Perché c'è bisogno di un populismo di sinistra

Questo populismo a venire ci dice che esistono proposte politiche che vanno davvero in controtendenza rispetto all’austerità. [Christian Raimo]

Perché c'è bisogno di un populismo di sinistra
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11 Ottobre 2015 - 13.57


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di Christian Raimo

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L”articolo è stato pubblicato su [url”Internazionale”]http://www.internazionale.it/[/url], l”8 ottobre 2015. Ringraziamo Christian Raimo per averci concesso di riprenderlo qui. Buona lettura. (pfdi)

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Due mesi fa, quest’estate, ho assistito a Londra a una giornata della campagna elettorale di Jeremy

Corbyn alla Union Chapel. Tra le molte cose (belle) che mi hanno sorpreso ne ho appuntate

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mentalmente un paio.

La prima è che [url”l’intervento finale di Jeremy Corbyn”]https://www.youtube.com/watch?v=topkxxwdx5s[/url] durava da programma venti minuti, e venti

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minuti è durato. Tanto carismatico quanto sintetico, tanto chiaro quanto radicale.

Pantaloni larghi con le pinces, senza cravatta, aria da middle class novecentesca, ha parlato di

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rinazionalizzare le ferrovie, di abbassare le tasse universitarie, di rendere di nuovo pubblico ed

efficiente il servizio sanitario nazionale, di sostenere un’alternativa economica chiara. Ha detto:

“Non è possibile che la classe politica britannica abbia studiato tutta a Oxford o a Cambridge”,

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“dobbiamo avere una risposta umana e umanitaria alla questione delle migrazioni”, e ha concluso i

suoi venti minuti con una frase di grande efficacia: “Immagino un mondo in cui tutte le persone si

prendono cura delle altre, e questo mondo si chiama socialismo”.

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Ma il suo intervento, convincente, perfetto, da leader che avrebbe effettivamente stravinto le

primarie del Partito laburista, non è stato nemmeno il migliore della giornata.

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Ad aprire infatti era stato un giovane attivista, opinionista del Guardian, che si chiama Owen

Jones. I venti minuti di Owen Jones sono stati il miglior discorso di sinistra che ho sentito negli

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ultimi anni.

Non solo per le qualità di oratore, non solo perché ha criticato in modo analitico quasi vent’anni

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di politiche segnate dai governi di Tony Blair e dai suoi eredi, ma soprattutto perché ne ha

smontato il nucleo ideale, e ha voluto porre il problema fondamentale per chi cerca di esserne

un’alternativa, che non è quello di riconquistare la sinistra, ma di riconquistare la società: “Non

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possiamo lasciare soli quelli che hanno votato Ukip”, “C’è bisogno di una cultura femminista”,

“Occorre recuperare la tradizione socialista del novecento”.

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L’odio di classe ha cambiato obiettivo

Owen Jones ha scritto un fortunato libro quattro anni fa (a 27 anni) intitolato [i][url”Chavs, the demonization of working class”]http://www.versobooks.com/books/1100-chavs[/url][/i], in cui mostrava come l’odio di classe oggi non sia più diretto

contro i padroni, gli sfruttatori, i ricchi, ma contro gli sfruttati, contro la classe operaia, che

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è temuta o presa in giro, sbeffeggiata per la sua progressiva marginalità sociale, per le sue

maniere cafone, per la sua debolezza politica, per la sua pochezza teorica.

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Il politicamente corretto che impedisce a chiunque sia di sinistra di dichiararsi razzista,

sessista, omofobo, consente però di potersela prendere con i chavs, un termine spregiativo che

forse in Italia potrebbe essere tradotto con un regionalismo: “coatto”, ossia una categoria

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estetica liquidatoria che in fondo tiene insieme precari, disoccupati, operai, semplici poveri.

La crisi delle ideologie si è portata dietro i partiti, i sindacati, ma anche lo stesso impianto

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dei diritti sociali.

L’analisi di Owen Jones è ovviamente calibrata su una società come quella britannica classista e

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ossessionata dal successo individuale, ma se si vuole leggere Chavs da una prospettiva più lontana

se ne ricava comunque una capacità di sguardo che è utile per decifrare quello che avviene in

Italia.

