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Proponiamo, per gentile concessione dell’Editore Colibrì, l’introduzione di Lelio Demichelis (sociologo e studioso del fenomeno tecno-capitalista nei suoi molteplici aspetti) al nuovo libro a sei mani di Piero Coppo, Stefania Consigliere e Paolo Bartolini “Cose degli altri mondi. Saperi e pratiche del divenire umani”.
Piero Coppo è medico, neuropsichiatra e padre dell’etnopsichiatria in Italia, Stefania Consigliere è filosofa e ricercatrice in Antropologia presso l’Università di Genova, Paolo Bartolini è analista filosofo e collaboratore di Megachip.
Buona lettura!
INTRODUZIONE
di Lelio Demichelis
«Perché mai gli sfruttati non si ribellano? E se la radice di ogni valore (e in primis proprio quello del denaro) sta nell’immaginario degli umani, perché sembra impossibile uscire dall’orizzonte capitalista? L’elemento più inquietante di tutti è, infatti, proprio quest’adesione collettiva alla catastrofe, l’assenso alla nostra servitù», scrive Stefania Consigliere.
E ancora: «C’è un divenire capitale degli umani (e un prender forma umana da parte del capitale) che è la parte più temibile di tutta questa storia (…): siamo la punta più avanzata di un colossale esperimento di cattura delle anime, che non passa più solo per l’imposizione violenta, come avveniva nel dominio classico, ma per l’adesione – rassegnata o entusiasta – a un regime pulsionale e concettuale molto soft, che si presenta come la quintessenza della libertà stessa. (…). Qualcosa che, svuotando i soggetti delle loro forze, li assoggetta a un volere esterno e malevolo. (…) È questo, probabilmente, il peccato originale della modernità e attraverso questa violenza è possibile leggere la grande opera di unificazione (intendo: di riduzione all’uno) della modernità, dalla caccia alle streghe alla streghizzazione della dissidenza, dalla società disciplinare al mito del Progresso e della Scienza, e via dicendo». E Piero Coppo: «nella contemporaneità diviene centrale l’ibridazione evoluta tra umano e forme e contenuti immateriali prodotti su scala industriale capaci di risiedere permanentemente nel conscio e nell’inconscio La colonizzazione contemporanea dell’immaginario, già descritta nelle sue forme precedenti da storici e studiosi a proposito dell’occidentalizzazione di altri mondi (…) va di pari passo con l’allestimento di un ambiente artefatto che nessun “gruppo naturale” umano è in grado di controllare. Gli umani possono solo contribuire, con la loro ingegnosità, la loro passione piegata a quelle forme e a quei linguaggi, ad alimentarlo. Questo orizzonte artefatto continuamente rigenerantesi, strettamente legato alle modificazioni strutturali ambientali che produce, è reso possibile dalla saldatura tra tecno-scienza e capitalismo spettacolare integrato».
Basterebbero queste citazioni per sgomberare il campo da possibili o prevedibili obiezioni e dire invece che questo incontro tra un sociologo – chi scrive questa Introduzione – e i tre autori di questo saggio – che si occupano invece di filosofia, di psicologia e di etnopsichiatria – era inevitabile e necessario, per evidenti affinità elettive.
Perché vi è una analisi largamente condivisa delle forme e delle norme di normalizzazione con cui il tecno-capitalismo ha potuto dispiegare il suo dominio e la sua egemonia (Gramsci) modellando su di sé i singoli e le società, il come/cosa pensare e le pratiche del (dover) fare, divenute modi del (dover) vivere, convincendoci che non vi sono alternative a questo Occidente («al crocevia tra economia di mercato, tecnoscienza e culto dell’individuo separato», nella sintesi di Paolo Bartolini), e che l’unica forma possibile di vita è quella di adattarsi, velocemente e flessibilmente, all’ambiente che incessantemente tecnica e capitalismo modificano per il proprio accrescimento. Un tecno-capitalismo cui non serviva tanto conquistare lo Stato (lo Stato moderno è da sempre la sovrastruttura del tecno-capitalismo), quanto la Società, facendosi appunto non mezzo per fare (come dovrebbero essere la tecnica e l’economia), ma forma totalitaria/religiosa e pedagogica appunto della vita intera dei singoli e dell’insieme. Per questo il tecno-capitalismo ha progressivamente reso se stesso emozionale, spettacolare, nonché produttore di immaginari affascinanti, utopistici e insieme identitari, trasformandosi da quella che pure era una scienza triste, come l’economia capitalista, in una fabbrica di felicità e di gamificazione.
