Ti racconterò tutte le storie che potrò

In quei giorni ero contesa da prefetti, generali e alti esponenti delle istituzioni. Mi invitavano e mi sussurravano tante domande. [Agnese Borsellino]

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5 Novembre 2013 - 23.38


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di Agnese Borsellino a Salvo Palazzolo.

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In
quei giorni ero contesa da prefetti, generali e alti esponenti delle
istituzioni. Mi invitavano e mi sussurravano tante domande. Su Paolo,
sulle sue indagini, su ciò che aveva fatto dopo la morte di Giovanni
Falcone, sulle persone di cui si fidava. Mi sussurravano domande dentro
quei saloni bellissimi pieni di gente importante. E mentre mi chiedevano
mi sembrava come se mi stessero osservando, anche se facevano altro:
mangiavano una tartina, sorseggiavano un prosecco, ascoltavano il
discorso dell’autorità di turno, o magari danzavano.

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Ora so. Ora so
perché mi facevano tutte quelle domande. Volevano capire se io sapevo,
se mi aveva confidato qualcosa nei giorni che precedettero la sua morte.
E allora tante parole di mio marito mi sono apparse chiare,
chiarissime. Ho cominciato a guardare fra i suoi appunti. Ho riaperto i
cassetti dello studio. Ho sfogliato i suoi libri. Ho vagato per casa,
pensando a ogni angolo dove lui si rifugiava, come per ricordare una sua
parola ancora.

Era il 1968. Una mattina, mentre andavo all’università, vidi Paolo
che attraversava la strada e mi veniva incontro. «Ciao Agnese», mi
sussurrò. «Come stai? Ti posso accompagnare? Gradisci?». Gli feci un
grande sorriso. Quando parlava, il suo volto si muoveva tutto. La bocca,
gli occhi, la fronte. Aveva una mimica davvero particolare.

Quella
mattina in riva al mare mi innamorai di Paolo. E lui di me. Era come se
ci fossimo innamorati per la prima volta, anche se avevamo già la nostra
età. Lui ventott’anni, io venticinque. Io gli raccontavo dei miei
sogni. Lui mi raccontava le sue storie. Mi ricordo, era vestito con
degli abiti semplici, quasi umili direi. Un pantalone e una maglietta, 
niente altro. Non è mai cambiato in questo. Il giorno che è morto gli
hanno trovato le scarpe bucate. Una sua collega mi sussurrò: «Prendi le
scarpe del matrimonio, mettiamo quelle». Lui le aveva conservate con
cura in una scatola. Ma sono servite a poco, perché Paolo non aveva più
le gambe, e neanche le braccia, il suo corpo era stato dilaniato
dall’esplosione.

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Pochi giorni dopo la passeggiata al Foro Italico
decidemmo di sposarci. E pure in fretta. Quella scelta scatenò però un
terremoto. Tutti ci presero per matti. “Forse ci fu cosa?”.

Ovvero,
forse Agnese aspetta un bambino e quello è un matrimonio riparatore?
Naturalmente, allo scoccare dei nove mesi, tutti dovettero ricredersi. E
in paese dissero: “Allora, vero colpo di fulmine fu”.

* * *

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Amore
mio, ogni giorno scendeva da casa alle 4 del mattino, si faceva un bel
po’ di strada a piedi e andava fino alla stazione Lolli per prendere il
treno diretto a Mazara del Vallo. Alle 8 era già nella sua aula di
pretore. Qualche volta, mentre era sul treno di ritorno verso Palermo,
telefonavano a casa perché c’era stata un’emergenza a Mazara. Era la
prima cosa che gli dicevo al suo rientro, dopo averlo abbracciato. Lui
non batteva ciglio, non si lamentava. Beveva un bicchiere d’acqua senza
neanche togliersi la giacca. Mi dava un bacio e mi sussurrava
rammaricato: «Ci vediamo domani». E tornava alla stazione Lolli, di
corsa, per prendere l’ultimo treno del pomeriggio.

Un giorno fummo
invitati a casa del senatore La Loggia. Gli amici chiacchieravano e si
vantavano: «Mio padre, il senatore»; «Mio padre, il principe»; «Mio
padre, il professore di università».

Vedevo che Paolo era
insofferente, era chiaro che non ne poteva più. Dopo un attimo di
silenzio, disse: «Mio padre era carrettiere, trasportava il fieno». E
fece il verso del cavallo. Fui l’unica ad accennare a un sorriso alla
battuta di Paolo. «Perché l’hai fatto?” gli chiesi. «Li conosco quei
ragazzi, molti sono stati miei colleghi di università». Erano quegli
stessi che l’avevano disprezzato perché magari aveva il cappotto rotto o
le scarpe bucate.

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Alle
feste, guardavamo gli altri ballare. Lui rideva come un matto, io
protestavo. «Agnese, ma tu perché stai con me? Io non ti do niente di
tutto questo. Non sono il tipo di marito che torna a casa sempre allo
stesso orario, si mette le pantofole, si siede davanti al telegiornale e
poi nel pomeriggio porta la moglie in giro per una passeggiata. Lo sai
perché stai con me? Perché io ti racconto la lieta novella». La prima
volta che me lo disse, rimasi spiazzata. Mi misi a piangere. «Io ti
sollecito, ti stuzzico, ti racconto la lieta novella che sta dentro
tante storie di ogni giorno. Ti racconterò tutte le storie che potrò.
Così il nostro sarà un romanzo che non finirà mai, sino a quando io
vivrò. La lieta novella manterrà sempre fresco il nostro amore. Perché
l’amore ha bisogno di mantenersi fresco».

