La grande transizione

La Grande transizione ci aspetta. I tempi saranno difficili. Saremo all’altezza? [Pier Luigi Fagan]

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16 Giugno 2013 - 08.27


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di Pier Luigi Fagan

K. Polanyi nel suo celebre “La Grande Trasformazione” segnalò che la forma della economia politica moderna era inusuale in quanto per la prima volta l’economia era scorporata dalla società. Non era più intessuta nella trama sociale, bensì la dominava. “La Grande Transizione” (Bollati Boringhieri, 2013) di Bonaiuti ci dice che l’unico esito auspicabile di un potente cambiamento delle cose del mondo, che quello stesso sistema analizzato da Polanyi ha messo in moto, è riportare l’economia all’interno del tessuto sociale e da questo, farla dominare. Se il sistema del capitalismo moderno aveva la sua cifra nella crescita, almeno per l’Occidente, la restrizione delle proprie condizioni di possibilità che stanno portando ad una progressiva decrescita reale (recessione-depressione), consigliano di promuovere un nuovo concetto di decrescita intenzionale basata su una profonda revisione e ridefinizione dei ruoli dell’economia e del mercato, di una sfera pubblica basata sulla redistribuzione e di una sfera sociale basata sulla reciprocità.

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L’autore è noto[1], ma meno di altri che parlano su questi temi, forse poiché perviene al concetto di decrescita per una via diversa da quella strettamente ecologista o geopolitica o della critica culturale o dell’anticapitalismo-antiliberismo o della divulgazione. Questa è la via dell’immagine di mondo data dalla frequentazione delle scienze della complessità, un aggregato di sguardi e di saperi non ancora completamente formalizzato, eppure in costante evoluzione almeno da mezzo secolo. Di questo sguardo fa parte la messa a fuoco della realtà attraverso i concetti di sistema, ambiente, adattamento, tempo, feedback. Questo set di disposizioni cognitive porta qualsiasi osservatore che ne fa uso a considerazioni magari più fredde di quelle che agitano le passioni politiche, eppure per certi versi ancor più inesorabili, logiche e definitive.

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La grande transizione che vede Bonaiuti è quella del sottotitolo: dal declino (delle nostre società occidentali) alla società della decrescita. Sia la lettura del declino, sia la “necessità” di adeguarsi mentalmente prima, strutturalmente poi, ad una società della post-crescita non sono figlie di una preferenza ideologica, sono il dato nudo che risulta dalla lettura complessa della realtà. La decrescita intenzionale è la sola alternativa alla decrescita strutturale alla quale sono destinate le società del sovrasviluppo, quali la nostra. Non è una preferenza, è un adattamento.

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Il libro si sviluppa in quattro segmenti: 1) la breve presentazione dello sguardo complesso col quale si sviluppano analisi, diagnosi e prognosi; 2) la meccanica e la dinamica, la funzionalità e le disfunzionalità della società della crescita: 3) la comparsa a cavallo tra la fine dei ’60 e i primi anni ’70 dello scorso secolo, di un rallentamento strutturale della crescita che l’autore imputa alla comparsa dei limiti dati dal presentarsi della legge dei rendimenti decrescenti; 4) quattro possibili scenari di ciò che ci aspetta.

Il pantheon teorico di riferimento ha due capisaldi indiscussi, N. Georgescu Roegen fondatore del pensiero bio-economico di cui Bonaiuti è il continuatore e divulgatore in Italia da una parte, Joseph Tainter autore ormai venticinque anni fa di un testo (The Collapse of Complex Society, Cambridge University Press, 1988) che prima o poi un editore italiano dovrebbe tradurre, dall’altra. Georgescu-Roegen pone l’invalicabile limite della seconda legge della termodinamica a cui la “scienza” economica mainstream si rifiuta di rispondere essendo ancora newtoniana o peggio, neoplatonica. Tainter illustra la legge che correla l’incremento di complessità sociale con la legge dei rendimenti decrescenti per altro ben nota agli economisti classici. In mezzo, dalla società conviviale di Ivan Illich, agli studi sulle economie della reciprocità di Malinowski-Mauss; dal tributo del seminale Karl Polanyi della Grande trasformazione, agli studi sulle economie primitive di Marshall Shalins e di quelle arcaiche dello stesso Polanyi; dalla complessità di G. Bateson ed E. Morin, all’economia sistemica di Kenneth Boulding prima e quella di G. Arrighi ed I. Wallerstein con una ripresa in D. Harvey, poi. Di cornice generale la filosofia di Castoriadis, dello stesso Morin, di Bookchin, di Fotopoulos. Basta scorrere la bibliografia per capire di quale galassia di pensiero sia viaggiatore l’autore. Ognuno dei titoli riportati meriterebbe una lettura da chi vuole per sé quella “testa ben fatta” che predicava Morin.

