Luciano Canfora: 1914

1914: l’arte di ripensare l’epoca del grande conflitto europeo in un saggio illuminante di Luciano Canfora

Luciano Canfora: 1914
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16 Settembre 2014 - 20.30


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di Roberto Donini.

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Avvicinarsiallontanarsi come in un film

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A volte le date e le ricorrenze della Storia, paiono davvero misteriosamente intrecciarsi e l’arte dello storico è rinvenire i capi del nodo. La riedizione del fulminante saggio di Luciano Canfora 1914 (Sellerio)la cui prima uscita è del 2006, ha questa sorte, celebra i 100 anni dell’avvio della grande guerra in presenza di un’Europa sofferente che vede ai suoi bordi l’accendersi di conflitti violentissimi. Nell’indagare meglio i densi di incroci temporali del libretto, partirò da una marginale nota autobiografica.  

L’ho letto esattamente nei giorni tra il 28 luglio (bombardamento di Belgrado e inizio della guerra tra Austria e Serbia) e il 2 agosto (inizio della  guerra tra Germania e Francia) 100 anni esatti di distanza e per di più passeggiando tra le residue trincee dell’Adamello-Tonale-Brenta il cosiddetto fronte centrale italiano. Un’ immersione spazio-temporale che forse ha esaltato del testo anzitutto i caratteri cinematografici, o meglio cinetemporali. Infatti il testo ha il pregio narrativo di spostare il lettore nei giorni convulsi del precipitare della crisi (montaggio incrociato serrato tra cancellerie il finale del Padrino parte III), poi indietro (flashback) ai presupposti, nella bella epoque, e in avanti, agli scenari della “guerra civile europea” (flashforward). Ovviamente c’è un ritmo e una consistenza diversa tra i movimenti; all’accenno di passato e futuro, succede  il dettaglio dell’attimo fuggente, di quell’estate di “fine Europa”.  Poi c’è la scrittura, una prosa tanto chiara e pulita, denotativa nel senso di evocare (senza dire) la polvere delle stanze delle cancellerie o le personalità (socialiste come conservatrici) sperse di fronte al salto nel buio.


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Sentimento dell’epoca

Insomma una narrazione godibile e “interessante” nel senso di Storia che ci interessa come la intendeva soprattutto Antonio Labriola e che poi Croce interpreta “contemporanea”. Tuttavia come Labriola e a differenza di Croce, nonostante l’analoga qualità estetica della sua scrittura, Luciano Canfora è storico “militante”, nel senso che milita dentro la storia che narra;  perciò il suo “problema storiografico” è la definizione del periodo, il “secolo”, il prima-dopo della rottura per comprendere come si agì.  

Antonio Labriola quando muore nel 1904, lascia lo scritto, celebre e incompiuto, Da un secolo all’altro nel quale il passaggio al 900 è considerato la chiusura dell’effetto europeo e borghese della Rivoluzione Francese e l’apertura di quel che oggi è chiamata “globalizzazione”, allora interpretata come evolutiva proletarizzazione del mondo. Raffrontato a quest’intento “epocale” del  saggio (detto anche IV saggio sul materialismo storico) del cassinate, lo studio di Canfora propone nell’incipit,  il I capitolo “Un anno epocale”, una altrettanta chiara e a mio avviso convincente periodizzazione “secolare”. 

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Anzitutto con le potenti citazioni letterarie dell’ottimismo irrazionale per la guerra imminente dello Sherlock Holmes ne Il suo ultimo saluto (p.9-10) e della follia che prende la comunità del sanatorio di Davos ne La montagna incantata di Thomas Mann (p.11-12) pone  la crisi della coscienza europea e quindi la rottura cruda –e non evolutiva come in Labriola- con l’800 borghese. Questo è il termine dal quale partire. 

Quindi, si confronta con il Nolte de La guerra civile europea” (p.13-14)  che vede avviarsi nel 1918 un confronto “duro” tra sistemi (comunismo, capitalismo, nazismo) che caratterizzerà il 900 e, poi, con il Braudel  de Il mondo attuale che vede in “poche ore” precipitare l’Europa “nel baratro” (p.14-16), accelerando la sua “Longue Durée”. Al primo contesta che la sua posticipata periodizzazione  finisce per salvare il “mondo morente” che arriva al 1914; al secondo che tra socialismo e baratro si poteva scegliere. In fondo ad entrambi usando il Borges de Il giardino dei sentieri che si divaricano (p.15) imputa la amoralità della loro Storia, lui che è uno storico “militante” osserva l’effetto teorico “sbagliato” dell’appartarsi da quella Storia che, a mio avviso, in questo 2014 trova il suo termine finale, perdendo l’altura da dove guardare il panorama contemporaneo. Il secolo breve di Hobsbawm (1917-1989) si riallunga a secolo e la globalizzazione “ottimistica” di Labriola precipita nella guerra.


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Fondazioni nel mondo “più piccolo”

Il cenacolo di impegnativi autori contemporanei, che avvia il libro, rende il clima del momento ma il filologo Canfora vuol dare a questi  testimoni di rilievo, ancor “sensualmente” coinvolti nel baratro, il fondamento “classicista” e nel II capitolo Antefattischiera Tito Livio e Tucidide. 

