Sulla resistenza contadina

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6 Luglio 2012 - 14.24


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di Ennio Abate

Nell”alveo della discussione apertasi sul tema del lavoro, pubblichiamo volentieri questa segnalazione pervenutaci da Piero Pagliani, membro dell”Ufficio Centrale di Alternativa. Si tratta dell”importante commento di Ennio Abate pubblicato su “Poliscritture” [1] ad un recente lavoro di Pier Paolo Poggio apparso su “Le parole e le cose” [2]. Lo stesso Pagliani ha curato per “Megachip” una breve introduzione al testo.

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Il testo di Abate si inserisce in molti filoni di discussione cari ad Alternativa: critica non regressiva alla modernità, emancipazione vs sviluppo, ecologia, lavoro, nuovi soggetti politici e sociali, democrazia.

In particolare ritengo che possa considerarsi un seguito del recente “botta e risposta” costituito dall”articolo di Massimo Fini “Il diritto al lavoro non esiste” e da quello di Paolo Bartolini “Nuovi sensi del lavoro cercasi” (ma si vedano anche quelli di Paolo Cacciari e di Ettore Macchieraldo e Alberto Gallo pubblicati negli ultimi giorni).

Il discorso di Abate si situa tra la cultura e la politica. Mai come ora cӏ bisogno di ritrovare le radici culturali della politica, dato che il tentativo di superare la sconfitta epocale del movimento comunista ha generato anche spinte confuse.

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Il ragionamento di Abate si può accettare o rifiutare, in tutto o in parte. Però ci chiede di fare dei conti culturali ben precisi, per lo meno per non essere ingenui. Molte cose che sembrano nuove sono invece vecchie. Un solo esempio, quando l”autore scrive “mi fa sentire nel suo discorso toni alla Spengler“, si riferisce ad un filone di pensiero ben definito le cui origini e sviluppi sono ad esempio descritti ampiamente in un saggio di Zeev Sternhell sul pensiero antilluminista (“Contro l”illuminismo. Dal XVIII secolo alla Guerra Fredda” (Baldini Castoldi Dalai, 2007). Ora, ognuno è libero di ragionare sui limiti oggi molto evidenti del pensiero illuminista attraverso quel tipo di critica. Però è meglio che sappia quali sono le premesse e le conseguenze. A meno che ci si accontenti di una collezione di citazioni o di aforismi.

(Piero Pagliani)

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Commento a RESISTENZA CONTADINA di P.P. Poggio

di Ennio Abate

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Conosco e stimo il lavoro di storico di Pier Paolo Poggio. E mi scuso se approfitto della pubblicazione di questo suo saggio qui su LPLC per dialogare criticamente con la sua linea interpretativa. Avevo letto, quando uscì nel 2003,il suo «La crisi ecologica: origini, rimozioni, significati» (Jaca Book) e confesso che già allora, con il rifarsi sia pur in modi intelligenti al populismo russo, a Herzen, Tolstoj e Dostoewskij mi parve avviato verso un “antimodernismo moderato” che mi spiazzava.

Diffido io pure di qualsiasi iperfuturismo, ma per criticarne gli eccessi, fosse pure insufficiente quel poco che ancora resta della cultura illuminista e marxiana, non mi pare conveniente attingere al “pozzo spiritualista” a cui egli ora pare rivolgersi abbondantemente.

Quando, nel finale di questo suo scritto, arriva a una rivalutazione incondizionata della figura di Aleksandr Solzenicyn -Vate della «grande cultura russa» – e lo si fa apparire come il buon difensore di un”epoca storica, «travolta dal bolscevismo e stalinismo», mentre in essa vigeva «la salute mentale, la saldezza del carattere», mi assalgono sconcerto e sconforto.

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Sostenere che «gli uomini travolti dalla velocità compiono azioni insensate perché non c”è tempo per capire e pensare», che «l”Occidente è attanagliato dalla paura della morte»,che «i ricchi, coloro che vivono nel lusso, nella prosperità, sono ossessionati dalla paura di invecchiare e di morire; pretendono di essere immortali e si istupidiscono per sfuggire alla verità» mi fa sentire nel suo discorso toni alla Spengler e spinte alla demonizzazione della realtà contemporanea, che bruttissima è ma demoniaca no.

