Eritrea, rossa e invisibile

Intervista a Léonard Vincent, autore del libro "Les Erythréens", (Edition: Rivages). [Olivier Favier]

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29 Luglio 2013 - 13.55


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di Olivier Favier

Non esiste alcun paese al mondo che somigli all’Eritrea, è il solo ad aver lottato trent’anni per fare ritorno ai confini del colonizzatore. Il suo stesso nome è parola dotta. Carlo Dossi, grande scrittore e diarista baudleriano, l’ha suggerito a Francesco Crispi, un vecchio garibaldino di estrema sinistra divenuto primo ministro, e insieme conservatore, colonialista e “gallofobo”: cattivo presagio.

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Eritrea …,“rosso” in greco antico, come il mare da cui è bagnata, e come il primo ministro e sinora unico presidente, Issayas Afeworki. Dal 1991, dopo aver ottenuto l’indipendenza, il paese è mutato in un’altra Corea del Nord, che il mondo continua ad ignorare. Come se questo non contasse nulla, nell’autunno 2012,Issayas Afeworki sembra essere tornato alle origini del maoismo, come ultimo onore dovuto al suo fegato malato ed alla sua follia in decadimento. La gioia di cadere verso il basso.

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Nel 1890, i confini della nascente Eritrea sono quelli della prima colonia italiana. Una prima filiera commerciale era stata creata vent’anni prima, nell’anno dell’apertura del canale di Suez. I conquistatori fondano sull’altipiano una capitale, Asmara, nel 1897. Di lei si dirà ben presto che è meglio illuminata di Roma. E non che i colonizzatori italiani si comportassero come brava gente, malgrado la leggenda. Ma l’architettura modernista fa prodezze ancora visibili.

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Sono molti quelli che, lontano da ogni sfrenato desiderio coloniale, sognano ancora oggi di un incontro improbabile tra una culla della cultura europea e questo litorale dimenticato del Corno d’Africa. Con o senza l’Italia, e da troppo tempo ormai, qui coincidono allo stato brado bellezza e sofferenza.

Léonard Vincent è scrittore e giornalista. Non è mai stato in Eritrea. Negli anni passati a Reporter Senza Frontiere ha potuto incontrare molti Eritrei. Sono un milione oggi ad essere fuggiti da un paese che ne conta cinque. Da questi incontri, e dagli incubi che essi hanno fatto nascere in lui, è nato un libro pubblicato a gennaio 2012 [ndr: Les Érythréens], esempio troppo raro in Francia di quello che il reportage letterario può offrire.

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Olivier Favier: Sin dalle prime pagine del suo libro, si avverte l’impulso ad un paradosso, lo stesso senza dubbio che l’ha portata a scrivere. Niente la predestinava a legarsi in questo modo a questo paese divenuto invisibile, e tuttavia è avvenuto qualcosa che va ben oltre il semplice desiderio, dopo tutto salutare, di testimoniare una tragedia assoluta.

Léonard Vincent: Nulla predestina a nulla, è vero. E il paradosso di cui lei parla, è anche il mio. Per cercare di chiarirlo, è necessario che confessi alcune cose, così da far comprendere quello che ha fatto nascere il mio libro e ripetere, ancora una volta, quanto la realtà detesti la semplicità.

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Anzitutto, l’impresa in cui mi sono lanciato, senza soldi, senza calendario né editore, è forse frutto di una decisione morale, presa di fronte a questa “tragedia assoluta” di cui lei parla ed in cui è precipitata l’Eritrea contemporanea ? Scartiamo subito quest’idea. Si potrebbe credere, come hanno fatto in molti, che “Gli Eritrei” sia una conseguenza logica, la continuazione di una lotta , la coda di cometa del mio “impegno” o dei miei “valori” acquisiti nella pratica quotidiana del giornalismo, e poi come funzione di un’associazione militante. Sarebbe troppo semplice. Se fosse così, sarebbe persino irreale: chi agisce solo per moralità? Anche i santi hanno dubbi e turbamenti. No, se c’è, come in effetti é, una dimensione etica in questo lavoro, essa ha ben altro fondamento.