A loro affida la sapienza degli strumenti metodologici: al primo (p.17-18) la misura della “causalità” storica,  di quanto retrocedere dagli avvenimenti, concludendo per un equilibrio tra un primissimo-piano sui “volti” del 1914 e campi lunghi sugli antefatti; al secondo (p.19) il “campo totale”, il senso prospettico che si offre allo storico, l’ulteriore posteriore contestualizzazione della “guerra del Peloponneso”, che permette a Tucidide di comprendere come in un mondo “molto più piccolo” (la forma/spazio è Grecia+Persia),  la “guerra durò ventisette anni dal 431 al 404 a.C., però i contemporanei pensavano che nel 421 essa fosse giù finita, dopo dieci anni e che dopo qualche tempo ne era cominciata un’altra”(p.19). 

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Lo storico –cioè Tucidide il “capomastro” degli storici- “che guarda nel profondo”, guarda attraverso un’altra forma-tempo e “vede”, cioè riesce a dare ai piccoli avvenimenti tra Sparta e Atene l’universalità di una crisi catastrofica del mondo antico, la prima “guerra civile”.  Dal’altra parte allo storico greco, Canfora affida pure le ultime dense righe del libro (p.167), laddove lo sforzo di scoprire la “causa verissima e inconfessata” del conflitto greco conduce alla scoperta “tautologica” dell’inevitabilità dello scontro di potenze. Questa è l’inevitabilità a-posteriori della Storia,  che è il limite hegeliano del nostro sapere, cui si oppone la situazione etica di Borges, quando a-priori,  ci troviamo di fronte ai “sentieri” ancora vergini della scelta. In questa tensione sta il lavoro “universalistico” di Tucidide che dimostra “l’insufficienza delle spiegazioni settoriali, parziali, uniche” (p.167).


La scienza di Canfora

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Ho voluto soffermami su questa dialettica tra libertà e destino, perché lì si svolge il lavoro della “militanza storica” e questa offre una prima risposta al drammatico approdo di Heidegger, poi ripreso dalla mente grande di Claudio Napoleoni: “Ormai solo un Dio ci può salvare”. Nel suo andirivieni nel tempo, Canfora esplora la dimensione della possibilità (libertà) e della necessità, dando consistenza alla Storia come ragionamento unitario di fronte alla crisi del pensiero “spezzettato” e al suo ridursi a persuasione retorica. Questo aspetto dell’indagine è quello dove la “saggezza” (arte+sapienza) produce  risultati scientifici di rilievo.

Proprio  il 1914, l’improvviso infiammarsi estivo dell’Europa con il suo carico di proclami, di appelli, di parole, è il terreno d’elezione per la critica della retorica, il terreno proprio dell’arte filologica di  Canfora. Quel fuoco illumina l’occultamento della natura imperialistica del capitalismo europeo avvenuto durante la bella epoque; l’esplosione dimostra la fragilità della solidarietà europea (aristocratica, borghese e da ultimo proletaria); la scandalosa rivelazione e la guerra richiedono una dose maggiore di ideologia per “velare” ed occultare le indicibili ragioni del massacro ed allora si evoca lo scontro per la “democrazia”. 

La ricchezza della prosa del saggio evidenzia certo, marxianamente, la dialettica tra l’ideologia e la struttura fattuale dello scontro, ma di più indaga la potenza euristica delle ideologie, leninamente le inevitabili approssimazioni per l’azione. Così “Entra in scena Lenin” (p.138-144) a svelare l’ipocrisia del campo socialdemocratico mentre la più antica ideologia dell’Europa, quella cattolica denuncia “L’inutile strage” (p.145-152) ed entrambe, rivoluzione e tradizione, dimostrano l’impalpabilità dell’inesistente “democrazia”.

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In fondo 1914  Ã¨ un “exeplum” funzionante del contributo storico più precipuo e di pregio di Luciano Canfora: la critica alla democrazia moderna, che, a mio avviso, è sviluppo “alto” di temi di Rousseau, di Tocqueville, del Marx della Critica al programma di Gotha, di Lenin, attraverso, come si accennava, il fondamento nella “classicità”. A mio avviso la puntuale comparazione storica di questo tema -ricordo almeno due suoi libri importantiCritica della retorica democratica del 2002 e il celebre, anche per le polemiche ridicole e “retoriche” che ne seguirono, La democrazia. Storia di un’ideologia” del 2004– trova qui la sua sperimentazione “contemporanea”, la verifica della messa in moto per agire nel  secolo che di lì si apre.

Sotto questo profilo l’ultimo elemento temporale, l’ultimo “movimento di macchina indietro” del libro – in appendice come aggiornamento alle celebrazioni del 2014: Grande Guerra, la scintilla fu italiana– contiene a mio avviso un quesito sull’attualità del 1914, un paragone con l’attuale crisi europea. C’è da chiedersi se la struttura imperialistica della I guerra mondiale, “la lotta per l’egemonia tra le grandi potenze” (p.167) al modo di Tucidide, non sia più elettivamente affine al nostro oggi della categoria di conflitto tra campi ideologici, con la quale generalmente si interpreta la guerra 1939-45.

Quanto somiglia la prosaica situazione attuale, post-ideologica, a quell’evento nel quale al culmine della produzione della “poesia sociale” del socialismo evoluzionista e della “poesia scientifica” del positivismo borghese, si cade nel baratro della “prosa della politica di potenza”, dove la guerra è “prosecuzione della politica”? 

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Quanto la nostra rassegnazione alla barbarie del darwinismo sociale dell’economia liberista, della guerra economica chiamata globalizzazione, somigli all’incoscienza per la strage di “popolo” che fu quel conflitto? Soprattutto quanto in entrambe queste situazioni l’ideologia democratica serva ad occultare le ragioni vere dei fatti e a mobilitare i popoli su falsi miti?



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