Affermare poi, al contrario, che per «i contadini a contatto con la realtà del ciclo della vita, la morte è la transizione da una vita ad un”altra» e, ancora con Solzenicyn, che essi «l”hanno sempre saputo e sono morti tranquilli» mi pare un modo di angelicare una condizione di vita di per sé, tutto sommato, non peggiore né migliore di altre. (E non capisco perché “morire tranquilli” sia meglio che morire – che so – inquieti, tanto da porre questa “buona morte” come un ideale, magari più a portata di mano dei contadini, anche se essi vissero o vivono in condizione di sottomissione e di sfruttamento).

Nel 2003 mi parve che quel suo discorso, che mirava a costruire «un nuovo rapporto o alleanza con la natura [che] può avvenire solo in termini riflessivi, attingendo alla scienza, alla memoria, alla storiografia» (p. 191 di «La crisi ecologica etc.»), tacesse ormai sulla lotta di classe. Diffidai pure dell”uso della categoria di «industrialismo» che accomunava in un”unica condanna capitalismo e movimento operaio, in sostanza imputando a tutti la responsabilità nella distruzione dell”ambiente, senza distinguere tra il «saccheggio illimitato delle risorse naturali e umane» (p.195 di «La crisi ecologica etc.») fatto in una logica capitalistica di profitto e lotte di resistenza alla logica del profitto, giudicate tutte complici di quel saccheggio e non, semmai, insufficienti nella loro opposizione. Pensavo e penso che le stesse “distruzioni” staliniste non debbano essere considerate come parte integrante del movimento operaio rivoluzionario e vadano comunque giudicate dentro il contesto storico in cui si produssero. Poggio, suggerendo di “imparare” dal pensiero della Destra sul rapporto uomo-natura lasciando da parte l”incomodo Marx ,a stento distinto dai “prometeisti” del progresso, mi lasciò insomma perplesso. La sua critica allo sviluppo sostenibile, accolto da tutte le principali istituzioni del nostro tempo perché «in pratica si traduce nel passaggio dallo sfruttamento senza freni della natura ad uno sfruttamento razionale» (p.194 di «La crisi ecologica etc.» ) sembrava avviarlo verso un” “ecologia rivoluzionaria”, ma alla fine egli oscillava tra due opzioni rischiose: l”ecologia riassorbita nell”economia (capitalista) e «un ritorno dell”uomo alla natura» dopo aver posto fine alla storia (p. 199 di «La crisi ecologica etc.»). Questa seconda ipotesi mi pare ora quasi del tutto abbracciata in questo scritto. E a questo punto la mia diffidenza d”allora si fa contestazione.

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Vado per punti, seguendo il suo saggio:

1. Poggio fa ormai una critica al «Progresso» in termini assoluti. La «modernizzazione» sembra essere un passaggio da uno stadio ad un altro delle società non guidato – mi pare – dalla politica, la grande assente del suo discorso, ma da una sorta di demone “absconditus” che attraverso gli Stati trasforma e distrugge per mera passione distruttiva, sempre e solo irrazionalisticamente. Il concetto di progresso resta così indeterminato e facilmente confondibile con i miti di epoche precedenti (età dell”oro, paese della cuccagna, socialismo utopistico, ecc.). La «modernizzazione» non ha avuto in sé il buono o il cattivo, ma unicamente il peggio.

2. La sua affermazione che le varie ideologie politiche otto-novecentesche (liberalismo, socialismo, comunismo) sono state «accomunate dall”opzione per il massimo sviluppo possibile della Tecnica, motore della storia» mette insieme cose diverse e non aiuta a chiarire come sono andate le cose. Possiamo anche dimenticare o criticare il «grande racconto» di Marx (meglio sarebbe dire dei marxismi), ma non confondiamo le carte: per Marx il “motore della storia” non era affatto la Tecnica (con tanto di maiuscola che fa slittare il discorso verso Heidegger…), ma la lotta di classe. Se quel racconto si è interrotto e la lotta di classe ad un certo punto è scomparsa o non la vediamo più come prima e magari lo stesso Marx è obsoleto, cerchiamo di capire il perché prima di trincerarci nel luogo comune generico: «da qualche tempo le cose sono cambiate».

