Facebook e l'abiezione 2.0

Non ragioniamo sulle intenzioni dei singoli, ma lavoriamo sui meccanismi tecnologici che guidano le loro azioni sociali. [Manolo Farci]

Facebook e l'abiezione 2.0
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1 Febbraio 2017 - 20.07


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di Manolo Farci

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Se vi è capitato nelle scorse settimane di scorrere le vostre bacheche su Facebook, tra una notizia sul discorso Donald Trump e le immagini drammatiche del recente terremoto nel centro Italia, vi sarete sicuramente imbattuti in screenshot di commenti volgari e osceni che alcuni [url”blog femministi”]http://ilmaschiobeta.wordpress.com/2017/01/12/la-nuova-frontiera-dello-stupro-virtuale-sbarca-in-italia/[/url] hanno provveduto a diffondere per denunciare “il punto di non ritorno di Facebook”: gruppi chiusi frequentati da uomini che esprimono pubblicamente le loro fantasie sessuali – spesso violente e degradanti – nei confronti di fotografie di ignare donne, immortalate nei più normali contesti di vita quotidiana e oggetto loro malgrado di queste forme di onanismo di gruppo.

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Non so a voi, ma vedere raccolti in un’unica istantanea questo bestiario umano che pare attingere al più abusato degli immaginari pornografici, con una reiterazione quasi ossessiva alla pratica della masturbazione, mi ha provocato un certo disagio. Quello stesso disagio che avvertii la prima volta che vidi la scena iniziale di Cuore Selvaggio di David Lynch, quando dopo aver mostrato la tranquillità da cartolina del tipico sobborgo americano tutto casette di legno e barbecue, la cinepresa inquadrava un nugolo di insetti in lotta tra loro tra i fili d’erba di un giardino. Esiste sempre qualcosa di stridente, disgustoso e ripugnante che deve restare nascosto alla vista, in quanto segna il confine del nostro buon gusto, marca i limiti del vivere ordinato e civile. È l’abietto di cui parlava [url”Julia Kristeva”]http://en.wikipedia.org/wiki/Powers_of_Horror[/url]; tutto ciò che noi non siamo, ma che ci consente di essere: quella realtà intima e inaccessibile allo stesso tempo, in cui non possiamo riconoscerci perché ne usciremmo annullati, ma da cui non possiamo comunque mai esimerci. E dato che a nessuno piace specchiarsi nei contorni sfocati dell’abiezione, ecco che ci si affretta subito a prendere le distanze, gettare la fatidica linea di demarcazione tra noi e loro. Una linea che però – sappiamo tutti – non essere così netta, perché questi abietti 2.0 potrebbero essere tra noi, nelle vesti di padri, figli, mariti o fidanzati Al limite potremmo essere io e tu che stai leggendo questo articolo. O Enrico Mentana stesso.

Ma questo poco conta. Importante è scavare il confine, costruire quella narrazione che tutti abbiamo voglia di sentirci raccontare: gli abietti 2.0 commettono stupro virtuale. Punto. Metafora perfetta per giornalisti improvvisati sociologi che amano avventurarsi in ardite teorie sistemiche, pretendendo di spiegarci tutto ricorrendo semplicemente ad una formula così forte. L’americano Richard Shweder diceva che il mondo conosciuto risulterà sempre incompleto se visto da un solo punto di vista ed incoerente se osservato da più angoli di osservazione. Ma dato che tutti noi aneliamo a vivere in un sistema di significati coerentemente logico, ecco allora prendere forma questa specie di quadro sociale solido e compatto, dove fenomeni diversi e complessi convergono in maniera quasi lapalissiana verso l’unica direzione possibile: dai gruppi su Facebook dedicati all’onanismo alla “cultura dello stupro”, dal revenge porn sino ad arrivare al fenomeno del femminicidio. La linea indicata è semplice. Quindi inutile disquisire troppo: quando gli argini si sono sfondati, e la marea sta arrivando, l’unica cosa che occorre fare è agire, intervenire. Denunciare.

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Ma se continuiamo ad alimentare questo clima emergenziale perenne, ci limiteremo a vedere la questione da un unico punto di vista e non capiremmo mai davvero dove si annida il problema di fenomeni come questo e le conseguenti strategie necessarie a prevenirli.

