Buried, ovvero la solitudine nella comunicazione

E l’uomo sta solo al centro del mondo, trafitto da uno spot conclusivo, ed è subito morte! [Sandro Vero]

Buried, ovvero la solitudine nella comunicazione
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15 Settembre 2016 - 04.34


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di Sandro Vero

C’è un meraviglioso piccolo film, del regista spagnolo Rodrigo Cortès, che condensa nei suoi 85 minuti scarsi una buona parte di tutto ciò che si può dire del capitalismo, come orizzonte esistenziale e come sistema di assegnazione dei ruoli e delle posizioni nello scacchiere sociale.

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Il film è “Buried” e risale al 2010, dunque a un momento che sta già tutto dentro alla crisi, alla sua litania dell’insostituibilità del sistema che l’ha prodotta, della inevitabile necessità di trovare al suo interno la soluzione per superarla: come a dire un vorticoso viluppo di piani e metapiani che rimanda solo alla figura (ancora una volta) del cerchio.

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La scommessa del regista-sceneggiatore è quella di sfidare la saturabilità dello spettatore dinnanzi ad una vicenda che si svolge, in una perfetta unità di tempo e di luogo, dentro una bara! Il protagonista, unico personaggio fisicamente visibile – un grandioso Ryan Reynolds – si sveglia in quello spazio infimo, presumibilmente sepolto in un punto imprecisato del deserto iracheno, trovandosi provvisto solo di uno zippo, di un cellulare, di un coltellino, di una matita e di una torcia mal funzionante.

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Apprendiamo subito, dalle prime sequenze, che si tratta di un autotrasportatore americano, di stanza in Iraq, il cui convoglio ha subìto un attacco da parte di “terroristi”. Molti dei compagni sono stati uccisi, lui è stato risparmiato ma sepolto vivo.

Abbastanza presto sappiamo che non si tratta di terroristi, bensì di “criminali” (così vengono presentati), banditi in cerca di riscatto. Prova ne è che dopo qualche minuto dal risveglio il protagonista viene raggiunto dalla chiamata di un uomo, dal marcato accento arabo, che gli intima di contattare la sua ambasciata, il governo, l’FBI per chiedere un riscatto cospicuo come unica condizione della sua liberazione.

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Il protagonista comincia un’affannosa ricerca di tutti i contatti possibili, privati e pubblici, ufficio dell’FBI, agenzie governative, moglie, figlioletta, suocera. Niente! Nessuno sembra soddisfare le sue richieste. L’unica voce amica sembra essere quella del responsabile militare della task force incaricata di scovarlo e metterlo in salvo.

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I frenetici, tesissimi 85 minuti del film scorrono fra momenti intrisi di puro thrilling (un serpente esce dai suoi pantaloni), cadute improvvise nel surreale di dialoghi robotici con segretarie che insistono a chiedergli dettagli risibili, squarci di vita emozionale nei tentativi di contatto coi familiari.

La condizione di solitudine, immediatamente rappresentata dalla bara in cui si risveglia, si amplia progressivamente inglobando il suo mondo di relazioni, evidenziando la sua incapacità di avere da chiunque un riconoscimento del suo status che corrisponda almeno in parte alla realtà patita.

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Lo spettatore è subito in grado di sapere, con certezza assoluta, che nessuno pagherà il riscatto (peraltro incredibilmente alto). Si insinua gradualmente il sospetto che la richiesta di denaro possa essere in realtà un finto movente del rapimento o, quanto meno, una sorta di elemento di copertura utile al disvelamento delle vere ragioni dei terroristi/banditi.

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Il momento topico, tuttavia, arriva quando il protagonista è raggiunto dalla chiamata di un funzionario della sua azienda. La conversazione che si svolge è esemplare e si articola in due fasi: una prima, nella quale le domande del funzionario sembrano dettate da un reale interesse verso il dipendente caduto in disgrazia, la sua condizione, la sua salute; una seconda, nella quale – previa registrazione del dialogo – le domande si fanno sempre più formali, burocratiche e sempre più insistono nella direzione del problema delle responsabilità legali, assicurative dell’azienda.

L’esito è tragico ed esilarante insieme: essendosi accertata una relazione fra il dipendente e una collega, già barbaramente uccisa dai terroristi, vigendo una norma aziendale che vieta ai dipendenti di intrattenere rapporti intimi fra di loro, tale norma essendo stata violata in un tempo pregresso all’attacco subito e al conseguente rapimento, il protagonista deve ritenersi licenziato. Retroattivamente licenziato. Dunque niente gli è dovuto dall’azienda, che pure lo ha inviato in Iraq.

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Un capolavoro di finezza argomentativa.

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Questa telefonata imprime una svolta significativa all’intera narrazione, presentandosi come un vero e proprio shift strutturale.

L’analisi del testo filmico, pur nei limiti di ciò che scriviamo, ci presta soccorso: nei termini della semiotica greimasiana, quello che inizialmente appare come il Destinante (il terrorista al telefono), che assegna al Soggetto-vittima l’incarico di svolgere un compito, sia pure nella forma di un ricatto, al fine di raggiungere la salvezza (oggetto valorizzato), proponendosi anche come Aiutante (tutti gli oggetti disponibili nella bara sono stati predisposti dall’iracheno) insieme ad altri aiutanti (la funzionaria dell’FBI, il militare che è stato incaricato di salvarlo, ecc.), improvvisamente può proporsi – in una repentina inversione di posizioni attanziali – come Soggetto, investito da un Destinatario che rimane sullo sfondo (il Corano?, un ayatollah?), che usa, attraverso i mezzi che gli residuano dall’asimmetria della guerra che combatte, un Anti-soggetto (il protagonista) che gli si oppone con i mezzi che gli derivano dalla forza del contesto da cui proviene. In fondo, anche gli strumenti utilizzati per comunicare, vale a dire per procacciare il riscatto, vale a dire per raggiungere l’oggetto-valore assegnato (la liberazione, ma dietro di essa l’estorsione/risarcimento degli iracheni ai danni dell’invasore americano), anche quegli strumenti sono il frutto della tecnologia, della cultura, della storia occidentale.

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La stratificazione dei piani narrativi e la possibilità di virare subitaneamente da una struttura ad un’altra delle articolazioni sintattiche, non offuscano comunque un livello semantico (che si pone come livello metaforico, dunque retorico) chiaro ed esplicativo: la solitudine dell’individuo, costruito come tale dall’incessante richiesta di ritiro, prodotto dalla inesorabile strategia di atomizzazione del sociale, immerso in una condizione di isolamento dalla quale può però comunicare (con i gadget della connessione infinita, in fondo l’intero film è una ricapitolazione del carattere ininterrotto della comunicazione) a terminali sordi, inefficaci del potere, e che viene raggiunto – nel momento di massima vulnerabilità e di bisogno – dall’unica voce realmente interessata a lui: ma solo e soltanto nella forma dell’interesse, che esclude qualunque afflato di umanità, di solidarietà, di responsabilità. L’interesse a espropriarlo di ogni residuo diritto.

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“E l’uomo sta solo al centro del mondo, trafitto da uno spot conclusivo, ed è subito morte!” potrebbe essere una gustosa parafrasi quasimodiana della condizione del suddito / lavoratore / consumatore nell’universo del capitale.

(15 settembre 2016)

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Infografica: © Buried – Sepolto (Buried) è un film del 2010 diretto da Rodrigo Cortés.

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