'Il disordine e l''ordine'

«In una situazione così fatta resta da chiedersi se una critica dell’ordine del discorso abbia un senso e uno spazio culturale nel mondo attuale.» [Giorgio Mascitelli]

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28 Maggio 2014 - 23.57


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di Giorgio Mascitelli

Due fenomeni opposti ma complementari sembrano, anche a uno sguardo superficiale, caratterizzare lo spazio del discorso pubblico contemporaneo: da un lato il fenomeno della produzione culturale della rete e del sistema mediatico, talvolta descritta con metafora alluvionale come massa indistinta che sommerge tutte le tradizionali procedure di controllo, anche qualitativo, del discorso a vantaggio di un indistinto che toglie significato, dall’altro la persistenza e il rafforzamento di saperi specialistici fortemente autonomizzati anche in campi che avrebbero bisogno di un controllo non specialistico, cioè politico. Comune a questi due fenomeni è il mettere in crisi la funzione intellettuale così come è stata intesa finora.

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In questo contesto rispolverare una vecchia categoria foucaultiana come quella di ordine del discorso rischia di sembrare inutile o addirittura fuorviante, tanto più che nella ricezione del pensiero di questo gigante, sulle cui spalle saremo destinati a salire ancora per molto tempo, sono altre le categorie che sembrano oggi godere di maggiore apprezzamento.

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Certo se l’ordine del discorso è quell’insieme di procedure che devono governare e delimitare la disordinata proliferazione della parola della gente, il flusso ininterrotto dei nuovi media sembra indicare la fine dell’ordine e la vittoria del disordine. Ma non è detto che sia sempre così: se prendiamo, ad esempio, la descrizione fatta da Giorgio Lunghini (si trova in Conflitto crisi incertezza, Torino 2012) della ricezione che il mondo accademico degli economisti ortodossi ha riservato negli ultimi trenta anni alle soluzioni di alcuni problemi teorici dovute a Sraffa, è chiaro che ci si trova di fronte a una tipica procedura di interdetto.

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Così si può anche ricordare la disputa che nel quadro del tentativo della riforma Berlinguer della scuola alla fine degli novanta oppose i ‘metodologi’ ai tradizionalisti: i primi, desiderosi di dimostrare che per insegnare le materie storiche l’idea di farne conoscere ai ragazzi qualche contenuto fosse un disdicevole pregiudizio passatista e bastasse insegnare la metodologia della ricerca storica, misero in campo una serie di discorsi, di giochi di regole e di delimitazioni che sono chiaramente un’applicazione di quel principio disciplinare che è tra gli elementi meno vistosi, ma decisivi di regolazione dell’ordine del discorso. Naturalmente un’obiezione potrebbe essere quella che l’ambiente universitario è sociologicamente e numericamente piccolo e circoscrivibile, perciò alcune procedure possono ancora funzionare, laddove nel mare magno della comunicazione sociale generale si perdono. Considero questa obiezione in parte fondata, ma non risolutiva.

Innanzi tutto l’autorappresentazione della comunicazione contemporanea come un flusso magmatico continuo di una impressionante mole di informazioni che annulla le specificità e il senso stesso del dibattito culturale non tiene conto che all’interno di questo stesso flusso vi sono delle ripetizioni di informazioni e di discorsi che svolgono una parziale funzione ordinatrice.

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In secondo luogo è noto che la circostanza che la quantità di informazioni disponibili esorbiti le possibilità conoscitive di una vita umana non risale certo all’invenzione di internet o della televisione: Elias Canetti per esempio descrive in Auto da fè una società e una vita individuale premediatiche, dove emerge con chiarezza questa situazione. Rischia dunque questo argomento di diventare un modo per autorizzarsi a una certa pigrizia intellettuale per giustificare la propria attenzione solo ai discorsi più ripetuti. Queste considerazioni, in ogni caso, non mirano a smentire, come detto sopra, tale rappresentazione, ma piuttosto a relativizzarla, a schiarirla perché laddove dominano i quadri a tinte forti è difficile cogliere i dettagli interessanti e anche gli spiragli.

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Forse è possibile pensare che ordine e disordine del discorso convivano assieme in una prospettiva in cui la proliferazione dei discorsi non può più essere governata in forme pianificate di controllo globale. Il quadro che emergerebbe da questa ipotesi è dunque di un discorso magmatico, continuo e potenzialmente desemantizzato che viene attraversato da alcune ripetizioni che attirano l’attenzione della gente e dall’altro la persistenza di punti di discorso specialistico, dove invece è possibile individuare le strutture gerarchiche canoniche dell’ordine del discorso.

Questa rappresentazione ha il vantaggio di essere omologa a quella della geografia sociale della globalizzazione che offre Saskia Saassen (per esempio in Fuori controllo, trad.it. Milano 1998): nel notare che lo sviluppo delle comunicazioni materiali e virtuali ha reso obsolete le città nella loro funzione economica tradizionale di centri della produzione delle merci, l’autrice nota altresì che i centri urbani svolgono ancora un ruolo essenziale di aggregazione e scambio sociale per i cosiddetti corporate service specialmente per i settori più nuovi. Analogamente, alla dispersione e segmentazione delle unità produttive nelle grandi multinazionali corrisponde un rafforzamento delle tradizionali attività direttive centrali. Ipotizzo quindi che anche la geografia del discorso contemporaneo funzioni in spazi simili, nei quali trovano la loro collocazione flusso ingovernabile e disciplina del discorso.

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In una situazione così fatta resta da chiedersi se una critica dell’ordine del discorso abbia un senso e uno spazio culturale nel mondo attuale. Rispondere a questa domanda significa porsi innanzi tutto il problema del soggetto che critica ossia dell’autore della critica: è indubbio che la posizione occupata dall’autore rispetto al discorso determina il senso della critica.