Per poter compiere un’analisi il più possibile completa su questo tecno-capitalismo, la sociologia ha sempre più bisogno della filosofia, dell’analisi filosofica e della etnopsichiatria (e viceversa); perché serve una attenzione dettagliata e orizzontale delle forme e delle norme del potere (del biopotere, in senso foucaultiano) degli apparati tecnici, ormai una cosa sola con il capitalismo, smentendo le illusioni dei post-operaisti e del post-capitalismo di Paul Mason; inoltre, la sociologia, che è scienza umanissima ma soprattutto critica – altrimenti non è sociologia – non può che essere accanto (dovrebbe essere accanto) a chi si interroga sulle e cerca e ricerca le cose degli altri mondi, quei saperi e quelle pratiche necessarie per divenire veramente umani, come si propone appunto questo saggio, eterodosso e quindi importante.
E ancora – ma questa è una riflessione personalissima, per di più avendo scritto espressamente di tecno-capitalismo come di una religione – questo saggio/intervista/dialogo ha permesso di recuperare il concetto e il senso del sacro (che è cosa diversa dalla religione, anche se spesso sovrapposta), portando a ripensare al sacro anche chi, kantianamente, cerca di realizzare e di insegnare sempre, per quanto possibile, pratiche di autonomia, di ricerca di se stessi e di cura di sé. Il sacro, quindi una dimensione intima, veramente relazionale con gli altri, con l’ambiente (riprendendo la questione della responsabilità, indicata da Hans Jonas), con il diverso e con quel di-verso – ma sono tutte forme del sacro – che chiamiamo emozione non eteronoma, oltre che con l’(apparentemente) irrazionale, anche se personalmente vissuto poi molto laicamente.
Affinità elettive, dunque, perché comune obiettivo è anche la cura dell’uomo (nel senso foucaultiano di attivazione di tecniche del sé), e delle sue malattie esistenziali; perché anche la sociologia non deve (non dovrebbe, è la grande lezione di Luciano Gallino) fermarsi alla sola e fredda analisi dei dati, ma deve proporre anch’essa una cura, che non può che passare per una riscrittura di un discorso sui fini comuni. Cercando quella alternativa che invece il tecno-capitalismo aborre come il peggiore dei vizi umani perché permetterebbe di (provare a) uscire dalla uni-dimensionalità perseguita e prodotta invece dall’apparato. Una cura necessaria per una società malata per overdose di tecnica e di capitalismo, come quella odierna.
Dunque, un libro importante, questo di Paolo Bartolini, Stefania Consigliere e Piero Coppo. Che affronta molti temi, tra i quali ne abbiamo scelti alcuni (a nostra discrezionalità e responsabilità).