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La tesi centrale del libro è che siamo in presenza di una tenaglia che soprattutto per i paesi occidentali, rappresenta una drastica riduzione delle condizioni di possibilità. La tenaglia stringe da una parte con la comparsa, già negli anni ’70, di una riduzione strutturale delle possibilità di crescita ed espansione delle economie occidentali che proprio allora incontrano un limite, l’invisibile limite oltre al quale lavora la legge dei rendimenti decrescenti. E’ questa la spiegazione che proprio Tainter dà del collasso dell’Impero romano, è lo stesso concetto che Ivan Illich chiamava “controproduttività”, che attraversa la storia del pensiero da Erone di Alessandria a Pierre de Fermat, fino a Maupertuis. Minimo sforzo, minimo costo. Più le cose si fanno difficili, più costano, anche perché costa la struttura sempre più complessa che si mette in atto per farle. L’ulteriore sviluppo materiale delle società sovrasviluppate ad un certo punto incontrano questo limite dei rendimenti che diventano descrescenti. Alla fine, lo sforzo della crescita (ammesso poi sia possibile) diventa antieconomico ed infine, impossibile. Se si continua a farlo è perché la struttura in atto non vuole avere alternative, si corre verso l’inferno mentre si è convinti di star rincorrendo il paradiso perduto.

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L’intera manovra degli ultimi decenni messa in atto dal capitale per mantenere adeguati i suoi profitti, va allora vista come una strategia di adattamento, di sopravvivenza a questa nuova restrizione delle condizioni di possibilità. Globalizzazione, de-regolamentazione, finanziarizzazione, terziarizzazione vanno così lette come mosse a difesa del profitto con cui il capitale fa pagare al lavoro i costi della contrazione delle condizioni di possibilità. Ma vanno anche lette come mosse disperate in quanto se il profitto è una funzione del sistema economico, quelle mosse distruggono la funzionalità e l’equilibrio del sistema stesso. Le scelte epistemiche che facciamo a volte inconsapevolmente, tracciano la strada delle conseguenze e così se i sistemici vedono questo stato generale delle cose come irreversibile perché strutturale, altri pensano che sia reversibile e che con una spruzzata di keynesismo corretto da una ripresa della lotta di classe le cose dovrebbero ritornare ai tempi d’oro. Si può e si deve certo redistribuire ma i tempi d’oro furono figli di condizioni d’oro, le nuove condizioni non offrono luccichii ed è a questo nuovo stato di realtà che dobbiamo adattarci.

Il sistema ciecamente diretto verso la sua riproduzione costante quando le condizioni in cui opera non sono più costanti ed anzi vanno a ridursi progressivamente, continua a produrre soprattutto problemi ma poiché anche risolvere problemi è fare profitto la macchina sembra ancora funzionare. In realtà accanto a curve di profitto sempre più basse e sempre meno condivise, cresce la curva del malessere sociale, ambientale, psicologico, culturale e poi politico. Il sistema mostra sempre di più crisi di legittimità essendo basato sulla promessa del maggior benessere per il maggior numero (Bentham dixit). Il sistema comincia a diventare profondamente “irrazionale”, come si stanno accorgendo anche molti economisti mainstream. Tra l’altro, l’egoismo unilaterale non si accorge che privando di reddito i giocatori del gioco, il gioco non c’è più ed è l’intero sistema prima a subire la crisi di legittimità, poi a crollare. Rimane una breve stagione di rapina (l’attuale), poi la fine dei giochi. Alla fine si potrebbe avere il nefasto esito che si ebbe nella crisi precedente, quella del primo trentennio del secolo quando la grande diffusione dei fascismi in Europa, mostrò il segno di quel tipico irrigidimento gerarchico con il quale si cerca di opporre nuova semplicità all’aggressione della nuova complessità. Sappiamo poi come è andata a finire.