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Pornocultura e disinibizione

Parecchie persone si sono indignate nel leggere i contenuti sessuali così espliciti, volgari e violenti condivisi in questi gruppi. Ma dove sarebbe la novità? Di cosa ci si dovrebbe scandalizzare? Mi spiace che molti se ne siano accorti ora – o fingano di accorgersene solo adesso, ma che Internet sia un posto pieno di onanismo virtuale non è una certo novità del momento, né l’ultima piaga sociale di cui occuparsi. Come [url”ben spiegato qui”]http://www.nextquotidiano.it/enrico-mentana-va-alla-guerra-contro-gli-onanisti-anonimi/[/url], esistono da sempre gruppi Facebook – nonché anche blog e forum di discussione – che prendono quali bersagli delle proprie fantasie sessuali donne del mondo dello spettacolo o avvenenti giornaliste, ma anche calciatori o fenomeni musicali sconosciuti a chi ha più di 14 anni come Benji e Fede. Ma, senza avventurarsi nel mondo delle pagine private, basterebbe entrare nel magico reame della pornocultura contemporanea per scoprire che sono decenni che adolescenti di tutto il mondo vedono e commentano assieme le scene dei film porno usando linguaggi simili. Cameratismo machista? Può darsi. Ma non credo che nessuno di noi si debba stupire del fatto che i giovani di oggi crescono a pane e gang bang. Nella sua discutibile, ma illuminante inchiesta di qualche anno fa, la giornalista [url”Pamela Paul”]http://www.pamelapaul.com/book/pornified/[/url] condannava la pornografia contemporanea, usando gli stessi argomenti che hanno fatto la fortuna di femministe come Catharine A. MacKinnon o Andrea Dworkin. Spostando i confini dell’eccitamento nei territori della degradazione e dell’umiliazione e valorizzando una sorta di dedizione eroticizzata alla violenza, la pornografia contribuirebbe a fornire una visione oggettivante della persona umana. Ma oggettivare un essere umano – ammesso che sia necessariamente una cosa sempre negativa – non vuol dire certamente stuprarlo. E non esiste nessuna ricerca al mondo che ha dimostrato che il consumo di pornografia – che in realtà significa libero accesso alle proprie fantasie masturbatorie – si sia poi tradotto in forme di violenza nella vita reale. Le fantasie erotiche sono una cosa, la realtà un”altra: e la gente ha diritto ad averne di proprie, per quanto altri le possano trovare disgustose. Perché le chiacchiere da bar tra maschi arrapati sono sempre esistite: è semmai la “persistenza del dato”, direbbe [url”danah boyd”]http://www.danah.org/papers/TakenOutOfContext.html[/url] che crea panico morale nell’opinione pubblica, portando ad esasperare un fenomeno che, in realtà, rimanda all’Ars Amatoria di Ovidio e che attiene al campo dell’espressione della sessualità umana.

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Allarghiamo, quindi, i punti di vista. Il problema non è che gli abietti 2.0 si masturbino in gruppo simulando le scene che si vedono in qualsiasi film porno. E il problema non è neppure nel linguaggio violento che spesso caratterizza tali commenti. Non solo perché tale linguaggio aggressivo è da sempre caratteristico di molti generi pornografici, ma perché spesso tale violenza ha poco a che vedere con l’odio e più con il gioco goliardico, il politically incorrect, l’idiozia intesa come volontaria rinuncia ad un livello di comportamento socialmente accettabile. Questi novelli blasé devoti alla futilità e al disincanto, per cui nulla riesca a stupirli o coinvolgerli emotivamente, affollano gruppi come “Pastorizia Never Dies”, “Disordine e degrado” o “Welcome to Favelas”. A leggere i loro post, pare ritrovare quella stessa spinta profanatoria che Mikhail Bakhtin rinveniva nel carnevale popolare, l’abolizione provvisoria cioè delle regole e dei tabù che regolano il nostro vivere civile. Non è un caso che il dissacrante dileggio di questi gruppi prende di mira soprattutto quegli argomenti edificanti, alti e nobili che dovrebbero renderci persone migliori: il rispetto delle diversità, la tutela della dignità umana, l’empatia verso le sofferenze altrui. E invece molti spesso i contenuti di queste pagine sono omofobi, razzisti, sessisti, ma in una maniera così platealmente esibita e così ironicamente costruita, da diventare quasi parodia di se stessi.