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La mentalità che racconta Jones corrisponde a quello che si può definire un populismo destrorso,

camuffato anche nei luoghi della sinistra.

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Ecco il punto. Se c’è una cosa che hanno mostrato la politica italiana ed europea negli ultimi

trent’anni, è che ovunque si è affermato un populismo di destra. Antidemocratico, nazionalista,

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reazionario, sostanzialmente xenofobo, ma non solo: multiforme, mimetico, interclassista,

trasversale. La crisi delle ideologie del novecento si è portata dietro i partiti, i sindacati, ma

anche lo stesso impianto dei diritti sociali.

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Non è un caso se solo nei mesi recenti sono usciti due libri come quello di Marco Tarchi, [i][url”Italia populista”]https://www.mulino.it/isbn/9788815253569[/url][/i] (Il Mulino), o quello di Nicola Tranfaglia, [i][url”Populismo”]http://www.ibs.it/code/9788868263379/tranfaglia-nicola/populismo-carattere-originale.html[/url][/i] (Castelvecchi), che provano

entrambi a ricostruire – Tarchi con maggiore acume, Tranfaglia con più impressionismo – la mappa e

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la storia di questo concetto sfuggente: ideologia? Mentalità politica? Piattaforma di valori?

Tarchi tenta di dar conto del dibattito sulla definizione di populismo e arriva anche a proporne

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una propria sintesi:

«La mentalità che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze

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ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e

l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche,

economiche, sociali e culturali e ne rivendica il primato, come fonte di legittimazione del potere,

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al di sopra di ogni forma di rappresentanza e mediazione.»

Ma il pregio del suo libro non è tanto teorico, ma piuttosto storico e descrittivo; quando racconta

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la storia d’Europa e d’Italia dal dopoguerra in poi sotto la lente del populismo.

Dal poujadismo all’euroscetticismo, dall’Uomo qualunque al Movimento 5 stelle, questa ricostruzione

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permette di capire che il populismo europeo e quello italiano sono stati essenzialmente di destra:

una spinta spesso scomposta, latente o emersa, che nel nostro paese per esempio si è incarnata di

volta in volta nell’esperienza di Giannini, in quella plebiscitaria di Achille Lauro, nel

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neofascismo, nel giustizialismo successivo a Tangentopoli, in Giancarlo Cito, nella Lega nord, in

Silvio Berlusconi, in Beppe Grillo.

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Sembra una storia, quella italiana, che riproduce con caratteri quasi parodistici una tradizione

che ha almeno un paio di secoli. Quando Nicolao Merker in [i][url”Filosofie del populismo”]http://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788842089186[/url][/i] (2009)

rintracciava la matrice filosofica delle manifestazioni politiche del populismo, partiva dalla

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rivoluzione francese e mostrava come la degenerazione delle lotte di emancipazione abbia sempre

luogo quando si finisce per mitizzare il popolo attribuendogli essenzialmente caratteristiche

tribali.

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Ma Merker compiva esplicitamente, nella sua analisi, un arbitrio scivoloso e dannoso: escludeva

tutto quello che potremmo definire populismo di sinistra. Quello per esempio antitirannico,

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anarchico, anarcosindacalista, spontaneista, comunardo dell’ottocento; o quello trozkista,

operaista, terzomondista, maoista del novecento. Di fatto Merker sembra non ritenere Antonio

Gramsci un teorico del populismo, lasciandogli un paio di citazioni marginali in tutto il

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libro.

Gramsci invece è fondamentale. È fondamentale per Ernesto Laclau, che nel 2005 ha scritto un libro

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chiave: [i][url”La ragione populista”]http://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788842085461[/url][/i]. Ed è fondamentale per noi, che proviamo a dirci ancora di sinistra.

Attraverso Gramsci, Laclau riesce a compiere un importantissimo rovesciamento di prospettiva: il

populismo fino a oggi non è solo stato degradato, è stato proprio denigrato, è stato condannato

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moralmente. Questo ha significato essenzialmente screditare le masse, considerando – da Gustave Le

Bon in poi – patologica in sé la psicologia della folla: irrazionale, antisociale, malata.

L’intelligenza del singolo nella massa sparisce, se già i romani affermavano: “I senatori sono

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uomini perbene, ma il senato è una cattiva bestia”.

