Gilles Deleuze e Michel Foucault hanno intrattenuto un’amicizia profonda e distante. Misterioso rapporto, l’ha definita Deleuze nell’intervista a Claire Parnet sull’Abecedaire. Poi subentrò il rammarico quando il filosofo delle Parole e le cose o di Sorvegliare e punire morì nel 1984. I rapporti si erano raffreddati dopo una serie di dissidi teorici e politici. Nel 1976 Foucault criticò la nozione di desiderio di Deleuze-Guattari nell’Antiedipo. Poi si allontanarono sul caso dell’avvocato della Raf Klaus Croissant, estradato dalla Francia in Germania nel 1977. Emersero divergenze anche sulla questione palestinese.
Deleuze conservò tuttavia un enorme rispetto nei confronti di Foucault. Per lui era una «ventata speciale». «Era atmosferico», come un’emanazione o un’irradiazione. La si percepiva quando entrava in una stanza. L’aria cambiava. Ricordo di un gesto di metallo, di legno secco, strano e attraente in cui era possibile percepire un grano di follia. Dentro Foucault c’era una piccola radice che permetteva alle cose di mostrarsi in una luce diversa. Quando la radice germoglia, produce conoscenza. Come in ogni attività vivente, la crescita è un evento drammatico. Se la follia è il grano da cui nasce il pensiero, il trauma è la condizione di un nuovo pensiero.
Anche quello di Deleuze è stato un gesto innovativo. Artista del ritratto, più che compilatore di storie della filosofia, il suo è un pensare con Foucault, non un volerlo spiegare in quanto autore da collocare in un museo. Il pensiero è sempre contemporaneo, diviene con i suoi problemi. Per questo bisogna catturarne l’atmosfera.
TRA MONOGRAFIA E RITRATTOQuesto è il risultato di Foucault, monografia di Deleuze pubblicata nel 1986, due anni dopo la morte dell’amico (ripubblicata da Cronopio). È un libro da leggere per capire un percorso che ancora oggi, grazie alla pubblicazione dei corsi al Collège de France, conosce un’inesauribile vitalità .
Per preparare i materiali di questo capolavoro della filosofia contemporanea, Deleuze impartì tra il 1985 e il 1986 un ciclo di lezioni che oggi sono state pubblicate in italiano dall’editore Ombre Corte. È da poco in libreria il primo volume Il sapere. Corso su Michel Foucault (1985–1986)/1, (euro 23, pp. 269). Ne seguiranno altri due.
Nel 1999, la Biblioteca Nazionale di Francia ha stabilito un archivio delle registrazioni delle lezioni tenute da Deleuze all’università Parigi VIII tra il 1979 e il 1987. I seminari sono stati registrati da molti studenti, provenienti da tutto il mondo, proprio come accadeva a Foucault al Collège. La Bn ha riversato le audio-cassette in file digitali e così nel 2011 anche le lezioni su Foucault sono state rese disponibili su Internet. È un piacere leggere, e non solo ascoltare, i materiali densi, la lingua complessa, il labirintico argomentare di Deleuze, le fulminee definizioni che colgono le fasi atmosferiche e i dispositivi teorici confluiti nella monografia-ritratto.
Filosoficamente, Deleuze chiarisce l’eredità kantiana (e heideggeriana) sviluppata da Foucault nei primi anni del suo lavoro e spiega come in seguito abbiano pesato sul suo metodo archeologico e genealogico. Ne emerge il ritratto di un filosofo nè strutturalista, né fenomenologo. Foucault è un pensatore dell’immanenza, un materialista radicale di nuovo genere. Un apprezzamento giunto negli anni Ottanta che rispecchia quello dato da Foucault negli anni Sessanta: il XXI secolo sarebbe stato «deleuziano».