* * *

Paolo era sempre il
primo ad arrivare in ufficio, di buon mattino, e prendeva una delle
adorate papere della collezione di Falcone. Poi aspettava che Giovanni
se ne accorgesse. Magari, Paolo si divertiva pure a fargli sorgere il
dubbio: «Ma ci sono proprio tutte le tue paperelle? Ne sei sicuro?».
Quegli scherzi erano un modo per allentare la tensione. A un certo
punto, Paolo lasciava di nascosto un biglietto nella stanza di Giovanni:
“Se vuoi riavere la tua papera cinquemila lire mi devi portare”.

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* *
*

Ricordo le parole di Paolo: «Palermo non mi piaceva, per questo ho
imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non
ci piace per poterlo cambiare». Anche questa era una buona novella che
mio marito mi annunciava ogni giorno. Perché a differenza di tante altre
persone lui credeva nell’uomo, anche il più terribile all’apparenza,
come appunto è il mafioso. Ecco cosa diceva Paolo ai suoi imputati,
persino agli uomini d’onore: «Voi siete come me, avete un’anima, come ce
l’ho io. E oltre l’anima cosa avete? I sentimenti». Loro gli
rispondevano: «Signor giudice, si sbaglia, noi siamo delle bestie». Un
giorno, mio marito convocò Leoluca Bagarella, il cognato di Salvatore
Riina, che in quell’occasione si trovava fuori dalla gabbia. Il
capomafia era particolarmente nervoso, fece anche il gesto di sputare.
La guardia carceraria intervenne subito, prendendo le manette. «Questo è
oltraggio a pubblico ufficiale». Ma Paolo intervenne: «Aspetti». E
rivolgendosi al capomafia disse: «Ma tu uomo d’onore sei?». E l’uomo
d’onore si inghiottì la saliva. Paolo lo lasciò fuori dalla gabbia,
senza le manette. Era un messaggio chiaro: non ho paura di te, e
addirittura posso anche avere fiducia in te. Credo che in
quell’occasione Bagarella, stizzito, ebbe a dire: «Il borsello è
viscido».

* * *

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L’ultima occasione in cui ho visto veramente
sorridere Paolo è stato il Capodanno 1991, ad Andalo. Era
particolarmente felice perché ci aveva raggiunto suo fratello Salvatore
con la moglie e i figli. Fu una festa, l’ultima per la nostra famiglia.
In quelle piacevoli serate, Paolo non si limitava a intrattenere la sua
famiglia, ogni tanto si allontanava per una sigaretta. E scompariva.
Poi, dopo mezz’ora, lo trovavamo in mezzo a una comitiva di giovani
sciatori mentre raccontava di Palermo e delle gesta del pool antimafia.

*
* *

Mi ricordo come fosse oggi quando il primo luglio tornò da Roma e
mi disse: «Ho respirato aria di morte». Il pomeriggio era stato al
Viminale, per l’insediamento del nuovo ministro dell’Interno Nicola
Mancino. Quel giorno aveva anche ascoltato il nuovo pentito Gaspare
Mutolo, che gli aveva parlato dei rapporti intrattenuti da alcuni
uomini  delle istituzioni con Cosa nostra. Sapeva che dopo Giovanni
Falcone sarebbe toccato a lui. L’aveva capito. Al punto da non voler
essere baciato né da me, né dai suoi figli. Ci stava preparando al
distacco. Due giorni prima di morire, mio marito aveva un desiderio. Mi
disse: «Andiamo a Villagrazia, da soli, senza scorta». Non era un
marinaio esperto, ma nuotava benissimo, perché solo nel mare si sentiva
libero. Incontrammo un amico, che ci offrì una birra. Poi Paolo volle
fare una passeggiata in riva al mare. E non c’erano sorrisi sul volto di
Paolo, solo tanta amarezza. «Per me è finita. Agnese, non facciamo
programmi. Viviamo alla giornata». Mi disse che non sarebbe stata la
mafia a decidere la sua uccisione, ma sarebbero stati alcuni suoi
colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere.

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Amore mio,
eri rassegnato. Qualche giorno prima, avevi chiamato al palazzo di
giustizia padre Cesare Rattoballi, per confessarti. Poi, sabato, hai
baciato uno a uno i colleghi a te più cari. Domenica, alle cinque, non
c’eri più.

Tratto da: “Ti racconterò tutte le storie che potrò”
Agnese Borsellino con Salvo Palazzolo
(Editore Feltrinelli, € 18.00, pagine 224, IN USCITA IL 6 NOVEMBRE 2013)

Testo sul web: http://www.antimafiaduemila.com/2013110345952/primo-piano/il-libro-qti-raccontero-tutte-le-storie-che-potroq.html.

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