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Correnti e scena ovvero I fantasmi non esistono, ma se tutti fanno i fantasmi e credono in quel che fanno, i fantasmi esistono

La risposta (meno breve) di Marco Giovenale a Luca Vaglio per la sua "mappa" della poesia italiana.

Correnti e scena ovvero  I fantasmi non esistono, ma se tutti fanno i fantasmi  e credono in quel che fanno, i fantasmi esistono
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4 Settembre 2017 - 06.46


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di Marco Giovenale

In preparazione di un articolo che poi sarebbe uscito su Gli stati generali, Luca Vaglio aveva posto alcune domande a diversi autori, tra cui il sottoscritto. La mia risposta si può leggere – nella forma sinteticissima in cui l’ho costretta – nel pezzo uscito appunto pochi giorni fa sul sito Gli stati generali. Ma mi rendo conto che certi aspetti della posizione da me espressa possono risultare poco chiari, proprio per l’eccesso di sintesi. Ripropongo allora qui di séguito la domanda che Luca poneva, e un tentativo di risposta mia, meno breve. (M.G.)

 

***

 

Luca Vaglio:

Oggi sembra che tra le diverse forme e tendenze della poesia italiana (poesia lirica e dintorni, poesia orale, poesia di ricerca…) ci sia una differenza profonda, una distanza di modi, di stili, di riferimenti e di prospettive, che porta le diverse tendenze non tanto e non solo a criticarsi l’una con l’altra, ma spesso a disconoscersi in modo radicale. Pensi che oggi questo fenomeno sia più accentuato di quanto non fosse solo alcuni decenni fa? E perchè secondo te oggi le cose stanno così?

Marco Giovenale:

Dividerei una possibile risposta in due parti:

 

1. Argomentando

La domanda dà occasione di chiarire alcune posizioni. Partirei da quello che sembrerebbe un punto ‘cieco’ del discorso: il riferimento ai “decenni”. È un punto che a mio avviso colloca giocoforza la questione in un quadro peculiare, nel quale solo parzialmente mi riconosco.

Se infatti pensiamo alla situazione presente in riferimento a (e in continuità con) un tempo – dato appunto dai decenni scorsi – in cui erano o sembravano essere solo le differenze di stili e modi e riferimenti e tradizioni e prospettive a marcare e  sottolineare o attenuare o insomma modulare le differenze, rischiamo di lasciarci sfuggire la specificità e le variazioni che sono intervenute nel contesto condiviso delle percezioni e della comunicazione negli ultimi anni, soprattutto (ma non solo) in riferimento all’emergere della cultura digitale prima e della rete e dei social network poi.

Sottolineerei l’importanza di fare riferimento senz’altro al passato anche recente, ai decenni dagli anni Sessanta in avanti, come a qualcosa che sicuramente pre/figurava, prevedeva, preparava anzi già organizzava l’avvento del digitale, l’esplosione della (auto)evidente natura reticolare della conoscenza, degli scambi, e la percezione differente, cangiante, incerta, dei fatti anche letterari: un cambiamento di orizzonte si stava configurando.

Questa mutazione si intrecciava non solo con nuove complesse modalità di relazione all’interno della società e nei codici che la società europea generava o riceveva da altri mondi culturali; ma anche – e prima ancora – si mescolava (in rapporto di reciproco cambiamento) con quanto all’interno (nel “teatro interiore”) di ciascun singolo occidentale stava avvenendo, sul piano della sensibilità – perfino epidermica – al mondo e ai rapporti con i simili (e i dissimili).

Se non teniamo in primo piano questo spostamento e trasformazione radicale di prospettiva (di lunga durata, e tutt’ora in evoluzione) allora possiamo vedere una continuità di fondo, perfino aproblematica, con gli anni precedenti, ossia gli anni del primo e secondo dopoguerra, ed elencare semplicemente conflitti di poetiche, su uno sfondo in sostanza bidimensionale, eludendo così una mutazione di base – profonda, sostanziale, a n dimensioni – delle percezioni stesse della realtà, quindi delle strutture comunicative abitative letterarie giuridiche politiche che ‘processano’ e inglobano e cambiano (e si fanno cambiare dal)la realtà. (Nel dettaglio e in generale, anche: i “dispositivi” di cui parla Foucault, e sui quali insiste l’ultimo intervento pubblico di Deleuze).

Per certi aspetti è come se noi tutti, spesso, non tenendo conto di quello che io continuo a pensare possa definirsi l’inizio di un vero e proprio “cambio di paradigma”, guardassimo al campo letterario come ad una cosa profilata e certa, un piano cartesiano, uno spazio comune regolato da leggi note, non contraddittorio, non autocontraddittorio; insomma un terreno semplice o semplificabile per lo sguardo, una specie di tavolo geometrico su cui operare proiezioni, prospezioni, lanciare ipotesi, misurarsi con leggi in gran parte definite. Su un simile tavolo non sarebbe certo difficile veder disegnarsi una scacchiera o gioco di strategia e quindi due, tre o più campi che si fronteggiano e si combattono. (E il bello è che alcuni di questi campi, in luoghi particolarmente sventurati come l’Italia, davvero possono agire tutt’ora come se proprio una scacchiera dovessero abitare e occupare. I fantasmi non esistono, ma se tutti fanno i fantasmi e credono in quel che fanno, i fantasmi esistono).