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3. Giusto ripensare la questione dell”agricoltura contadina. Però non mitizziamola oggi, come si fece ieri per la “questione operaia”. Non so cosa pensi Poggio delle tesi della decrescita divulgate da Latouche. Egli è abbastanza cauto e sembrerebbe distante da un “ritorno all”agricoltura” come semplice “ritorno alla natura” (anche se quel richiamo a Solzenicyn m”insospettisce). Indipendentemente da questo, mi chiederei se sia pensabile un”agricoltura non «governata dalla finanza e dalla tecno scienza», se la “resistenza contadina” (o i suoi reali rappresentanti), di cui qui si tessono le lodi, pensa davvero di poter fare a meno di finanza e tecno-scienza (e come), se le conviene davvero sbarazzarsi dell”analisi del capitale di Marx come fosse un ferro vecchio.

4. In particolare mi chiedo se sia stato davvero Marx (o sullo sfondo Hegel) l”unico ostacolo a una trasformazione della “resistenza contadina” alla modernizzazione e se essa da sola avrebbe potuto avere un suo “progresso”, una sua “modernizzazione” (diciamo: tutta agraria).

Mi chiedo pure se la teoria del Capitale vada messa sullo stesso piano del liberalismo. (Preciso. Parlo di Marx, non del marxismo o dei marxismi sicuramente deludenti e troppo miopi rispetto a Marx).

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Ammettiamo poi per un attimo che Marx avesse grossi pregiudizi “modernizzatori” (del tutto ingiustificati?) verso i contadini. Lo si può però accusare di volere la «scomparsa dei contadini» o farlo diventare il propugnatore della loro «eutanasia» più o meno brutale (e dunque addossargli – per parlare chiaro con un corto circuito troppo di moda oggi – le scelte di Stalin, compiute comunque in una situazione storica del tutto diversa da quella studiata e vissuta da Marx? (Mi pare di ricordare che Marx fosse stato attento ai problemi postigli da corrispondenti russi sull”obscina. E, comunque, in altro contesto, quello cinese, il “marxista” Mao mai pensò di liquidare i contadini e tentò – senza riuscirvi, è vero – uno sviluppo virtuoso e concatenato tra industria e agricoltura: un esempio che da Marx non discendono automaticamente lo sterminio dei kukaki e i gulag. (Questi sono discorsi da vecchi e vecchi discorsi, ma mi pare necessario riprenderli, perché sotto le analisi di Poggio sento la delusione storica e il dente avvelenato soprattutto verso i “comunisti”; e non mi pare un buon segno).

5.Non si capisce perché, trattando del caso italiano, Poggio tiri in ballo il Pasolini “di moda” – quello della mutazione antropologica -, anche se *en passant* dice che non fu l”«unico» a vedere i pericoli della industrializzazione “forzata” in versione italiana e capitalistica degli anni ”50-”60, e taccia di Danilo Montaldi, nome sicuramente non di moda, ma autore che quegli stessi fenomeni sentiti e interpretati da Pasolini studiò e ripropose in termini sicuramente meno mitizzati. Mi pare una lacuna non trascurabile. Né Poggio spiega perché Pasolini fu «bollato di estetismo e passatismo». Né capisco come possa arrivare oggi a semplificare la storia italiana di quegli anni cruciali e tremendi dicendo che «non si voleva letteralmente vedere cosa stava succedendo».

O come fa a sostenere che «la fuoriuscita dalla miseria [trovava] la sua celebrazione nei riti collettivi della nascente religione dei consumi, che incentiva la fuga dal Sud e dalle campagne, dal mondo contadino, simbolo di arretratezza, fatica, infelicità, stupidità». Io credo che alla modernizzazione bisogna dare quello che è della modernizzazione.

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Ci fu o no «fuoruscita dalla miseria» sia pur pagata caro di una parte degli immigrati provenienti dalle campagne? Si può parlare (ma con quali implicazioni?) di «religione dei consumi»? Pongo queste domande un po”

