Gli Altri, Noi, la Pace necessaria

Intervista a Piero Coppo. [Paolo Bartolini]

Gli Altri, Noi, la Pace necessaria
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24 Febbraio 2015 - 18.37


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(cura di) Paolo Bartolini

[center]Intervista a Piero Coppo.[/center]

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Nella sua vita l’impegno politico ha implicato un’appassionata difesa dell’alterità, contro ogni tentativo di omologazione forzata degli uomini in nome di un criterio unico di lettura e di controllo del Reale. In che modo ha vissuto l’evento sconvolgente della recente strage di Parigi e le reazioni occidentali in difesa della “libertà di espressione” come antidoto al fondamentalismo religioso?

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Come un episodio di guerra, della guerra nella sua versione iper-moderna.
Fin da quando, negli anni ’90, la così detta emergenza migratoria in Italia ha imposto alle strutture e ai lavoratori della scuola e della salute un rapido aggiornamento della loro capacità di interagire con alterità umane a volte estreme, abbiamo lavorato per evitare che i conflitti divenissero atti di guerra. Luigi (Gino) Pagliarani ci aveva insegnato che le parole non sono due, pace e guerra, ma tre: pace, conflitto e guerra.

La pace è come la salute: un momento di immobile equilibrio, quasi un incanto splendido da vivere, ma che, come la bonaccia, non lascia presagire niente di buono. Il conflitto può essere duraturo ma è generativo: le diversità che si confrontano generano dinamiche, producono lavoro creativo, culture e mondi.

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La guerra invece è distruzione di mondi, di quello dell’altro ma anche del mio.

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Può accadere che non ci sia davvero altra via. Prima però di trovarsi all’angolo, senza alternative, c’è molto da fare, ci sono molte possibilità, molte vie da esplorare e praticare. Credo che la guerra in cui siamo immersi si sia infiltrata nel nostro mondo sotto mentite spoglie; ma il suo spirito cieco, stupido, grossolano e distruttore è quello di sempre.

Ciò che è successo in Francia è un atto di guerra. Agito da una parte con armi da fuoco, dall’altra anche con altri mezzi. La libertà di espressione qui non c’entra. Nelle ore e nei giorni successivi ai fatti, c’è stato in rete un fitto scambio di comunicazioni tra i variegati protagonisti dell’ambito disciplinare e lavorativo di cui faccio parte. Mediatori culturali, etnoclinici, etnopsichiatri, etnopsicologi, esperti in comunicazione interculturale italiani e non hanno condiviso ansie, analisi, pareri, sentimenti. In generale, le posizioni, pur tra loro spesso diverse, convergevano sulla scelta di recalcitrare davanti alla proposta di arruolamento sotto le bandiere del “Je suis Charlie”. Aderire voleva dire colludere col concetto di libertà che è sempre stato quello del più forte, o di chi si crede tale: ho la libertà di insultare il tuo profeta, il tuo dio, il tuo modo di vivere, i tuoi ordinamenti sociali, culturali, religiosi perché io so, io sono la verità. Posso ridere del tuo mondo, profanarlo in nome di ciò che per me è la libertà, perché non è un mondo da rispettare.

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“Liberté, égalité, fraternité”: perché mai dovrei imporre a tutti i mondi la mia versione operativa, la mia declinazione di questi tre termini, etichette di un programma nato in un particolare incrocio storico e culturale e poi tanto evidentemente disatteso e tradito proprio da chi ne ha ereditato gli slogan?

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E’ stato confortante ascoltare anche da altri parole sensate: quelle del Papa, per esempio (libertà è diritto, ma anche dovere); quelle di molti collettivi critici rispetto alla globalizzazione che impone l’omologazione al più forte; quelle di tutti coloro che non si sono assoggettati, che non hanno creduto alla narrazione di una delle parti per celebrare, approfittando dell’occasione, la rinascita della coesione repubblicana.

Non si insultano gli dei degli altri, non si attaccano gli attaccamenti fondamentali dell’altro se non nelle pratiche di tortura o negli scenari di guerra. E noi rifiutiamo le prime e non abbiamo scelto, né voluto i secondi. Nell’orrore e nel dolore dell’atto di guerra, c’è stato almeno questo: che si è determinato un “noi”. Un momento di coesione effimero, non solidificato in un’appartenenza o un’identità, ma che ha segnalato una possibilità. Noi, recalcitranti all’allineamento da una parte o dall’altra, in Italia o altrove, quelli che non si sono messi in divisa, non si sono arruolati, che hanno ragionato in proprio e si sono messi alla ricerca di un’altra posizione. E poi “noi-noi”, che per scelta e lavoro ci pensiamo come diplomatici tra alterità, che cerchiamo di trovare le vie (plurali) per un mondo fatto di molteplicità di mondi (non è solo la biodiversità a essere necessaria per la vita). Noi non siamo soli al mondo.

