Contro i beni comuni

Ermanno Vitale, "Contro i beni comuni. Una critica illuminista", (Ed. Laterza) [Book Detector]

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31 Luglio 2013 - 07.23


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di Book Detector

È bellissimo che un editore pubblichi nella stessa collana, a poco più di un anno di distanza dall’uscita di Beni comuni. Un manifesto di Ugo Mattei, il libro Contro i beni comuni. Una critica illuminista di Ermanno Vitale. Secondo gli usi del nostro curioso mondo culturale, i cataloghi delle case editrici sono o informi guazzabugli di titoli che affossano ab origine ogni differenza di idee e contenuti, o l’espressione non tanto di una linea di pensiero (dell’editore, del curatore della collana), ma di una fazione: gli amici del tal professore, i sostenitori di quell’altro intellettuale. In questo secondo caso, possono anche comparire idee radicalmente divergenti, purché non appaia alcun conflitto.

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Ecco, Laterza ha infranto il tabù: non solo Ermanno Vitale non appartiene alla scuola di Ugo Mattei, ma il libro è proprio una critica alle sue idee, o meglio alla loro vaghezza:

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«Ciò che mi lascia perplesso – dice nella premessa – non è la radicalità della proposta, è la sua disorganicità, la sua contraddittorietà, la sua superficialità, il forte rischio che sia un autoinganno».

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È un’operazione editoriale che rappresenta una sfida al rito obbligato del terzismo: invece di contrapporre in modo falsamente neutrale due opinioni diverse, alimenta una dialettica critica sui contenuti e sul modo in cui sono strutturati. Nella migliore delle ipotesi, se cioè Mattei, Negri, Rodotà o qualcun altro tra i sostenitori della causa dei beni comuni citati nel testo vorrà rispondere alle critiche mosse, gli stessi benicomunisti e la più ampia comunità dei lettori potranno giovarsi di una migliore articolazione di questa teoria in progress.

L’analisi di Vitale parte dall’uso delle fonti, dimostrando che i due saggi ritenuti nel male e nel bene fondativi del tema dei beni comuni, The Tragedy of the Commons di Hardin e Governing the Commons di Ostrom, non sono quel che Mattei e altri retoricamente descrivono: il primo non è un’apologia della proprietà privata ma semmai della regolazione pubblica, e il secondo dichiara tutti i limiti relativi alla gestione comunitaria dei beni collettivi – limiti di natura dimensionale, gerarchica e di esclusione proprietaria. E Marx non scrisse certo il capitolo sulla cosiddetta accumulazione originaria, il processo di recinzione delle terre comuni che annunciò l’avvento del capitalismo, con l’intenzione di decantare l’ordine sociale precapitalistico.

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La società dei beni comuni descritta in Un manifesto viene invece definita per approssimazione – dice Vitale –, è una favola che vagheggia un’armonica comunità medievale “brutalizzata” dall’illuminismo, che sembra avere prodotto solamente l’ideologia dell’individuo proprietario.

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Che cosa sono i beni comuni di preciso, si possono classificare o no? A chi sono comuni i beni comuni, a tutti o a delle comunità che escludono il resto degli umani? Chi deve amministrare i beni comuni? La Costituzione va superata, come pensa Negri, o difesa, come dice Rodotà? Le risposte a queste domande sono ambigue e a volte cozzano fra loro in maniera fragorosa, e tuttavia nessuno lo ammette, tutti fingono di giocare la stessa partita politica. Ma oscurare la dialettica non ha mai portato bene alla politica, almeno a quella di sinistra.

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