Questo non significa che la nostra umanità è diventata più incivile, crudele o immorale. Nonostante una certa vulgata continui a insistere banalmente su questa idea dei social network come riflessi rivelatori di chi siamo davvero nella nostra vita offline, in realtà molte persone – specialmente gli adolescenti – vedono certi ambienti online come spazi di gioco separati in cui vigono norme e regole che hanno poca applicazione nella vita quotidiana. All’interno di tali spazi – di cui i gruppi chiusi su Facebook fanno parte – sembrano vigere quei meccanismi che lo psicologo sociale John Suler ha definito come immaginazione dissociativa e introiezione solipsistica, e che determinano probabilmente quell’[url”effetto disibinitorio”]http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/15257832[/url] che prevale tra i post e i commenti di queste pagine. Sebbene iscritti con nome e cognome, molti utenti, difatti, percepiscono questi gruppi come veri e propri mondi lontani dalle richieste e responsabilità che caratterizzano la vita reale, a cui essi prendono parte usando una identità di ruolo, e che provvedono ad abbandonare una volta ritornati alla loro vita quotidiana (immaginazione dissociativa). Allo stesso tempo, gli altri che partecipano alla pagina sono visti più come “personaggi” che come interlocutori reali, una sorta di “voci interiori” che servono solo ad amplificare, come una cassa di risonanza, la propria voglia di evasione (introiezione solipsistica). Questi gruppi, dunque, offrono la possibilità di giocare il proprio se disinibito, né più né meno di quello che avviene nella vita quotidiana quando ci sorprendiamo a seguire, spesso inconsapevolmente, pensieri che mai vorremmo facessero parte della nostra “reale personalità”. Che questi luoghi di disinibizione possano avere effetti reali nei comportamenti delle persone non solo è tutto da dimostrare, ma presuppone l’esistenza di un “io vero” separato dall’ambiente sociale in cui si esprime. Per questo, continuare a lanciare allarmi emergenziali è sbagliato: le persone non vanno su “Disordine e Regresso” perché si sono “scoperte” più razziste, omofobe e sessiste, né necessariamente l’esposizione e il consumo di quei contenuti le rendi tali. Inibizione e disinibizione sono processi che regolano la nostra vita personalità sociale in un gioco di pesi e contrappesi che non può essere spiegato facendo ricorso a teorie semplicistiche, spesso basate sulla cosiddetta “fallacia dell’interiorizzazione”.

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La questione “culturale”

Se i gruppi di onanisti anonimi su Facebook non trasformano i suoi frequentatori in potenziali stupratori, ne deduciamo che non vi è alcun problema? Tutt’altro. Il problema esiste, solo che farne una questione di morale pubblica significa cercare la violenza nel posto sbagliato. Guardiamo scandalizzati a quel linguaggio che tanto ci disgusta, ma perdiamo di vista che il vero sopruso non sono le fantasie sessuali di un gruppo di maschi arrapati, ma legare quelle fantasie ad una immagine nata per altri scopi, innestando un cortocircuito pericoloso per la reputazione della persona coinvolta. E se in epoca di social network, la reputazione di una persona è diventa un bene sociale sempre più vulnerabile, la sua tutela rappresenta oramai un diritto fondamentale. Per questo, è quanto meno curioso che la presidentessa Boldrini pensi che il miglior modo per rispondere a tale sopruso sia quello di mettere alla gogna pubblica i vari commentatori, alimentando ancor di più questo circolo perverso di profanazione della sfera privata. Torniamo, insomma, al biblico occhio per occhio, dente per dente: e questa sarebbe una efficace risposta educativa?

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Sorge il dubbio che episodi come questi sembrano fatti apposta per urlare facili imperativi morali contro la crescente cultura degli “[url”uomini che umiliano le donne”]http://espresso.repubblica.it/inchieste/2017/01/17/news/stupro-su-facebook-ecco-cosa-si-dicono-gli-uomini-che-umiliano-le-donne-1.293546[/url]”. A tal proposito, nel maggio 2016, Facebook [url”ha rimosso”]http://www.news.com.au/technology/online/social/facebook-forces-shut-down-of-controversial-blokes-advice-social-media-page/news-story/ae7c31dcc6939af67ee8ecd1f879b747[/url] il gruppo australiano Blokes Advice accusato di ospitare contenuti che incoraggiavano apertamente alla violenza contro le donne. A partire dalla sua apparizione online nove anni fa, Blokes Advice aveva raggiunto la cifra di circa 23.000 membri, ovviamente esclusivamente uomini che potevano entrare a far parte del gruppo solo attraverso l’invito di un loro membro. Sacrosanto che si oscurino gruppi che incitano apertamente alla violenza sulle donne: un commento volgare è goliardia, una fantasia di stupro magari una ossessione masturbatoria, ma quando si parla di slut shaming o revenge porn siamo nel terreno dell’hate speech, ossia di una parola che può generare una minaccia concreta e motivata verso persone o gruppi sociali presi di mira, spesso per motivi pregiudiziali. Tutto corretto. Ma allora non si capisce perché un gruppo dai chiari intenti misandrici come Bad Girls Advise. Failing to Female, dove vengono postati peni di uomini senza il loro consenso e si invita all’odio contro il genere maschile, sia ancora attiva. Quindi, possiamo anche sostenere che quello delle pagine Facebook incriminate è un problema di sessismo, ma sarebbe opportuno ricordare che il sessismo non è una specie di “distintivo”, che possiamo applicare per spiegare i comportamenti sociali a seconda di come ci aggrada.