Credo che, come per qualsiasi lavoro impegnativo, si tratti anzitutto della tappa di un viaggio che ho intrapreso da ormai quarantatré anni e che, una volta concluso, lo si chiamerà la mia vita. Puo’ sembrare un po’ egocentrico, tanto peggio. Non sarei onesto se non dicessi che é proprio così che l’ho concepito. Per quanto riguarda le opere umane, sono rimasto colpito per molto tempo da quel geniale motto di Nietzsche, che ho messo in epigrafe al mio prossimo libro: Non siamo ranocchi pensanti, apparecchi per oggettivare e registrare, dai visceri congelati,- sempre dobbiamo partorire i nostri pensieri dal nostro dolore e maternamente provvederli di tutto quello che abbiamo in noi di sangue, cuore, fuoco, appetiti, passione, tormento, coscienza, destino, fatalità.

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Da bambino, passavo le mie giornate a guardare dalla finestra della mia camera, nella grande casa che dà sulla triste campagna dell’Ile-de France dove abbiamo vissuto, io e la mia famiglia, per molti anni. Volevo fare il marinaio. Sognavo ogni minuto di ogni giorno di mettermi lo zaino in spalla ed imbarcarmi su una nave cargo qualunque, direzione mari del sud. Per farmi piacere, i miei genitori mi compravano degli accessori marinari, oblo’, bandiere, cartine. La mia prima lettura fu Moby Dick e, come faceva l’eroe di Melville, ripetevo ogni sera a letto la preghiera ammaliante, intraducibile e sublime che apre questo capolavoro della letteratura: « Chiamatemi Ismaele ». Poi ho scoperto il giornalismo, o piuttosto quello che era negli anni ’80: una possibilità di lavoro per i disadattati della Francia di Giscard, che non sapevano fare altro che scrivere e farsi dimenticare. Ho deciso di fare questo mestiere, dicendomi che il mondo, quello lontano, quello diverso, aveva qualcosa da dirci. Che si maturava aggiungendo complessità alla confusione, che si capiva meglio la realtà evadendo da lei. Era un po’ il mio « sregolamento di tutti i sensi ».

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Dopo il mio arrivo a Reporter Senza Frontiere, nel 2004, una volta conosciuta l’Eritrea e le sue battaglie, ho avuto la certezza immediata, intuitiva, di avere scoperto una Terra Ignota, uno di quei luoghi inesplorati di cui un tempo sognavo. Non se ne parlava da nessuna parte, nessuno sapeva rispondere alle mie domande. Il non-luogo assoluto, in effetti invisibile, la vera utopia, la terra rossa dimenticata da tutti tranne che dai suoi figli! Guardavo le fotografie dei prigionieri di settembre 2001, che il mio predecessore aveva inserito nei dossier che mi aveva lasciato. Quegli uomini avevano dei visi simpatici, nomi poetici, destini brevi ed avventurosi falciati con violenza. Una geografia dell’inconscio si è disegnata. Ho cominciato a volergli bene. Poi da questa fantasticheria iniziale, man mano che incontravo famiglie di detenuti, gli evasi da poco, i vecchi torturati, i complici del dittatore, la realtà mi è apparsa nella sua gravità, nel suo lato sordido, nelle sue piaghe, insomma nella sua sostanza. Era troppo tardi, ormai facevo parte della famiglia. Avevo sentito a mia volta l’Eritrea fare del male, anche a me. Ero nella storia.

Ho lasciato RSF per diversi motivi, ma soprattutto per lanciarmi in mare o nel deserto, a mia volta, come i miei amici Eritrei. È questa la via che ho deciso di ripercorrere, grazie alla scrittura, perché infondo non avevo nient’altro da dire sull’ « Eritrea ». È forse questo, questa tensione, il « paradosso » di cui lei parla.

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Ho ripetuto ovunque ed in mille modi che non ero né un ricercatore né un erudito, e nemmeno un giramondo virtuoso, un avvocato umanitario o un difensore di vedove e orfani, che tuttavia non mancano in Eritrea. Mi sono ritrovato a imbarcarmi in un’avventura, con un po’ d’incoscienza, non poco idealismo e audacia, ecco tutto. Quello che meglio riassume “Gli Eritrei”, credo sia l’ultima frase del mio libro: « Quello che ho visto, quello che ho sentito, l’ho comunicato ». Questo dovrebbe essere il leitmotiv di ogni giornalista, mi pare.

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Resta il fatto che non ho scritto una serie di articoli o di tribune, né realizzato un documentario. Questo “reportage letterario”, come lei ha egregiamente definito, è principalmente un libro. È anzitutto proprio il sovvertimento in un mondo digitalizzato, smaterializzato. E poi è una forma chiusa, che impone un’intimità, un rapporto personale, come una sorta di confessionale pagano, che bene si adattava a ciò che desideravo. Chiamatemi Ismaele … » Il racconto, le sensazioni, le informazioni, le cifre, le digressioni, le spiegazioni, il rancore, la storia, la stanchezza, il riso, le confessioni sono tutte presenti in egual misura.