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Se l’autore è dentro o fuori un’istituzione riconosciuta, se ha molto prestigio e capitale culturale o al contrario ne ha pochissimo o per nulla, se colloca la sua voce in un’istanza collettiva di critica oppure sottolinea la sua irriducibile singolarità, tutto questo è decisivo per determinare il senso e lo spazio della critica. Sono inoltre possibili altre situazioni e posizioni, ma quello che mi sembra impossibile è che ci sia una critica dell’ordine del discorso senza che ci sia un autore. Si sa però che il concetto di autore è uno degli elementi fondanti dell’ordine del discorso, ciò comporta anche che non si può criticare l’ordine del discorso dall’esterno, ma soltanto dall’interno.

In altri termini non si può eliminare l’ordine del discorso ma soltanto chiederne uno differente, uno migliore. Migliore vuol dire o più funzionale a certe esigenze o più giusto. L’autore della critica, tuttavia, che occupa le posizioni più svantaggiate in termini di capitale culturale e sociale non può che parlare a partire dalla giustizia per essere ascoltato. Se egli si limiterà, come gli altri, a parlare a partire dalla funzionalità delle sue esigenze, scoprirà che esse sono considerate meno interessanti di quelle degli altri. Dunque dovrà fondare la sua critica sul piano della giustizia e non in maniera parziale od opportunistica, quasi fosse un pretesto per rendersi interessanti, perché se no indebolirebbe la sua stessa voce autoriale.

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Per esempio, molte delle polemiche che sono seguite all’elaborazione della nozione di orientalismo da parte di Edward Said, in particolare le accuse di aver ideologizzato la discussione scientifica sull’etnografia orientale, non ci sarebbero state se questo autore palestinese residente negli Stati Uniti avesse mosso la sua critica a partire dalla funzionalità anziché dalla giustizia, nel contempo però difficilmente avrebbe potuto modificare l’ordine di quel discorso.

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Inoltre bisogna tenere in considerazione che oggi non ci sono più istituzioni che si fondano [i]sic et simpliciter[/i] sulla verità del loro discorso. Perfino le chiese, perfino quando hanno attaccato l’evoluzionismo, non solo hanno fatto ricorso ad argomenti relativistici (è una storia che racconta, per l’Italia, Telmo Piovani in In difesa di Darwin, Milano 2005), cosa in sé non nuova, ma a una linea di critica integralmente relativistica.

Oggi ciò che ogni istituzione dice non è ciò che è vero, ma ciò che è utile o ciò che piace. Ne segue che la classica operazione preliminare di ogni critica, cioè la demistificazione, adesso si colloca su un terreno più mediato, meno immediatamente comprensibile. Inoltre in questo modo viene meno il bisogno per le varie istituzioni e per chi detiene posizioni di vantaggio di compiere un discorso di legittimazione.

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Nell’era della globalizzazione, ha scritto Peter Sloterdijk (si trova ne L’ultima sfera, trad.it. Roma 2005), “l’effettuazione sostituisce la legittimazione”, chi ha il potere di fare una cosa è di per sé legittimato a farla. Questo stato di cose ha strettamente a che fare con l’abbandono della verità come categoria di legittimazione. Ne segue che chi critica a partire dalla giustizia ha un compito ancora più impervio che nel passato e necessita di una pazienza ancora maggiore.

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Un terzo elemento da prendere in considerazione è l’emersione della categoria della novità come fatto incommensurabile e perciò come non criticabile. Non sto affermando che oggi nel discorso certe cose sono presentate come nuove e invece non lo sono o lo sono molto parzialmente, ma che al concetto di nuovo viene associata la qualità logica della diversità radicale rispetto a tutto ciò che è stato prima ed esso pertanto non abbisogna dei normali requisiti di credibilità per essere creduto. Basterà qui ricordare a titolo di esempio il modo in cui si parlava di Facebook nelle settimane precedenti il suo collocamento in borsa come se ci fosse trovati improvvisamente sul promontorio estremo dei secoli; il fatto che questa procedura fosse verosimilmente funzionale a una grossolana operazione speculativa non indebolisce, ma semmai rafforza il valore di questo esempio: si sa che le speculazioni si muovono a loro agio entro le convenzioni e le aspettative sociali.

In fondo questo statuto logico del nuovo è paragonabile alla vecchia prova ontologica anselmiana dell’esistenza di Dio: essendo Dio l’essere perfettissimo colmo di ogni qualità non può certo mancare di quella dell’esistenza; così anche il nuovo, essendo per definizione foriero di cambiamenti epocali, non può che essere immune dalle normali linee di discussione. Ponendosi come incommensurabile con il passato questa procedura evita il confronto storico, che è con la demistificazione uno dei punti di partenza fondanti di ogni discorso critico che voglia un discorso più giusto. Ancora una volta la critica si deve porre su un piano più mediato e più periferico oppure al contrario deve accettare le procedure di validazione legate alla categoria di nuovo, limitandosi a sostenere che quel particolare oggetto, fenomeno o discorso non è nuovo.

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Insomma ad ogni passo una nuova difficoltà, ma l’autore della critica si sentirà meno solo se converrà che questo suo persistere lo apparenta a quel personaggio di Calvino scambiato per demente dagli astanti su una spiaggia di notte per il suo armeggiare con la torcia elettrica nel vano tentativo di contemplare le stesso con l’ausilio di una mappa astrale o ad altri folli di lignaggio ancora maggiore.

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(22 maggio 2014)

Apparso su [url”Alfabeta2″]http://www.alfabeta2.it[/url], n.22.

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Fonte: [url”link articolo”]http://www.nazioneindiana.com/2014/05/22/il-disordine-e-lordine/[/url].

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