Partiamo dal sacro. Che è «l’altro dal profano. È sia ciò che non è possibile, sia ciò che è proibito misurare con in nostri passi (…), anche se la distinzione non esiste per sé, il sacro è in tutto e quindi anche nel profano ma nella grande maggioranza dei casi e occasioni non è riconosciuto, anzi è necessariamente coperto, a volte addirittura denegato, forcluso per far posto a un profano pensabile e operabile» (Piero Coppo). Ma allora, «non si tratta di “re-inventare” il sacro (non è mai stato un’invenzione), ma di dare spazio ai dispositivi umani più o meno decorosi, più o meno efficaci che consentono di “scoprirne”, “svelarne” (pur sempre nell’impossibilità di con-prenderli) i segni, le allusioni, le tracce delle sue qualità, della sua presenza. Siamo qui nell’ambito del mistero, di ciò che, nascosto e chiuso nel segreto, per sua natura “lega la lingua” perché irriducibile alle forme del linguaggio». Quindi (ancora Coppo), «nei confronti di ciò che ci eccede, che non ha e non può avere nome (“l’Origine ama nascondersi”, Eraclito, Fr.116), valgono, in definitiva, solo rispetto e riconoscenza». Ovvero, quegli atteggiamenti etici che dovremmo tornare a esercitare nei confronti degli altri e dell’ambiente naturale, avendo pericolosamente perso più di quarantacinque anni (tanti ne sono passati dal Rapporto sui limiti della crescita del Club di Roma, anno 1971), a inseguire, invece di un doveroso principio responsabilità – ancora Jonas – una artificialissima e deresponsabilizzante realtà virtuale. Aggiunge Stefania Consigliere: «Uno dei più madornali errori dei movimenti libertari, anarchici, comunisti e critici del Novecento è stato proprio quello di abbandonare la riflessione e la lavorazione del sacro alle destre. (…) Forse hanno confuso il sacro con le religioni, che da sempre lo imbrigliano per costruirci sopra sistemi di dominio. Fatto sta che, in quest’abbandono, hanno rivelato una prossimità profonda con la dinamica di quella stessa modernità che, su un altro piano, volevano combattere». Non solo: «con quella sua frenesia di reductio ad unum la modernità ha sistematicamente squalificato tutto ciò che non rientrava nell’“uno” previsto dal sistema, facendone qualcosa di ontologicamente irreale, cognitivamente irrilevante, eticamente sbagliato e soggettivamente pericoloso. Così ci siamo convinti che, al di fuori della ragione deduttiva e della veglia raziocinante non ci fossero modi altri della ragione e dell’esperienza, ma un magma indistinto, completamente destrutturato e del tutto privo d’ordine: sragione, follia, delirio. Non è così. Esiste [invece] una varietà infinita di modi dell’esperienza e della conoscenza, ciascuno con le sue specifiche regole di accesso e di esplorazione, ciascuna depositaria di un “tesoro” conoscitivo particolare».
Non solo: la stessa modernità (o la religione) tecno-capitalista si è fatta sacro e ha creato i suoi luoghi sacri per confermare ovunque la propria teologia (confondendo ancora una volta, religione e sacro), e basterebbe ricordare le cattedrali del consumo di cui parlava alcuni anni fa George Ritzer, o i negozi della Apple (con Steve Jobs grande sacerdote), emozionali, leganti e fedelizzanti. Di più: «ci troviamo con un doppio problema: da un lato, un secolo e mezzo di ritardo ci mette in una posizione decisamente più debole rispetto a quella dei nostri avversari; dall’altro, chi voglia avventurarsi nel sacro deve evitare di essere assimilato ai loschi figuri che lo bazzicano e lo pervertono (vecchi e nuovi pastori d’anime, mestatori, iniziatori al nero e via dicendo). Il sacro, per me» – continua Stefania Consigliere – «è quel che Gilbert Simondon chiamava preindividuale: la dimensione aperta e potenziale che precede e rende possibile l’individuazione e che permane inesausta al di sotto di ogni individuazione. (…) E siccome la modernità – con la sua idea di individuo monadico, autosufficiente ed egoista – è il trionfo stesso della separazione, il contatto con il sacro assume automaticamente, per noi un valore liberatorio».
Ed ecco un secondo grande tema di questo libro: l’individuo (e la sua forma tecnica e capitalista, la sua funzionalità al sistema, la sua malattia esistenziale che il sistema cura – funzionalmente alla propria riproducibilità – solo individualmente); i processi di individualizzazione, soprattutto quelli legati alla suddivisione del lavoro e funzionali alla scomposizione sociale necessaria al funzionamento del tecno-capitalismo (e tanto maggiore è la potenza del mezzo di connessione, maggiore può essere l’individualizzazione e la separazione, come nel lavoro). Processi che creano, appunto, una pseudo-soggettività molto egotista, solipsista ed egologica – e «Non ci passa neanche per la testa l’idea che il mondo possa essere organizzato per gruppi, che le relazioni siano costitutive delle singolarità o che l’individualità possa essere l’esito di un processo mai finito di individuazione. Chi intenda mettere in discussione questo ordinatore dovrà vedersela con l’intero apparato economico-ideologico che fa leva sulla “libertà individuale” come scopo supremo e sul mercato come forma-base delle relazioni» (Stefania Consigliere). Una pseudo-soggettività prodotta da meccanismi di falsa soggettivazione.