provocatorie, affinché al dogmatismo della sinistra italiana di allora non venga sostituito un dogma ecologista. Le scelte fatte allora saranno state sbagliate, di classe, di parte, ma non stupide. Un problema arduo e contraddittorio – quello della «modernizzazione» – solo con il senno del poi appare facile da risolvere come un cruciverba. Non era così. Tanto più che è lo stesso Poggio a dover attenuare a volte certi toni liquidatori («L”accusa ricorrente nei confronti dei contadini, non senza fondamenti, era quella di vivere rinserrati nel loro piccolo ambiente, un microcosmo locale che abbandonavano solo per necessità e non senza traumi»). E poi dov”era Poggio allora? L”operaismo non fu discorso (in buona parte ideologico, però lo vediamo adesso…) con cui tutti si sciacquarono la bocca fino agli anni Settanta? La lettura del mutamento avvenuto nell”Italia attorno al «boom economico» mi pare in questo saggio troppo semplificata. Si dice che oggi «la situazione appare letteralmente rovesciata» e non si dà uno straccio di ragione per spiegare questo rovesciamento, che un ingenuo studente potrebbe intendere dovuto solo all””industrialismo”. Si ragiona di un “nuovo scenario” senza alcun raccordo col vecchio e senza mostrare continuità e discontinuità con quello precedente. Perché il movimento operaio non esiste più? È stato sconfitto, ma chi avrebbe potuto o dovuto salvarlo dalla sconfitta? La “resistenza contadina”? E dalla sconfitta del movimento operaio quale danno è venuto alla qualità della stessa “resistenza contadina”?

7. Adesso nuovo soggetto sembrano essere i contadini e non più gli operai (si fanno gli esempi dell”Africa, America Latina, Asia), ma non è che si getta su di loro lo stesso “sguardo mitico” e innamorato che fu gettato addosso alla classe operaia? (Pare, a vecchi come me, di risentire l”eco di un certo “terzomondismo”…). Come quella aveva «un forte e concreto radicamento» nella fabbrica, questi l”hanno «nella terra, nel loro ambiente di vita». Come gli operai sembravano esprimere «altresì istanze di valore generale», così le esprimerebbero ora i contadini (o forse – direi più dubbioso – gli intellettuali votatisi all”ecologismo?). Il nuovo simbolo su cui puntare sembra trovato. (Anche se Poggio è apprezzabilmente cauto; e ricorda che bisogna andarci coi piedi di piombo e stare attenti alle differenze tra le realtà contadine delle varie parti del mondo, perché in certi paesi la questione contadina ha un”immediata incidenza sociale e politica, in altri è solo culturale).

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8. Pur individuato il “nuovo soggetto”, il discorso del “che fare” resta però fumoso. Bello (per noi vecchi) rinfrescare il concetto blochiano di «contemporaneità del non contemporaneo». Ma una cosa era pensarlo in un contesto di lotte anticolonialiste fiorenti, altra usarlo oggi. Davvero, nel 2012, dopo il crollo del comunismo nei paesi in cui si tentò di costruirlo, è solo l”ideologia che dominava nel (defunto) movimento operaio a «oscurare la rilevanza che ha oggi la questione agraria»?

Secondo me, esistono limiti politici dell”ecologismo e della politica ecologista che andrebbero ripensati criticamente. Temo che da noi, sconfitto il movimento operaio, la “resistenza contadina”non sia in grado di fare di più grazie all”ecologismo e agli ecologisti. Gli stessi dati che Poggio riporta sul degrado della Padania dicono chiaro e tondo che i contadini, non più “frenati” dal movimento operaio, hanno adottato (come molti ex- operai del resto) modelli industriali e partecipano al “peccato inquinatorio” più o meno allegramente. Diciamoci la verità: Il capitalismo – industriale ed agricolo – ha fatto fuori sia il movimento operaio sia il movimento contadino concresciuto col primo in modi che oggi vengono dipinti come sin troppo subordinati. Non capisco perciò – e qui arrivo al punto dolente che richiede più lucidità e volontà di non ricacciarsi in altri mitologemi – come da questa crisi di tutti i movimenti anticapitalistici si possa uscire puntando le proprie speranze solo sulla “resistenza contadina” in sostanza fondata – mi pare di capire -sulle cooperative dei piccoli agricoltori e allevatori.

9. Posso condividere l”idea che le strutture collettivistiche e stataliste del Novecento (in Urss o nella Cina di Mao per capirci) siano state non meno distruttive della grande azienda capitalistica. Ma sostenere, dopo la sconfitta di tutti i moti anticapitalistici, che una «nuova ruralità» debba far perno sui contadini, essere ecologicamente sostenibile e mostrare «un livello superiore di consapevolezza, dignità e libertà» mi pare un discorso vagamente utopistico e, specie qui da noi, senza un referente sociale. Nella Russia zarista le masse contadine erano reali e potenzialmente coinvolgibili in una rivoluzione e a Lenin (si ricordi questo!) riuscì di smuoverle. Qui semplicemente non ci sono quasi più. Quasi come gli operai. Come si fa allora a fare magari una “riforma” o una “rivoluzione” ecologista dell”agricoltura senza una forza sociale ad esse interessate?

