercatore a un lavoro in cui la razionalità è al servizio della contemplazione, così che ne possano emergere nuovi paradigmi. Una dinamica unitiva, quindi, non oppositiva. Ed è l”armonia, non il caos, ad ispirare quella contemplazione e quel desiderio irresistibile.
Questo, diceva Einstein, fanno i religiosi e gli innamorati. Questo fanno (aggiungo io nella mia pochezza) anche gli artisti. Lo fanno, evidentemente, alcuni scienziati. L”auspicio è che possano imparare a farlo anche nuovi economisti, nuovi cittadini e nuovi politici.
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