Così: se si tratta di un terreno ben delimitato, e condiviso e comune e ‘regolato’, è evidente che varie forze in lizza vi operano contendendosene frammenti, corridoi, passaggi, lotti, aree. Battagliano per una “vittoria”, per dei “possessi”. Dunque si sgambettano e scomunicano a vicenda, o si ignorano, predano risorse, pensano di “prevalere”, imporsi, se non alla storia, all’occhio critico del momento.

A mio avviso, invece, sezioni e aree della comunicazione e della trasmissione del senso (nemmeno parlo di scritture e di “arte”) a partire sì dagli anni Sessanta ma in maniera del tutto esplosiva e direi ‘mutagenica’ almeno in questi due decenni recenti, si sono mescolate e sovrapposte, anche intrecciando ciò che è e ciò che non è letterario, contaminando non solo codici peculiari ma ampiamente modi di vita, mettendo radicalmente e direi definitivamente in crisi “il” letterario. O, meglio ancora, dimostrandone già indefiniti e imperimetrabili i confini. Anzi facendoli esplodere / espandere verso l’esterno e verso regioni ancora totalmente ignote ai soggetti stessi che facevano “ricerca letteraria” (ignote di conseguenza, spesso, ai critici, alle riviste, ai siti, ai festival, agli editori. Eccetera).

Pensiamo solo a fenomeni come la scrittura concettuale (non solo nell’esperienza del più noto [ovviamente ignoto in Italia] dei suoi autori, Kenneth Goldmith), o alle contaminazioni fra contesto verbovisivo e musicale; alla scrittura o poesia flarf, alla glitch art, o – dicendo più in generale – al lavoro di artisti essenzialmente visivi fondato su varie forme di testualità. Da Lawrence Weiner a Cesare Pietroiusti, da Cia Rinne a Rosa Menkman, da Rosaire Appel a Liz Collini, da Derek Beaulieu a Miron Tee, da Caroline Bergvall a Christian Bök (che addirittura invade il campo della genetica!), l’elenco dovrebbe estendersi per centinaia e probabilmente migliaia di nomi. (Chi volesse dare uno sguardo a un luogo che accoglie molti dei citati, visiti le pagine di www.textfestival.com).

Ai rami di un albero fatto di centinaia di migliaia di occorrenze, siti, riviste, installazioni, festival, case editrici, riviste, blog, trasmissioni radio, canali youtube, artisti, fondazioni, musei, biblioteche, archivi, collane di testi, incontri, corsi, cicli di reading, conferenze, letture, si è dedicato negli ultimi undici anni – e continua a farlo – il sito www.gammm.org, e anche solo scorrerne la pagina di Index dà forse qualche indicazione circa l’impossibilità di mappare un territorio che è (chiaramente da prima del 2006) non un’area ma semplicemente il mondo.

A questo punto, con queste premesse, affronterei meglio, con minori versanti di (mio) non detto, con minori elementi impliciti nel discorso, la domanda:

“Oggi sembra che tra le diverse forme e tendenze della poesia italiana (poesia lirica e dintorni, poesia orale, poesia di ricerca…) ci sia una differenza profonda, una distanza di modi, di stili, di riferimenti e di prospettive, che porta le diverse tendenze non tanto e non solo a criticarsi l’una con l’altra, ma spesso a disconoscersi in modo radicale. Pensi che oggi questo fenomeno sia più accentuato di quanto non fosse solo alcuni decenni fa? E perchè secondo te oggi le cose stanno così?”

Direi dunque: in Italia l’azione, la modalità di azione, di prassi, di molti poeti è precisamente quella dei poeti. Ossia di chi è persuaso che nella semiosfera esista e resista totalmente invariata e invariabile – come un castello ontologicamente adamantino – una partizione in generi, e che all’interno di questa spicchi e brilli la poesia come un luogo molto preciso, definito, all’interno del quale poche o tante zone si (auto)identificano in un certo modo e agiscono di conseguenza, operando scelte e intrecciandosi (oppure ostacolandosi) o ignorandosi a vicenda. Queste zone sarebbero la lirica, la poesia orale, la poesia di ricerca, la poesia politica, la poesia astratta, la poesia neoromantica, la poesia rosa, la poesia così e la poesia cosà, x, y, z. Sempre di una medesima entità si tratterebbe. Aggettivata.

Da tempo Jean-Marie Gleize parla al contrario, non a caso, di contesto post-poetico (e post-generico); e parla di “scritture” invece che di “poesia”. Ma non apro questa parentesi.