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Ho trovato poi interessante ciò che è avvenuto dopo l’azione armata. Le code davanti alle edicole, la manifestazione nazionale con la partecipazione di capi di Stato, alcuni dei quali da tempo attivamente coinvolti in esplicite pratiche di guerra. Alcuni arrivati per loro iniziativa, altri convocati dal Presidente francese. La foto di gruppo dei potenti, separati dalla folla da un cordone di sicurezza. Il Presidente del Senegal nella foto-ricordo della nuova alleanza contro il terrore, immediatamente rientrato nel suo paese dove è stata proibita, per legge, la diffusione, con qualsiasi mezzo, di Charlie Hebdo su tutto il territorio nazionale. Poi, fatti di cronaca.

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L’incriminazione per apologia del terrorismo di un comico di dubbio gusto e dalle opinioni più che discutibili che, dopo aver partecipato alla grande manifestazione repubblicana, ha scritto su un suo blog che si sentiva un po’ Charlie e un po’ Coulibaly. Incriminato, a proposito di libertà di espressione. In guerra non si fa; il nemico è il diavolo nella sala dell’esorcista. Non è lecito mettersi nei suoi panni; è tradimento.

Perché questo è il grande dolore, la tragedia dell’imposizione della guerra: è proibito sentire, pensare le ragioni degli uni e quelle degli altri. E poi penso ai maestri francesi che nelle scuole elementari hanno chiesto ai loro alunni di rispondere, in classe, se erano Charlie oppure no; e a ciò che, in certi casi, le cronache hanno raccontato che ne è seguito. Anche questo è un atto tipico delle situazioni di guerra.

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Infine: l’ultima copertina della rivista, post-mortem, conferma, anzi direi esemplifica perfettamente lo spirito, il tratto psicologico della guerra. O il tuo profeta, vinto e piangente, accetta di essere uno di noi che ce ne ridiamo degli attaccamenti, degli dei (nostri) e altrui, che siamo liberi di insultarli, e quindi lui pentendosi di esistere per sé si annulla per diventare una macchietta un po’ oscena; oppure non c’è “perdono”, non c’è rinuncia alla vendetta. D’altra parte, continua implicitamente il messaggio che sembra uscire dalla gola di un Occidente che non vuol vedere la sua decomposizione: guardate il nostro mondo com’è libero, sano e felice.

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Questa, appunto è guerra: tu devi essere come me, abbandonando la tua storia, rinnegando i tuoi invisibili e i tuoi attaccamenti fondamentali, la tua cultura e il tuo mondo. Ovviamente una simile posizione ne genera dall’altra parte una speculare; ed è impossibile, alla fine, sapere se è nato primo l’uovo o la gallina.

Ma siamo proprio a questo punto? O, piuttosto, chi è a questo punto, e chi sta tirando in questa direzione? Quali dinamiche conducono questo gioco? Quale è la storia di questa guerra? Quando e perché è cominciata? Noi siamo nelle retrovie: chi c’è nelle sale di comando, o al fronte, e perché, con quali intenzioni? E poi: gli altri, i non arruolati, i non allineati, i non sostenitori, i non interessati allo scontro, hanno la forza di riconoscersi, di costruire collettività, di farsi “popolo”, di sentire o aprire altri possibili divenire? Si può saltare fuori da questa dinamica, si può, e come, resistere?

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In un suo libro recente,[i] Le ragioni degli altri[/i] (Raffaello Cortina, 2013), ha parlato della necessità di un approccio metaculturale che, senza la pretesa di definire un vertice astratto dal quale giudicare le differenti culture umane, getti dall’alto uno sguardo capace di abbracciare e far coesistere visioni del mondo anche molto diverse tra loro. Può spiegare meglio questo programma, soprattutto alla luce degli attuali conflitti geopolitici e delle rigide contrapposizioni promosse dai mass media?

Sono un medico, psichiatra, psicoterapeuta. Mi sono trovato a lavorare in altri paesi, in contesti molto diversi, tra persone immerse in mondi e vite per me totalmente altri. Ho dovuto cercare degli strumenti e una posizione che mi permettessero di fare il mio lavoro in quelle condizioni. Mi hanno aiutato gli altri che, anche a partire da discipline diverse, si erano trovati o si trovavano nelle stesse condizioni. Ho studiato i loro libri, li ho incontrati quando possibile, ho osservato come lavoravano. Con altri ho trovato un passaggio stretto che consente di esserci anche quando l’incontro non è famigliare, quando non ci sono basi culturali comuni sulle quali poggiare un minimo d’intesa. Perché dietro gli usi e costumi, dietro le diverse lingue, gli dei, gli invisibili, le forme, i colori e gli odori può esserci la stessa tensione all’incontro. C’è da trovare il modo; e poi negoziare comuni regole del gioco.