OLTRE LE LINEE DEL POTEREAl centro delle lezioni c’è l’interrogazione sul potere. Con una una differenza rispetto al 1972 quando, in un dialogo sulla rivista «L’Arc», Deleuze osservò che il potere di Foucault era un concetto totalizzante e non spiegava il motivo per cui gli uomini lo desiderano, preferendo essere dominati piuttosto che mantenere la propria libertà . Negli anni successivi, Deleuze avvertì un cambiamento in Foucault. Cita una frase da La vita degli uomini infami dove Foucault avverte un limite e propone un rimedio: «Qualcuno obietterà – scrive – rieccoci, sempre con la stessa incapacità di oltrepassare il confine, di passare dall’altra parte, di ascoltare e far comprendere il linguaggio che viene da altrove o dal basso; sempre la stessa scelta di collocarsi dalla parte del potere, di quello che esso dice o fa dire».
Superare la linea del potere significa raggiungere un terreno dove l’esistenza è già data, ma non il modo in cui essa è determinabile. Non lo può essere dal potere che non tutto può catturare. Bisogna, al contrario, parlare del potere partendo da un terreno che non è di nessuno, ma è di tutti. Con la storia della sessualità e quella della verità in Grecia, a Roma e nel primo Cristianesimo, Foucault cambiò impostazione e, invece del potere in quanto tale, iniziò a interrogare l’etica e il suo rapporto con la politica. L’oggetto di questa riflessione era uno spazio dove il soggetto è impegnato a definire il proprio sé attraverso la mediazione delle norme da rispettare e le azioni da compiere. Tale spazio assume una dimensione costituente («etopoietica» scrive Foucault) quando il soggetto matura la forza di trasformare il proprio modo di vita, crendo pratiche e modelli giudicabili dove emerge un’autonomia dal potere. Questo è tanto più vero nelle società neo-liberali dove il potere coltiva la libertà , mentre i soggetti possono sviluppare un’autonomia che è anche il luogo di una contestazione possibile.
Nelle lezioni, Deleuze insiste molto sul rapporto tra il sapere e il potere, profonda «antinomia» e complesso dualismo che caratterizzò la riflessione di Foucault negli anni Sessanta. Vent’anni dopo, in corsi come Il governo dei viventi (Feltrinelli) o Subjectivité et vérité, in conferenze rivelatrici come Sull’origine dell’ermeneutica di sé (Cronopio) o Mal fare, dire vero (Einaudi), Foucault interroga sempre il «sapere», ma da un punto di vista politico e affermativo: la verità non è l’espressione di una conoscenza pura ma è un «sovrappiù di forza» che eccede il potere. Il «sapere» non è più un discorso filosofico-giuridico, ma si proietta sulle pratiche e spinge il soggetto al superamento dei suoi limiti.
COSÌ VICINI, COSÌ LONTANIL’etica viene intesa come una forza che, da un lato, permette la maturazione della volontà di non essere eccessivamente governati e, dall’altro lato, istituisce la «politica di noi stessi», cioè «il principale problema politico dei nostri giorni» scrive Foucault.
Il percorso seguito da Foucault rientra in quello che Deleuze ha definito il momento spinozista del pensiero politico. Più che imporre i valori dell’«uomo», rispettando così i principi della «morale», la politica è l’espressione di una potenza che si manifesta secondo infinite modalità e gradazioni. Nasce da qui l’esigenza di sperimentare i ruoli, allontanandosi dall’idea che la distinzione tra chi comanda e chi obbedisce sia irreversibile. Tale distinzione è mutevole. La politica non è un gioco fissato per sempre dalla decisione di un sovrano o dal contratto tra le parti. Essa è una permanente negoziazione sulle leggi, sul potere e sulle norme. Foucault ha affrontato la sfida dal punto di vista dell’individuo e del suo rapporto con il governo. Deleuze è invece partito da una molteplicità , di cui l’individuo e il governo sono espressione, cercando di articolare la potenza dei molti e non il potere dei pochi.
Due filosofi: così lontani, così vicini. Uniti dall’idea che l’etica sia l’espressione della potenza, mentre la politica è una sperimentazione oltre la linea delle identità prestabilite, dove i molti che obbediscono ai pochi lo fanno in base a certezze infondate e rinegoziabili. Qualcosa che il potere, e i suoi custodi, trovano intollerabile e inaccettabile.
Articolo pubblicato su [url”il manifesto”]www.ilmanifesto.info/[/url] del 26 luglio 2014.
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