Le zone “poesia x”, “poesia y”, “poesia z”, in Italia, dunque, dovendo operare in un contesto in cui la fantasmatica “poesia” (tout court) ha sempre meno spazi e soldi e interlocutori, anche editoriali, sbagliano diagnosi. Invece di identificare il “problema” nella situazione di accresciuta complessità del campo (che non è più tale) che si sono scelti, proseguono nella finzione (Barthes parlerebbe di “scena all’italiana” – cfr. L’impero dei segni, incipit del capitolo Dentro / fuori) della permanenza delle attività specifiche di una parte del Novecento, proseguono dunque a ignorare quell’esterno del letterario che non solo da anni è già il letterario (demolendone i confini), ma è anche la loro stessa vita (quotidiana, quotidianamente).

Tali zone x – y – z della poesia (ma Gleize le collocherebbe ipso facto nella rubrica “repoesia”, come refrain rétro incantati, dischi rotti), e i loro attori, si avvalgono del resto – sapientemente e giustamente – di schermi, microfoni, collegamenti web, droni e smartphone… ma per fare che? la poesia. Per stare dove? nella poesia. Nel reparto o comparto socialmente individuabile come tale.

Se non è, questo, un segno di scena…

In tutt’altro contesto, in un contesto mutato, le scritture (non la poesia) di ricerca in generale entrano poco e male, per angoli scaleni e intersezioni, nel campo ottico di scenografi e attori che poco di quanto hanno davanti decifrano (e nulla leggono, e tantomeno pregiano).

Per dire. Nel particolare spazio che gli è proprio, il sito gammm – articolandosi in azioni anche esterne alla rete ovviamente – ha prodotto in undici anni (ma già agendo in precedenza, prima di fissarsi in sito) una sessantina di ebook gratuiti; quasi trenta chapbook e 17 plaquettes di scritture nuove; decine di upload scribd e issuu; incontri (già da RomaPoesia 2005 ma a seguire infiniti reading, fino – tra l’altro – a incidere variamente nelle tre edizioni di Ex.it ad Albinea, partendo dal 2013); fondi bibliotecari in almeno tre città;  rapporti con riviste e istituzioni (in Francia la rivista Nioques; in Svizzera, Dusie; in Svezia, OEI; negli Usa, l’archivio Pennsound; per nominarne solo quattro, ed eccellenti); migliaia di post e installazioni; e video e file audio; antologie in rete e cartacee, o volumi collettivi (forse il più noto è Prosa in prosa, 2009); ha costantemente indicato e commentato indirizzi di ricerca, offerto link, moltiplicato pagine e materiali sui social network; tradotto e importato ed esportato materiali nelle principali lingue europee. Offerto indicazioni come quelle ironicamente profuse nell’articolo Un errore diffuso, o – non ironicamente – in questa intervista.

Tutto questo, mi domando, è appena una zona o sottoinsieme del ben definito “spettacolo della poesia” in Italia? O non è forse proprio la traccia (incompleta, mai completabile) di una mutazione intervenuta, in fieri (pur iniziata negli anni Sessanta), che ri/guarda il mondo, non l’Italia soltanto, e coinvolge le percezioni e la vita in generale e non la sola letteratura, e che ha trovato in un ventaglio di autori di scritture di ricerca alcuni interlocutori?

 

2. Sintetizzando

“Modi, stili, riferimenti e prospettive” di alcuni o molti attori del (tutt’ora autocertificantesi come perimetrabile) campo “poesia” differiscono tra loro assai, o poco; e talvolta articolano i loro tratti identitari in forma contrastiva: forse. Si pizzicano o sollecitano uno con l’altro? Probabile. Trovano così, restando al loro noto, ognuno il proprio modo di porsi al di fuori dell’ampliamento di prospettive e di campi che l’esperienza del senso ha invece registrato nel corso degli ultimi decenni. (Ampliamento a malapena paragonabile a quel che fu e fece l’esplosione della fotografia negli anni Trenta dell’Ottocento).

In questa maniera ognuno di loro tra l’altro pensa (nel caso “vincesse” in toto [cosa poi?] con fanfara e fuochi artificiali, o perlomeno si assicurasse un lotto consistente della scena) di dominare (su) quell’esile esile esile sempre più sfibrato assottigliato centrino di garza altamente formalizzata che la poesia occupa nel mercato del pesce editoriale.

Costoro non vedono che la garza però evapora, filo dopo filo, semplicemente perché nutre altro e si dissipa, con gioia, in altro. In esperienze di senso che moltiplicano i piani di godimento attraversando (ma anche no) ed eludendo sia Gutenberg sia le esperienze di giustapposizione di testo e arte in matrimonio meccanico, matematico (poesia+musica, poesia+immagine, …) che il Novecento ha pur esplorato, meritoriamente (e inevitabilmente, anche).

Costoro dunque battagliano per il passato che solo loro (ma in tantissimi: una vociante maggioranza.it) vedono, con criteri e persuasioni che necessitano di camerini e trucco prima, e storici pop dopo, per il mantenimento di un teatro stabile nella invece generale instabile tempesta di segni che non solo l’occidente attraversa, da oltre un ventennio ormai.

 

 

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