E dunque, individuo, individualizzazione e poi, i processi e le pratiche invece di individuazione: che il tecno-capitalismo ovviamente teme perché l’individuazione (Jung, come riferimento) si basa non sulla subordinazione individuale e de-socializzata che permette l’integrazione e la connessione di tutti con l’apparato, ciascuno introiettandone obiettivi e schemi di organizzazione (è l’obiettivo dell’apparato); ma sulla capacità dell’individuo di differenziarsi dal collettivo etero-normante, ma anche, o conseguentemente, di essere in relazione con l’ambiente e con gli altri, con i valori universali, vivendoli però personalmente. Ma forse occorre altro: «Per incontrare umani davvero altri, occorre inoltrarsi in mondi fuori dall’ipermodernità. (…) Nell’epoca che si apre, non è più centrale la prospettiva del perfezionamento, dell’arricchimento del singolo, ma l’apertura alla possibilità della co-costruzione di mondi altri. Il fuoco si sposta dunque sulla polis, lasciandosi alle spalle il secolo delle psicologie e degli individui. La crisi però comporta il necessario passaggio dall’Io al Noi e quindi anche a quello, che può essere molto doloroso, dal Noi al Loro» – Piero Coppo).
Dunque, per il tecno-capitalismo contano l’individualizzazione e l’individualismo (e, come diceva Margaret Thatcher, la società non esiste, esistono solo gli individui – e la famiglia). Ma cos’è invece l’individuazione, che sola, forse, potrebbe contrastare l’egemonia di un falso individuo e di un falso individualismo? Paolo Bartolini la intende come «la progressiva armonizzazione delle componenti psichiche individuali sullo sfondo di una consapevolezza crescente: quella di appartenere a qualcosa più grande di noi e del nostro io»; Piero Coppo dice che «già nella parola si allude a qualcosa di non divisibile, separabile in parti, mentre mi sembra che siamo ben lungi, oggi e qui, dall’idea di una persona compatta, monolitica, “padrona in casa propria”» e aggiunge, pensando al lavoro del terapeuta: «Aiutarti a individuarti, a essere cittadino autoconsapevole, complesso, produttivo e non dismorfico di questo mondo, va bene; ma poi? Contro cosa vai a sbattere, una volta “individuato”? Al di là delle diversità tra scuole, i terapeuti dovrebbero condividere tra loro e con i loro pazienti un orizzonte largo, uno sguardo storico che parta da una valutazione del presente, dai suoi limiti e obbligazioni»; distingue invece Stefania Consigliere: «la parte egemone della modernità costruisce l’individuo come fine in sé [ma solo] in funzione della produzione di plusvalore tramite lavoro salariato e consumo coatto. (…) Se invece intendiamo l’individuazione (…) come il processo che permette il mantenersi della presenza soggettiva, allora sono d’accordo sul fatto che solo dei “processi reali di individuazione” permettano di scardinare vecchi e nuovi modi di dominio».