Per riassumere e concludere questa risposta troppo lunga, credo in fondo che da un lato, da un punto di vista professionale, “Gli Eritrei” sia un’introspezione e la confessione di un’impotenza che non è per niente moderna: il giornalismo non può nulla, i media sono dei teatri, dei simulacri della realtà umana, ed è importante che lo si accetti e vi si adegui. Anche la testimonianza è letteralmente ”inutile”, ma anche indispensabile ad una vita libera e dignitosa quanto un’opera d’arte. D’altro canto, da un punto di vista personale, è un episodio importante nel percorso di un uomo che cerca da sempre di conciliare fantasticheria ed esperienza, di testare il sogno e di sognare il reale. Mi ha conquistato la traiettoria drammatica di un piccolo paese che si chiama Eritrea e le brave persone che si lascia dietro, vinte anche loro dal loro sogno divenuto lucido incubo: l’indipendenza poi la dittatura.

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Olivier Favier: Il reale, appunto. Lei cita in esergo una celebre riflessione di Pasolini, presa da una delle sue ultime cronache , che inizia così : « Lo so, ma non ho prove ». Per poter raccontare, tuttavia, lei ha incrociato fonti e testimonianze, e pur non avendo visto, ha sentito molto. Più che il ritratto di una dittatura fatto a distanza – che è quello a cui si dedicano tutti gli storici – si è colpiti nel leggerla, a volte sino alle vertigini o alla confusione, dall’improvvisa comparsa di un sentimento fisico di presenza. Riesce difficile credere, arrivati ad un certo punto, che lei non abbia mia assistito ad una giffa,le retate fatte dall’esercito eritreo per trovare reclute, così come non si riesce a credere che lei non abbia mai visitato le prigioni del regime. Peraltro, tutto ciò non ha nulla di romanzesco.

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Léonard Vincent: Il mio modo di procedere è improntato ad una concezione filosofica della relazione con l’altro appresa nei corsi che ho frequentato alla Sorbona, ed alle opere del mio vecchio professore Robert Misrahi. Mi hanno convinto dell’esistenza di due tipi di rapporti tra gli esseri umani: la reversibilità e la reciprocità. La reversibilità, è la relazione del contratto commerciale , della negoziazione politica, della guerra, della relazione professionale: tu mi dai questo seio in cambio ti do quello; tu fai per me questo e quindi io faccio per te quello. Sfortunatamente, troppi rapporti umani soggiacciono a questo meccanismo, anche nel giornalismo: l’equilibrio che bisogna trovare per ottenere la fiducia su una “fonte”, si fonda spesso su interessi reciproci. Non si studia filosofia nelle scuole di giornalismo, e questo è un peccato. Non volevo entrare in quell’universo, perché non volevo né fare un’inchiesta né costruire una storiella, e certamente nemmeno un rapporto di polizia. Volevo raccontare la nostra storia ,a noi, agli Eritrei ed a me, una storia fatta di carne debole e vulnerabile, di insopportabili banalità e pudori talora nevrotici. La reciprocità, invece, è un dono libero e gratuito, atto non calcolato dell’uno nei confronti dell’altro: tu mi dai questo ed io ti do’ quello, tu fai questo per me ed io faccio quello per te. Il movimento è simultaneo, indipendente, fondato sulla curiosità e la benevolenza, con la convinzione che si arrivi con questo gesto, a qualcosa di molto diverso, di più elevato che il rapporto reversibile: è l’unico giardino in cui possano fiorire l’amore e l’amicizia. E l’autenticità, ossia il punto che più si avvicina al reale.