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Per farlo, occorre prima di tutto sospendere il pre-giudizio. Non si tratta di relativismo culturale, ma di un passaggio, una premessa. Il giudizio e le decisioni conseguenti verranno dopo. Si può comprendere il mondo dell’altro solo in relazione, attraverso un dialogo radicale che preveda delle esposizioni simmetriche. Alla fine, i due interlocutori possono uscirne modificati. Da lì può scaturire la presa di decisione: a partire da un giudizio che è cosciente di essere storicamente, culturalmente determinato, che paga il suo tributo ai rapporti di forza presenti e che non è il giudizio di Dio. Questo vale nella pratica etnopsichiatrica, ma anche fuori da quel contesto specialistico. Vale nell’incontro tra umani o in quello tra le loro opere. Non è tanto un programma, quanto un’intenzione conoscitiva che apre a possibilità operative.

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Cosa significa oggi, al di fuori dei ristretti ambienti intellettuali, portare avanti una critica radicale del sistema delle merci e dell’accumulazione economica?

Liberarsi, nella misura del possibile, dall’assoggettamento all’incantesimo del Capitale. Philippe Pignarre e Isabelle Stengers hanno scritto un libro “La stregoneria del Capitale”. Vi siamo completamente immersi, è una stregoneria che sta assoggettando il mondo intero ma che nelle aree dell’iper-modernità non lascia respiro, spazi vuoti, orizzonti. Gli psicopatologi, i sociologi, gli antropologi hanno un bel scrivere libri sulla anomia, sulla società liquida, sulla crisi del desiderio, sui problemi degli umani che nascono e crescono in questi ambienti artefatti, non a guida umana. Proprio perché non è un ambiente a guida umana, non è cioè frutto di una decisione delle collettività coinvolte, i loro discorsi possono servire solo come strumenti per chi intenda ritirare la delega a questo mondo. E’ mettere sul piatto idee, prospettive, aperture; più o meno utili, pertinenti o svianti. Ma poi tocca a ciascuno trovare il modo, a partire dalla sua particolare situazione, di recalcitrare, sottrarsi, salvaguardare e nutrire le proprie eccedenze, progettare e costruire le condizioni di possibilità di altri, diversi divenire. Tuttavia, e questo è fondamentale, non da soli; costruendo cultura condivisa.

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Di questo c’è nel passaggio attuale assoluto bisogno: di “luoghi comuni” dove le persone possano discutere le condizioni della loro esistenza, giudicarle e farle evolvere, perché siano migliori. Tra le condizioni della proprio esistenza, ci sono anche, ovviamente, gli oggetti che abitano il mondo. Oggetti materiali o immateriali che vengono immessi, creati, proposti, che, per tornare a Latour, “ci fanno fare”. Alcuni utili, altri tossici. Torna qui, e con un altro senso, la domanda: c’è un limite alla libertà? Occorre ascoltare il proverbio africano che dice: “non è nel giardino dello stregone che i bambini devono andare a giocare”? A chi serve, a chi fa gioco la soppressione dell’esperienza del limite? Come pratica individuale, basterebbe pensare che più che il voto elettorale contano in politica i tanti gesti quotidiani: soprattutto quelli che comportano un passaggio di denaro. Cosa si sostiene e cosa no.

Aprire il portafoglio, che è già un’intenzione di consumo, è come entrare in una cabina elettorale: si sostiene qualcosa o qualcos’altro. E poi il denaro è ancora un condensato di fatica umana, di lavoro, erogato o risparmiato, anche quando si autoproduce nei circuiti del capitalismo finanziario. Il denaro distribuito meglio libererebbe molti dall’obbligo della fatica, del lavoro subito come necessità invece che come attività, anche produttiva, scelta.

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Bruno Latour, da lei appena citato, ha suggerito che l’Occidente debba finalmente fare le sue offerte di pace agli Altri, portando il meglio della propria storia e rinunciando alla follia di un universalismo culturale impossibile (criticato, tra gli altri, anche da Raimon Panikkar). A suo avviso in cosa consiste il meglio della nostra storia? Cosa è bene che l’Occidente offra di sé in un negoziato per la pace?

Il meglio di sé, della sua storia… Per riferirsi solo agli ultimi secoli: la costituzione e l’esplorazione del soggetto, le scienze dell’altro culturale e psicopatologico, la nostra medicina, la tecnologia, le scienze, l’organizzazione, le imprese, la laboriosità… Tutte scoperte, e conquiste, che sono costate lavoro, fatica, vita di molti; e che hanno però poi perso di vista il loro senso primo, la costruzione di migliori possibilità per tutte le forme di vita.