I populismi di Renzi, Grillo e Salvini sono gli unici blocchi identitari rimasti a confrontarsi

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nell’arena politica.

E se invece fosse possibile un’intelligenza del popolo? E se fosse possibile costruire un “popolo”

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che non annichilisca le domande individuali ma le trasfiguri? Come avviene questo processo? Non si

può prescindere dalle analisi di Laclau per provare a creare oggi in Italia qualcosa di vagamente

durevole a sinistra. Cerchiamo di capire perché semplificando un pensiero denso come quello del

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filosofo argentino morto un paio di anni fa.

Al contrario di molti altri teorici del populismo, che definiscono il populismo come ideologia,

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mentalità, fenomeno eccetera, Laclau lo descrive più o meno come un dispositivo, o un meccanismo,

che compie due azioni: rende equivalenti posizioni politiche che non lo sono, e crea una polarità,

una divisione che prima non esisteva.

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Fidiamoci di Laclau e facciamo un paio di esempi di quello che è accaduto in Italia negli ultimi

cinque anni. È ormai innegabile che si sono affermati vari populismi: quello di Renzi, quello di

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Grillo e quello di Salvini, e che oggi questi sono gli unici blocchi identitari a confrontarsi

nell’arena politica.

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Tutti e tre hanno sfruttato il sistema illustrato da Laclau: hanno reso equivalenti delle

differenze e hanno creato una polarizzazione che prima non esisteva.

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La rottamazione di Renzi è riuscita a unire, per dire, socialisti e liberali, difensori di idee

keynesiani con iperliberisti, cattolici e laici, attraverso una separazione del panorama politico

tra vecchio (da rottamare) e nuovo (da incarnare).

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L’operazione parallela di Grillo, da par suo, ha confuso e riunito classi sociali parecchio

differenti, blocchi politici con aspirazioni e idee anche opposte (vedi per esempio

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sull’immigrazione), attraverso una divaricazione tra corrotti (da maledire) e onesti (il popolo del

Movimento 5 stelle); quanto è stata essenziale la lettura sociale di Rizzo e Stella e del loro

libro [b][url”La casta”]http://www.bur.eu/libri/la-casta-2/?refresh_ce-cp[/url][/b] per rendere credibile questa visione pentastellata?

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Il populismo di Salvini è più facilmente leggibile: si basa su una divisione noi/loro =

italiani/invasori che però riesce a tenere dentro “noi” anche un ceto medio impoverito, i depressi

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sociali, e molti di coloro che fino a qualche anno fa non avrebbero mai pensato di identificarsi

nelle idee leghiste.

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Come sono state possibili la nascita e lo sviluppo così rapido di queste tre ideologie

postpolitiche: renzismo, grillismo, il robusto leghismo salviniano?

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La crisi economica del 2008, oltre a spazzare via i cascami di quei fantasmi che hanno infestato

per vent’anni la scena politica italiana – berlusconismo e antiberlusconismo – ha innescato una

serie di richieste democratiche dal basso: più rappresentanza, più uguaglianza di reddito, più

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formazione, più accesso alle risorse, più diritti civili.

Queste domande democratiche sono spesso rimaste isolate (vedi, per esempio, quanto poco si sia

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riuscito a capitalizzare la battaglia del referendum sull’acqua) e sono stati scaltri Renzi, Grillo

e Salvini a capire che dietro le richieste democratiche c’è sempre anche una ricerca di comunità, e

a trasformarle quindi in “domande popolari equivalenziali”: ossia a sfumare le differenze tra le

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posizioni, e a creare questi “popoli”, della Leopolda, della rete, di Pontida, attraverso slogan in

apparenza banalissimi e vuoti – rottamazione, vaffa, ruspa.

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Questo populismo a venire ci dice che esistono proposte politiche che vanno davvero in

controtendenza rispetto all’austerità.

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Ma, sottolinea Laclau, questa capacità politica non è altro che aver dato “pienezza a una comunità

che viene a mancare”. Il nome del popolo sarà proprio il tentativo di dare un nome a questa

pienezza assente.