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10. Se la civiltà contadina si è estinta, per quanto se ne voglia o se ne possa raccoglierne l”eredità, ci si trova al massimo di fronte a delle «buone rovine» (Fortini). Chi oggi potrebbe promuovere «un intenso lavoro culturale, la valorizzazione e rivitalizzazione di un patrimonio immateriale non folklorico ma operativo»? Chi è in grado di contrastare le «sempre più grandi, società multinazionali, in simbiosi con i governi degli Stati più potenti» e portare l”attenzione su una «nuova ruralità» capace di «intensi rapporto con le città»? Degli intellettuali rifondatori di un nuovo populismo, non “grillino” ma contadino? La spinta potrebbe venire dai movimenti locali, che, come Poggio ben sa, scivolano fin troppo facilmente «nell”isolazionismo e nell”autarchia»? O dalle esperienze frammentate del «commercio equo e solidale»? A chi, dunque, chiedere «un forte rilancio dell”agricoltura contadina»? Le analisi del sociologo olandese Jan van der Ploeg non fanno che confermare l”inesistenza o l”eliminazione del potenziale soggetto del discorso ecologista cercato da Poggio. Se è vero che la modernizzazione capitalistica ha eliminato «un gran numero di aziende, specie di piccole dimensioni». A chi, dunque, predicare l”ecologismo?Alle grandi multinazionali? (Vengono in mente i discorsi che facevano prima del 1789 gli illuministi a certi sovrani…).

11. Insomma, la «scoperta di una diffusa e multiforme resistenza contadina» mi pare – sarò drastico, ma pronto a ricredermi – non dica nulla di politicamente decisivo. Se «il modello [capitalistico] obbligato (unico, efficiente, economicamente razionale[?]) non si è affermato ovunque», non vuol dire che, dove non si è affermato, ci siano di sicuro le energie capaci di contrastare la concezione industriale dell”agricoltura. (Di resistenze ce n”erano anche sotto il fascismo o sotto lo stalinismo, ma nel primo caso poterono agire attivamente solo a Seconda guerra mondiale avanzata, nel secondo restarono tali). Quella che poi non si vede è la forza o le forze che non dovrebbero «lasciare a se stessa» tale “resistenza contadina”. Una volta, ai tempi di Gramsci e in termini leninisti, un movimento operaio reale poté porsi il problema di un”alleanza coi contadini, ma oggi? Perciò il vero salto di qualità auspicato da van der Ploeg mi pare campato in aria, un mettere il carro davanti ai buoi; o avere il carro, ma senza avere i buoi. E l”idea regolativa di fondo (l”agroecologia o agricoltura ecologica) somiglia un po” alle pensate dei socialisti utopisti. Tanto più che è lo stesso Poggio a riconoscere che «il capitalismo tende ad [appropriarsi dell”agricoltura biologica], come avviene per tutto ciò che concerne lo sviluppo sostenibile o green economy».

12. Infine, la sparata contro «i mistici del “general intellect”» mi sembra possa essere rivolta allo stesso Poggio, che si aggira nella stessa zona. Sostenere che «l”unica via d”uscita è il ritorno alla terra, l”unica possibilità di contrastare la follia è la riconciliazione con la natura, l”abbandono del sogno irrealizzabile di farne uno zimbello sottomesso alla nostra volontà» non è forse mistica della “resistenza contadina”, non dissimile da quella che imputa ai sostenitori del “general intellect”? E vedo con preoccupazione che da questa sua ottica demonizzi l””altro”da combattere riducendo gli avversari a «uomini-macchina» il cui« non-sapere assume la forma dell”idolatria della tecnica e del denaro, il che, in combinazione con la corrosione del carattere, ci espone, come genere umano, a rischi mortali».

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Non sono nichilista. Non voglio inceppare la ricerca di un”alternativa al mondo esistente, ma resto del parere che in questa lunga crisi è meglio avere gli occhi aperti che chiuderli e mettersi a sognare un soggetto “salvatore”.

Note:

[1] http://www.poliscritture.it/index.php?option=com_content&;;view=article&id=269:ennio-abate-commento-a-resistenza-contadina-di-pp-poggio&catid=4:ultime-notizie&Itemid=8

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[2] http://www.leparoleelecose.it/?p=5802#comment-37524


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