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E poi le riflessioni seguite alla crisi dell’Occidente, alla revisione critica dei concetti di progresso, di sviluppo, di illimitato evolversi di una tecnologia che ha ora come fine sé stessa. E ancora, o soprattutto, le utopie, la loro generosità e i loro limiti. Infine, la proposta recente, di cui Bruno Latour è un messaggero, quella di un pantheon di dei, di invisibili, un parlamento dove possano coesistere e vengano riconosciuti nella loro dignità, valore e utilità gli attaccamenti fondamentali dei singoli gruppi, le diverse forme di vita; e quindi l’importanza della funzione diplomatica dei mediatori tra mondi, gli “uomini-ponte”, previsti in altre cosmologie (come i Chaca runa per i Quechua) e che ora devono riconoscersi tra loro e interporsi nelle guerre tra umani, tra umani e i loro ambienti, tra umani e i loro eccessi, tra la ragione e le sue deviazioni.

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Come medico ed etnopsichiatra lei frequenta da anni modelli assai diversi di “presa in cura” della sofferenza umana. In Occidente sono sempre di più le persone che si rivolgono a terapie “alternative”, non trovando sempre nella scienza ufficiale delle risposte adeguate al proprio disagio. Come considera, in quest’ottica, il moltiplicarsi di dispositivi di cura derivati da altre culture e trapiantati sul nostro terreno in assenza di una corrispettiva visione del mondo?

Come sempre e in ogni cosa, è un’opportunità e insieme un pericolo. Il principale vantaggio è aprire ad altre possibilità la ricerca di cura. I sistemi importati, o quelli neo-fondati, portano con loro conoscenze, strumenti che possono rivelarsi efficaci. E soprattutto portano altre visioni del mondo, e degli umani nel mondo. Rendono così più complesso il quadro, sottraendo potere e clienti alla medicina ipertecnologica che, per una specie di superfetazione incontrollata legata all’egemonia della tecnica, rischia di disumanizzare la medicina della nostra tradizione, presa tra regole burocratico-amministrative e dominio degli apparecchi. La concorrenza con altri obbliga i migliori a porsi delle domande, a cercare di essere terapeuti e/o pazienti più documentati, più attenti, meno sicuri di essere i rappresentanti di una verità sulla sofferenza e la salute. Noi ce ne accorgiamo dall’interesse dei giovani, ma non solo, verso le discipline, che sono insieme teoria e tecniche, che insegniamo: etnopsichiatria, etnopsicologia, etnopsicoterapia. Discipline che, fin dall’inizio, stanno nella complessità e ne fanno una ricchezza pur senza rinunciare alla possibilità di un giudizio che però, appunto, non è pre-giudizio.

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D’altra parte il rischio è la contaminazione, la globalizzazione dell’aspetto peggiore, della sete di potere dei terapeuti. Come sostengono da sempre i migliori guaritori tradizionali africani, la questione è in fondo etica. Il terapeuta ha potere, se lo è conquistato nella traiettoria della sua formazione che può essere stata, e continuare a essere, difficile e dura. Ma deve scegliere: usarlo per fare del bene o usarlo per fare del male. E i guaritori africani, quando parlano dell’aspetto nero della terapeutica, si riferiscono alla stregoneria, che è lavoro per il proprio potere, a scapito della vita altrui. E questo ci riporta al titolo del libro di Pignarre e Stengers: Stregoneria e capitalismo.

(23 febbraio 2015)

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Piero Coppo (1940) è medico, neuropsichiatra e psicoterapeuta; lavora in etnopsichiatria ed è facilitatore di Respirazione Olotropica. Dirige la Scuola di specializzazione in psicoterapia a indirizzo psicodinamico e orientamento etnopsicoterapeutico ([url”www.centrosagara.it”]www.centrosagara.it[/url]). Fa parte inoltre dell’Organizzazione Interdisciplinare Sviluppo e Salute ([url”www.oriss.org”]www.oriss.org[/url]). Tra le sue numerose opere ricordiamo “Guaritori di follia. Storie dall’altipiano dogon”(1994), “Passaggi. Elementi di critica dell’antropologia occidentale”(1998), “Tra psiche e culture. Elementi di etnopsichiatria” (2003), “Negoziare con il male. Stregoneria e controstregoneria dogon” (2007), “Il disagio dell’inciviltà. Forme contemporanee del dominio” (con S. Consigliere e S. Paravagna, 2008) “Le ragioni degli altri. Etnopsichiatria, etnopsicoterapie” (2013).

Foto: Lucio Fontana, Concetto spaziale, 1962,

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