E si torna al problema fondamentale: questo individuo individualizzato e individualista, egocentrico e narcisista ma soprattutto prestazionale e adattabile (e auto-adattatosi) alle esigenze del sistema, non è un vero individuo libero e autonomo e sovrano di se stesso dentro a un demos anch’esso sovrano e a una società aperta e veramente libera se non libertaria; è piuttosto un individuo illuso di essere libero e autonomo, essendo invece sempre più integrato e connesso (utile e docile, direbbe Foucault) in qualcosa sì di più grande, ma che – come sosteniamo – è solamente l’apparato (la religione) tecno-capitalista, oggi nel punto più alto (per ora) del suo lavoro di costruzione – appunto biopolitica e/o religiosa – dell’uomo nuovo economico e tecnico. Costruzione che da due secoli persegue instancabilmente (come figlio illegittimo dell’Illuminismo), negando nei fatti la libertà individuale che pure formalmente promette. Ma allora, è possibile, si chiede Paolo Bartolini, «la promozione di percorsi di soggettivazione esenti da dominio?» O forse è nella natura di ogni potere negare, sempre e comunque ogni possibilità di autentica soggettivazione, perché questo minerebbe il dominio e soprattutto l’egemonia del sistema? Piero Coppo: «L’individualismo è l’ideologia, la norma di vita che consente l’esistenza del capitalismo, che dissolve i legami comunitari, che abilita e consente il lavoro di auto-valorizzazione a scapito della solidarietà. Ha a che fare con la concentrazione del potere, che è potere di consumo. Ma è appunto un’ideologia e quindi un artificio, una corazza, il segno di una malattia. L’individuazione è il trasferimento di questa ideologia nella traiettoria di un processo auspicato, di una storia in cui ognuno sarebbe “individualmente” (pur facendo parte di un popolo, insieme di individui tutti destinati all’individualizzazione) impegnato. (…) A mio parere la parte nobile dell’avventura, della scoperta dell’individuo (perché ha avuto una parte nobile, ancor oggi viva e arricchente) è finita col finire della borghesia e come la borghesia è arrivata oggi al suo compimento e autodistruzione; mentre la sua parte rischiosa e mortifera è tuttora presente e attiva nell’etica del capitalismo, nelle sue spinte anti-comunitarie, anti-solidali (semmai caritatevoli), nella dinamica infernale della perenne insoddisfazione e della ricerca di protesi che sostengono il consumo e i mercati. (…) per non parlare della scoperta, nel ‘900, dell’io “diviso” (Sigmund Freud, Ronald Laing) oggi addirittura frammentato in personalità multiple in sintonia con le tecnologie digitali. Allora, meglio sottolineare la realtà della divisione e parlare di “dividuo” accentuando la separazione costitutiva e fare in modo che sia consapevole di sé e poi vedere cosa questa consapevolezza faccia fare nell’incontro con l’altro/Altro: prima di tutto con gli altri viventi».
Questa Introduzione – già troppo lunga – si ferma qui. Lasciando al lettore il piacere di entrare personalmente in questa conversazione che gli autori fanno tra di loro, in realtà per ogni lettore; e di poter riflettere ulteriormente sui punti qui brevemente accennati e sui molti punti che sono stati messi invece un poco da parte, per necessità più che per scelta: come gli approfondimenti sul tema del potere e del dominio; sulla relazione/incontro con l’altro/altri e sui modi per costruirla e farla vivere; sul rapporto con l’ambiente; sull’ekstasis; sugli oggetti culturali e sul loro potere; sui caratteri dell’etnopsichiatria e sul potere dell’analisi filosofica e sulla possibilità di cura; e ancora sulla tecnica e sul capitalismo.
Su tutto, resta aperta la domanda richiamata all’inizio: perché gli sfruttati non si ribellano? E quella con-seguente: se il tecno-capitalismo è la malattia dell’occidente, come curare questa malattia (lo sfruttamento e insieme la sua accettazione)? Gli autori cercano risposte in quei saperi e quelle pratiche che possono farci divenire umani – ma che qui non citiamo per lasciare il lettore alla sua libera scoperta. Solo riprendiamo Stefania Consigliere per dire che siamo dentro ad una «antropologia neoliberale di cui fatichiamo ad avvederci e che invece dovrebbe essere il primo bersaglio polemico di ogni critica del presente». Una critica che deve partire dal riconoscimento del reale, cessando di lasciarci affascinare dalle ombre che il sistema proietta sulla parete della caverna o sullo schermo dello smartphone. Ancora Stefania Consigliere: «Se smettiamo di prendere le nostre coazioni per libertà, possiamo cominciare a indagare quale effetto hanno su di noi le infinite “cose” da cui dipendiamo. Cosa fanno di me la rete, i videogiochi, l’automobile, le serie tv, la pornografia? In che postura esistenziale mi mettono i gruppi WhatsApp, la movida oceanica, (…), l’imperativo alla trasparenza? Che tipo di umano divento attraverso l’autopromozione sul mercato della seduzione e la vetrinizzazione del mio intimo su Facebook? (…) Cosa mi fanno fare il narcisismo, l’ansia, il risentimento? E attraverso quali esperienze, esercizi e alleanze posso [invece] diventare altro? – [quell’altro] che è umano e non umano e col quale condividiamo un comune divenire».