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Ecco che coloro che contestano a Renzi, a Grillo e a Casaleggio, o a Salvini, una vuotezza ideale,

un trasformismo, una vaghezza dei programmi, non comprendono che è proprio questa la leva

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principale della loro forza politica, ne è anzi l’essenza.

Se ci convinciamo di questa lettura – e possiamo farlo vagliandola anche con quello che sta

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avvenendo in Europa, all’esperienza di Syriza, di Podemos, del nuovo Labour corbyniano (non è un

caso che Gramsci e Laclau abbiano fatto capolino tra le letture di riferimento dei nuovi leader di

sinistra); se ci convinciamo di questa lettura – che resiste secondo me anche alle [b][url”ottime critiche di Toni Negri”]http://www.euronomade.info/?p=4956[/url][/b] secondo cui Laclau naufraga in un pensiero postideologico che non comprende la

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struttura della società ma solo la superficie – potremmo allora da una parte rivendicare un

populismo di sinistra che ha una sua lunga e autorevole storia, e dall’altra immaginare una lettura

efficace della società che riesca a creare un “popolo” di sinistra forte come è accaduto in Grecia,

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in Spagna, nel Regno Unito.

Un populismo di sinistra credibile

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Un bell’[url”articolo”]http://temi.repubblica.it/micromega-online/ben-venga-il-populismo-di-sinistra/[/url] di Marco D’Eramo tre anni fa ricordava che prima che il populismo da Reagan in poi

fosse egemonizzato dalle destre, abbiamo avuto una lunga storia novecentesca di lotte per i

diritti, per i salari, per l’uguaglianza, “contro i monarchici dell’economia”, “contro i poteri che

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ci hanno infilato una camicia di forza”.

Il socialismo – l’hanno ben capito Alexis Tsipras, Pablo Iglesias e Jeremy Corbyn – può consegnarci

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lo strumento con il quale tracciare quella divaricazione essenziale per la nascita di un populismo

di sinistra credibile.

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Chi c’è da una parte e chi c’è dall’altra?

Da una parte ci sono i precari, il ceto medio impoverito ma anche i migranti che chiedono diritti,

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e i cittadini di un meridione socialmente depresso, e ci sono quegli studenti che non vogliono

alimentare un’emigrazione che non è più fuga solo di cervelli ma di manodopera a basso costo,

quelli che non hanno case di proprietà e che non possono e non potranno accedere a un mutuo, i

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pignorati, quelli che occupano spazi, i cosiddetti neet (coloro che non studiano e non lavorano),

gli arresi, gli evasori fiscali per necessità, una massa diffusa e interclassista, di neopoveri, di

quasi poveri, che provengono da contesti sociali e famigliari, e persino nazionali differenti, ma

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che reclamano sostanzialmente reddito e accesso alle risorse, un welfare degno di questo nome.

Dall’altra parte ci sono coloro che non vogliono condividere risorse, che dispongono di un welfare

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privato e ristretto, che cercano di garantirsi una condizione sociale di privilegio. Impoveriti

contro arricchiti. Chavs contro posh. Coatti contro fighetti.

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Questo populismo a venire ci dice che non stiamo tutti sulla stessa barca. Che occorrono ed

esistono delle proposte politiche a livello europeo che vanno davvero in controtendenza rispetto

all’austerità – da far propria è per esempio quella di Marco Bertorello e Christian Marazzi di un

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[url”“quantitative easing” sociale”]http://ilmanifesto.info/un-quantitative-easing-per-il-popolo/[/url]: i soldi nelle tasche delle persone e non nelle banche, come ci ha

tenuto a specificare Marazzi in un recente dibattito a Roma.

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Ma questo populismo ci può far immaginare anche la fine della frammentazione all’interno della

sinistra radicale italiana, delle sue tante formazioni, partiti e associazioni, e può coinvolgere i

milioni che non militano più oppure non votano, e spingerli a ritrovare finalmente il senso di una

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comunità politica in cui riconoscersi.

(8 ottobre 2015)

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[url”Link articolo”]http://www.internazionale.it/opinione/christian-raimo/2015/10/08/populismo-sinistra[/url]

Infografica: Jeremy Corbyn a Manchester (UK), il 5 ottobre 2015. (© Suzanne

Plunkett, Reuters/Contrasto).

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