L’impresa era audace per due motivi. Anzitutto, gli eritrei che incontravo (questo deriva, forse, dall’educazione al silenzio e al segreto che i partigiani indipendentisti hanno mantenuto per trent’anni) rispondevano spontaneamente in modo un po’ strano alle mie domande: con dei giri di parole, uno stuolo di non detti, improvvise distrazioni, pesanti silenzi. Gli chiedevo di raccontarmi la fuga dal loro paese e loro mi dicevano semplicemente: « Ho attraversato a piedi il Sudan», ecco, tutto e niente. Ho dovuto tornare indietro incessantemente , porre la stessa domanda in modo diverso, fare capire che non ero né un poliziotto né un funzionario dell’ONU, le sole autorità con le quali la maggior parte di loro aveva avuto a che fare nella sua vita. A forza di essere interrogati dalla polizia o dai volontari, si vive in un mondo bianco, cancellato, sbiadito come una vecchia moneta. Per quanto mi riguarda, ho cercato di mettere insieme i « pezzi disorganizzati e frammentari », per riprendere l’eccezionale citazione di Pasolini, per poter ricostruire l’esperienza di vita di un eritreo di oggi. Ci voleva un attimo, ma mi prendevano per pazzo. Poi, ho dovuto innanzitutto fargli capire che non cercavo solo di raccontare la loro storia, ma di farla vivere ai nostri contemporanei, poiché avevo il tempo e lo spazio, la scrittura come mezzo e lunghe pagine come terreno. Del resto, è un argomentazione che ha funzionato spesso con quegli Eritrei che hanno ricevuto un’educazione da terza repubblica, rispetto degli insegnanti e degli anziani, dei libri e delle idee: dicevo loro che non scrivevo un articolo, ma un libro … e all’improvviso la parola si liberava, mi raccontavano quello che avevano provato in quei giorni, che avevano mangiato, le avversioni, gli scherni, i loro pensieri, i sogni, gli incubi, con un po’ d’incredulità talvolta, poiché nessuno di loro ha mai creduto realmente che sarei arrivato a scrivere un libro sul destino degli Eritrei di oggi.

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Quindi, si, “Gli Eritrei” non è un libro da giornalista o romanziere. È un lavoro sulla ricostruzione del reale tramite la parola e la scrittura. Né la radio né la televisione, né nessun altro media se non un libro, avrebbe potuto rendere tutto questo possibile.

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Bisogna che dica che se l’esperienza è riuscita è grazie alla pazienza e al talento del mio editore, Jean-Philippe Rossignol. Dal manoscritto all’originale di trecento pagine consegnate su un tavolino di un bar in un incontro fortuito, lui mi ha fatto distillare l’essenza, riducendola alla sua espressione più semplice: un centinaio di pagine fitte fitte e incentrate su questo sforzo che ho appena descritto. Dopo la prima lettura mi ha detto: « Il tuo libro è eccellente, ma è rinchiuso. Tutto è lì, bisogna liberarlo ». Mi ha in qualche modo aiutato a scovare la forma nel blocco di marmo , la scultura dietro la massa. Ho lavorato un mese seguendo le sue indicazioni, senza grandi sforzi devo dire. Sapevo che aveva ragione. Gli devo molto, e gli debbono anche tutti quelli a cui è piaciuto il libro.

Olivier Favier : Se il suo libro si apre, il mondo che lei descrive rimane uno dei più chiusi che esista. Chi lo dirige, imponendo il suo arbitrio, esprime una libertà opposta a quella di cui lei ha dato prova scrivendo “Gli Eritrei”. Paradossalmente, tutto avviene come se lei avesse deciso di affrontarlo su un terreno neutro, in una strana e singolare lotta che in Eritrea oggi nessuno può permettersi. Questo viaggio profondo nella personalità di un dittatore, onnipresente ed inaccessibile come si conviene, non mi è sembrato sprovvisto di risonanze intime. Vi si può scorgere un frammento del grande lutto, quello che ha finito per far predominare oggi una certa idea della rivoluzione. Ma sembra che agisca qualcosa di più soggettivo e di più generale insieme, nel rapporto con il potere, nella fedeltà che esso esige, sino alla cecità.

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Léonard Vincent : Quello che lei dice è giusto. Anzitutto, si, ho voluto occupami non solo di Issayas Afeworki, ma della totalità dell’esperienza eritrea di oggi, in un faccia a faccia pubblico e personale con il dittatore, della sua creazione e delle sue creature, che la maggior parte degli Eritrei subisce nel segreto della loro coscienza “incubizzata” se lei mi concede il neologismo. A questo proposito, del resto è affascinante constatare come gli intellettuali, i militanti e quegli Eritrei che osano opporsi, a viso scoperto al sistema, con la scrittura o la protesta, siano considerati come degli eroi commuovendo i loro compatrioti sino alle lacrime. Ecco quanto è profondo il trauma di questa nazione. Una della frasi che mi ha colpito di più, mi è stata detta negli ultimi anni, un giorno a Genova, da Amha Domenico, un intellettuale e militante della società civile in Europa: « Issayas ha cancellato la personalità eritrea ». Ai miei occhi è giustissimo, e spaventoso.