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L’altro braccio della tenaglia è dato dal prossimo raggiungimento del picco dell’energia (non del petrolio, dell’energia tout court) che alcuni stimano al 2025 (P. Chefurka, R. Douthwaite), altri al 2040 (J. Randers). Poiché il sistema è energivoro e si alimenta di energia incrementale per ogni balzo di complessificazione (per adattarsi alla crescente complessità nel quale opera) ne discende un secondo invalicabile limite per un ulteriore ed a questo punto assai improbabile altro balzo in avanti. Sull’esistenza o meno di questo limite, ci si accapiglia.

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L’estetica scientifica obbliga a rappresentare forze chiare, distinte, inequivocabili, la scienza non è luogo per le contraddizioni. Essendo però quello del “limite” un concetto predittivo, non si riesce mai a mettere la parola fine a questa discussione. Dal punto di vista della complessità però, bastano le tendenze e che si vada tendenzialmente verso un progressivo sbilancio tra domande ed offerte di energia è relativamente certo. Questa occlusione tendenziale, funge così da chiusura ulteriore delle condizioni di possibilità e questo è un fatto. Fatto che si somma a quanto detto precedentemente ed ai quali si accoda il nuovo assetto di un mondo multipolare, quindi più concorrenziale, affollato, incerto.

Ne discendono quattro possibili scenari. Quello del collasso tipo Impero romano (collasso endogeno di cui i “barbari” rappresentarono solo il boia di un sentenza già emessa); quello della reazione a fortezza (nuovi fascismi) che allunga solo i tempi per poi deflagrare in un collasso anche più rumoroso e devastante; un nuovo “salto in avanti” a base di nuove prometeiche tecnologie che l’autore tende ad escludere dal range delle possibilità; l’accettazione progressiva delle nuove condizioni di “decrescita reale” (di contrazione strutturale) attraverso un piano condiviso di decrescita voluta e gestita. Questa si configura come una ritirata strategica e volontaria, un adattamento a ciò che comunque accadrà volenti o nolenti, sullo stile di quell’Impero bizantino che resistette per quasi mille anni in più di quello romano, de-complessificandosi.

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Dopo essersi soffermati su una critica del sistema stazionario alla H. Daly che vorrebbe un capitalismo adattato ad un regime in cui non si accumula più in progressione (cosa che l’autore definisce un controsenso essendo quello dell’accumulazione incrementale la ragione strutturale del sistema capitalista), si giunge alle direttrici di una strategia adattativa.

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Immaginare il futuro innanzitutto, anche per dotarci di una rappresentazione condivisa che orienti la nostra azione collettiva. Immaginarlo a sistema e non già per segmenti frammentati com’è nella partitura post-moderna anche di certi teorici dei micro-movimenti. Porsi il problema generale e non sperare che un modo nuovo di stare al mondo emerga chissà come, solo opponendosi alla disgraziata decadenza del vecchio. Demercificazione e riterritorializzazione dello scambio sociale, nuove forme di proprietà (dal bene comune, al movimento cooperativo), reddito di cittadinanza per reggere la struttura sociale preda di scossoni violenti, reciprocità e nuova funzione pubblica, decentramento, autonomia, partecipazione diffusa. Forse, un radicale ripensamento di quanto l’economia politica debba essere l’ordinatore primo delle nostre società e di come queste debbano retrocedere alla dimensione quanti-qualitativa di comunità autorganizzata in democrazia reale. Insomma un progetto complesso ed urgente di adattamento alle nuove condizioni del mondo è la richiesta, l’appello della nostra realtà occidentale.

La Grande transizione ci aspetta. I tempi saranno difficili. Saremo all’altezza?

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Mauro Bonaiuti è Professore di Finanza etica all’Università di Torino, co-fondatore dell’Associazione per la decrescita, ha introdotto in Italia il pensiero di N. Georgescu-Roegen.

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Fonte: http://pierluigifagan.wordpress.com/2013/06/13/dalla-grande-tarsformazione-alla-grande-transizione-recensione/

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