Il fascino dell'obbedienza

Che cosa rende così diffusa e convinta l’obbedienza al Potere? Perché gli uomini lottano per la propria servitù come se si trattasse della propria salvezza? [Mimesis]

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16 Giugno 2013 - 11.36


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di Collettivo La Boétie

Il vecchio adagio movimentista «chi ha capito e non agisce, allora non ha capito» andrebbe applicato ai lettori del Discorso sulla servitù volontaria. Chi non si sente personalmente tirato in ballo, ingiuriato, accusato dalle parole di Étienne de La Boétie, non ha letto bene le sue pagine o ha scelto di non pagare dazio.

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La sua invettiva non lascia infatti margini interpretativi di comodo all’indulgenza autoassolutoria: «O popoli insensati, poveri e infelici, nazioni tenacemente persistenti nel vostro male e incapaci di vedere il vostro bene! […] Colui che vi domina ha forse un potere su di voi che non sia il vostro? Come oserebbe attaccarvi, se voi stessi non foste d’accordo?» Eppure solo pochi tra quanti da mezzo millennio si accostano a questo testo brevissimo e straordinario (militanti, eruditi, filosofi, scienziati politici) evitano la tentazione di chiamarsi fuori; brandendo e deviando quel «voi» – di cui dovrebbero farsi carico in prima persona – contro il bersaglio retorico di turno.»

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Eppure solo pochi tra quanti da mezzo millennio si accostano a questo testo brevissimo e straordinario (militanti, eruditi, filosofi, scienziati politici) evitano la tentazione di chiamarsi fuori; brandendo e deviando quel «voi» – di cui dovrebbero farsi carico in prima persona – contro il bersaglio retorico di turno.

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Il libro di Olivieri e Ciaramelli non porrà di certo fine a questa lunga catena di rimozioni, le cui ragioni sono fin troppo evidenti. Alza però di qualche grado il tasso tecnico delle contorsioni necessarie per compierla. Difficile immaginare una dichiarazione d’intenti più esplicita di quella fotografata nella loro copertina: un’ingiunzione a obbedire che si condensa in un gancio sinistro in pieno volto, sferrato – ma serve qualche momento per rendersene conto – dallo stesso lettore che osserva l’immagine.

Negli ultimi anni, man mano che il mito di un po’ di “profitto per tutti” (in termini di welfare, sicurezza economica, riconoscimento, beni di consumo) si sbriciolava impietosamente, il sostegno degli svantaggiati al sistema capitalistico è apparso sempre meno spiegabile. Si è così evocata la «servitù volontaria» per decifrare fenomeni di palese autolesionismo: il new management, teso a implicare emotivamente i lavoratori nel loro stesso processo di sfruttamento; le pratiche di cura di sé – alimentari, estetiche, sportive – nelle loro declinazioni più feroci; la distruzione ambientale; l’assoggettamento autonomo a prestiti e mutui; l’ostentata sudditanza a mass media, populismi, berlusconismo.

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Gli interpreti, però, hanno letto queste servitù volontarie come «indotte» dall’alto: quasi mai si sono spinti a dire che i soggetti volessero davvero la propria oppressione. Eppure, dove altri sguardi vedevano inerzia e letargo, quest’ipotesi avrebbe permesso di scoprire energia e attività, certo autolesioniste, ma riconvertibili – magari – a fini emancipativi. A questo obiettivo mirano invece Olivieri e Ciaramelli (per i quali «a considerar bene le cose, […] il modo meno partecipe e meno rispettoso di riferirsi ai comportamenti umani consiste nel vedervi solo l’automatica conseguenza di eventi esterni»). Così, affilati gli strumenti critici con un’analisi rigorosa (anche storico-filologica) del Discorso della servitù volontaria, i due autori si volgono senza scrupoli all’attualità, affrontando le sottomissioni a mafia, disoccupazione, disparità di genere.

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È soprattutto sui due piani prefigurati dal termine «depressione» – quello psichico e quello socioeconomico – che la servitù volontaria può a loro avviso parlare alla nostra contemporaneità triste. Patologie depressive e sudditanza politica si rivelano fenomeni affini: fughe dolorose ma rassicuranti dall’azzardo e dall’indeterminatezza di ogni vita libera e aperta all’alterità. Analogamente, sul piano economico, è urgente defatalizzare l’«inevitabilità» della catastrofe economica in atto, smascherando il lato complice del nostro sentirci annientati e immobilizzati: il diffuso sentimento di «impotenza è un modo di interpretare la realtà asservendosi a essa»; un modo apparentemente insensato, ma che in realtà esonera dal dover immaginare un mondo altro.

Manca forse un solo passo all’attualizzazione del testo La Boétie: ed è raffrontare ai gesti dei suoi servi volontari («pali del ladrone che li saccheggia, complici dell’assassino che li uccide e traditori di sé stessi») le nostre infinite pratiche di esclusione e marginalizzazione dei più deboli; violenza domestica, bullismo, stalking, pogrom, piccole persecuzioni quotidiane: versioni moderne di quei meccanismi vittimario-sacrificali su cui da millenni si regge il precario ordine sociale delle collettività umana.

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Lungi, con questo, dal reintrodurre linee di demarcazione troppo nette tra buoni e cattivi: ma anzi vedendo in quei gesti il complessivo e assurdo rivolgersi della società contro se stessa. Coglieremmo allora appieno «la verità che – secondo gli autori – siamo tutti convocati ad ascoltare» da La Boétie: e cioè che non esiste potere al di fuori del sostegno attivo dei dominati, ma che – proprio per questo – «per essere liberi basta solo volerlo».

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Fabio Ciaramelli, Ugo Maria Olivieri Il fascino dell’obbedienza. Servitù volontaria e società depressa

Mimesis (2013), pp.132 (€ 12,00)

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Fonte: http://www.alfabeta2.it/2013/06/16/il-fascino-triste-dellobbedienza/

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