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È questo il motivo per il quale non mi sembrava onesto accontentarsi degli slogan, delle frasi fatte, delle cifre e delle statistiche, delle decodifiche storiche, per farla breve ,giornalistiche. Per tanti e tanti anni in cui ho diretto l’ufficio Africa dei Reporter Senza Frontiere mi sono invischiato per impotenza in espressioni facili, “prigione a cielo aperto”, “Corea del Nord africana”, “prigione più grande d’Africa”, ecc. Ne ero nauseato. Mi disgustava persino il loro successo, il fatto di essere “ripresi” ovunque dai media. Vedo spesso ricomparire espressioni che ho inventato io e che sono, in qualche modo, entrate nel linguaggio comune, che si sono cancellate con l’uso, che si sono « imbiancate » a forza di essere interiorizzate come dice Jacques Derrida. Oggi sono esasperato come allora, ma mi ripeto spesso che, dopo tutto, anch’io ci sono passato, che è un inevitabile inizio per avere accesso all’altra realtà, quella dove si materializzano carne e spirito. Bisognava andare oltre ed è quello che mi sono impegnato a fare.

Poi, lei ha ragione, lungo il percorso ho conosciuto una realtà che aveva una risonanza intima. I miei dubbi sul rapporto con il potere ed il suo fascino, sulla guida delle masse, sulla costruzione di un immaginario nazionale, sulla rivoluzione, sono stati costanti. Non mi è mai piaciuto essere un capo, un leader, un numero uno: da sempre, preferisco essere il numero due, quello che ha spazio e tempo per riflettere ed è portato all’ironia, alla distanza, alla messa in prospettiva. Ora, Issayas e i ragazzini incolti che ha nominato generale o ambasciatore, con il controllo della violenza e della sorpresa sono riusciti ad imporre ad un intero popolo il mondo senza humor che hanno costruito, in nome della loro libertà. Quel maoista autentico, lui, non ha mai dubitato di essere il capo, il numero uno, la guida del popolo. Nel suo universo, gli uomini devono soffrire qui e ora per dimostrare che « un altro mondo è possibile ».

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Issayas vuole che i quadrati ritornino cerchi. È il Caligola di Albert Camus che vuole dormire con la Luna, poiché lui è l’imperatore. I fratelli d’armi che hanno tentato di fargli capire che bisognava anche fare i conti con la realtà sono stati rinchiusi in cella nel 2001, con un gesto infantile, una collera di bambino testardo ed iper violento che rifiuta di accettare la complessità del reale. Ora che è andato troppo oltre, non vuole più tornare indietro. Non puo’ più uscire dalla sua paranoia se non con la morte, perché solo la morte vale quanto la sua crisi.

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Un altro mondo è possibile, certo. Ma certamente non quello di un fratello tirannico e tormentato, sempre al limite della psicosi. Quest’impresa, cosi’ tanto marcata dall’oblio dell’uomo e dei suoi limiti, è estremamente pericolosa e omicida. È proprio quella che Albert Camus ha sviscerato in modo sublime nell’Uomo in rivolta per le ingiurie dei giudici penitenti di Saint-Germain-des-Prés negli anni ’50. Al liceo, questa lettura mi aveva colpito molto e da allora non mi ha mai abbandonato. Considero Camus uno dei più grandi scrittori del secolo, è lui che mi ha fatto venire voglia di scrivere. Sono le sue tracce che cerco di seguire. Rileggerlo oggi non fa altro che confermarmi che abbia capito, prima di tutti gli altri, che fare la rivoluzione doveva anzitutto generare pazienza, godimento per tutti e poi essere anche una reazione di fronte all’ingiustizia. Essere fondatore di una nazione necessita un oblio ed una freddezza di cui non sono capace. Questo non impedisce pero’ di cercare di equilibrare la misura dell’uomo e quella della storia. Come dice Camus in “l’Estate”, di non dimenticare « che c’è la bellezza e ci sono gli oppressi », impegnandosi ad essere « fedele ad entrambi ». É questo, forse, il motivo per cui non ho mai voluto essere capo di chicchessia, preferisco la solitudine ed il franco tiratore, e percorrere le vie traverse del giornalismo pagandone il prezzo. È anche il motivo per cui l’Eritrea di oggi e il suo destino merita tutta la nostra attenzione ed intelligenza.

Traduzione dal francese di Sara Nigro. Testo originale in francese.

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Per ulteriori informazioni:

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Léonard Vincent, [url”Les Érythréens”]http://www.payot-rivages.net/livre_Les-Erythreens-Leonard-Vincent_ean13_9782743622930.html[/url] , Paris, Rivages, 2012. Libro non tradotto in italiano.

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