Si respira un’aria febbrile nelle e fra le pagine dell’ultimo libro di Angelo D’Orsi, [url”1917. L’anno della rivoluzione”]http://www.laterza.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1953&Itemid=101[/url]. E come potrebbe non essere così? Raccontando minuziosamente le vicende di quello che comunemente è detto l’inizio – il vero inizio – del XX secolo, D’Orsi, da storico militante qual è si immerge (e ci chiede di fare altrettanto) nella temperie di un anno straordinario che sembra contenere, in nuce, tutto quello che sarà il secolo breve, con le sue incredibili conquiste e le sue incredibili miserie, la perdita definitiva di ogni sembianza di innocenza dell’Occidente (ancora presente nel secolo precedente), il dispiegarsi pieno e ormai privo di paraventi ideali della realpolitik praticata dalle cancellerie europee, la guerra come compiuta realizzazione della divaricazione fra tecnologia ed etica, la dirompente avanzata del movimento proletario e le reazioni sanguinarie del potere borghese.
In realtà , come D’Orsi racconta con stile avvolgente, il 1917 non è solo l’anno della rivoluzione, quella realizzata nella Russia post-zarista ma anche quella mancata nei paesi della democrazia liberale, è anche l’anno in cui il volto militare del potere borghese getta via ogni infingimento e si rivela in tutta la sua spietatezza, in tutto il suo disprezzo per la vita, nel crescente ricorso ad un abominevole principio della riduzione a numeri (previsti e poi rilevati) della perdita, mondata di ogni riferimento all’umanità – dolente e offesa – che grida dietro i meri dati quantitativi.
Il 1917 è insomma, nella sua estrema complessità , il momento in cui il capitalismo rivela la sua sostanziale indifferenza per l’umano, prima perimetrandone numericamente la consistenza dentro i rapporti militari e poi – e sempre di più durante il secolo – definendone il compito di ridursi alla dimensione del consumo.
Il libro ha un fascino particolare che gli deriva dall’essere insieme estremamente documentato (come si addice ad uno studio scientificamente condotto) e percorso da una tensione morale quale può venire solo da quella sorta di militanza cui si accennava sopra, che non è, come banalmente si potrebbe pensare, un rifiuto del fattuale sacrificato all’ideale, bensì – specie per uno storico – una fruttuosa coesistenza di teoria e di prassi, di rispetto per il dato e di coerenza metodologica, senza alcuna rinuncia del prendere posizione, che nel caso di D’orsi è assolutamente e orgogliosamente dalla parte delle classi subalterne.
Molti sono i passaggi significativi di un racconto cadenzato sul registro dei mesi che si susseguono, uno dopo l’altro, ogni mese col suo capitolo. Uno – la scelta è arbitraria, è evidente – ci pare centrale: quello in cui si dà conto dell’intenso dibattito, teorico e politico, che attraversò la compagine rivoluzionaria sul destino che occorreva disegnare dello stato, per Lenin non spazio istituzionale neutro con la funzione di mediare i conflitti fra le classi ma esso stesso strumento totalmente al servizio di una classe egemone.
Ecco, nei dintorni di quella questione – mai adeguatamente affrontata da Marx – della necessità di una evaporazione dello stato e del passaggio ad una società senza classi, si consumò probabilmente il primo e forse più grande smacco della rivoluzione. Gli anni dello stalinismo e quelli successivi della nomenclatura stanno lì a ricordarcelo.
L’auspicio è quello che l’Autore, che qualche anno fa ha scritto anche un lavoro sul 1989, faccia seguire questo scritto sul 1917 da uno studio che focalizzi ciò che questi due anni cruciali – il primo è l’esplosione della speranza, il secondo la sua apparente morte – hanno in comune, ben oltre le evidenti differenze.
(27 marzo 2017) [GotoHome_Torna alla Home Page]