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Le crociate contro le “derive dei social network” che fanno personaggi quali Selvaggia Lucarelli, capace di trasformare tale sdegno sessista in moneta di successo non servono a nulla, se non a migliorare il self-branding di queste star del web. Anzi, rischiano di essere controproducenti. Lo dimostra il fatto che nessuno ha sollevato la minima critica di fronte all’account Instagram [url”I boni della metro di Milano”]http://www.instagram.com/ragazzimetromilano/?hl=it[/url], versione italiana dell’americana hotdudesreading che pubblica in un profilo pubblico gli scatti rubati dei ragazzi più belli che si aggirano in metropolitana. L’account ha più di trentamila followers ed è stato raccontato e pubblicizzato nei più noti quotidiani nazionali come un simpatico fatto di folklore digitale. I commenti sono sicuramente di altro tenore – sebbene la maggior parte a sfondo sessuale, ma il problema è lo stesso: la violazione della privacy altrui. Che in tal caso è parimenti grave non solo perché si tratta di scatti rubati, ma perché spesso vengono diffusi anche dati personali sulla persona ritratta. Se fosse successo il contrario, con la pubblicazione di foto di ragazze senza il loro consenso, limitandosi a commentare la loro avvenenza fisica senza scadere nella volgarità, il problema sarebbe stato grave lo stesso. Dal momento che l’entità dell’offesa percepita rispetto ad un gesto simile rimane soggettiva e non si può stabilire uno standard, è il comportamento in sé a dover essere considerato errato.

Pensare prima di postare

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[url”Pochi mesi fa è emerso”]http://www.ilgiornale.it/news/cronache/bibbia-delle-minorenni-nude-dossier-porno-sconvolge-litalia-1254654.html?utm_source=Facebook&utm_medium=Link&utm_content=%22La+bibbia%22+delle+minorenni+nude%3A+il+dossier+porno+che+sconvolge+l%27Italia+-+IlGiornale.it&utm_campaign=Facebook+Interna[/url] che all’interno di alcuni gruppi chiusi su Facebook giravano link ad una famigerata “Bibbia”, un archivio di decine di cartelle e migliaia di immagini sexy di ragazze raccolte sul web, in particolare in gruppi Facebook, Ask e chat di Telegram, alcune anche di carattere pedo-pornografici. Se vogliamo davvero educare le persone – uomini e donne adolescenti in particolare – educhiamole anzitutto a capire l’importanza di concetti come tutela e rispetto dei dati privati. Come ha dimostrato da una [url”analisi”]http://www.pewinternet.org/2011/11/09/teens-kindness-and-cruelty-on-social-network-sites/[/url] condotta dalla Pew Research Center’s Internet & American Life Project, un notevole numero di adolescenti – specie tra i 14 e i 17 anni – mette in atto comportamenti che potrebbero potenzialmente compromettere la propria sicurezza online. Rendiamoli consapevoli dei rischi nell’abusare di certi meccanismi messi a disposizione dalle tecnologie, rispettando però la loro esigenza di potersi esprimere liberamente e usufruire dei meccanismi di visibilità offerti dai social network. A tal proposito, un [url”recente esperimento”]http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0747563216306756[/url] frutto della collaborazione tra una università belga e australiana ha dimostrato che un metodo efficace per prevenire il fenomeno del cyber harassment tra adolescenti potrebbe essere quello di usare un’interfaccia che, una volta riconosciute comunicazioni potenzialmente controverse, mandi automaticamente al suo autore un messaggio per riflettere sui potenziali danni che potrebbe generare nel ricevente. Invitare le persone a riflettere prima di postare, potrebbe essere una buona strategia per diminuire l’hate speech, tutelando allo stesso tempo la sacrosanta libertà di espressione. Strumenti che amplifichino le dinamiche riflessive nell’utilizzo dei social media – soprattutto per quegli adolescenti con una scarsa capacità di autocontrollo – potrebbe essere estese anche al fenomeno della creazione e condivisione di materiale audiovisuale privato. Invocare censure non serve a nulla, meno che mai all’interno di ambienti online che si fondano proprio sulla messa in discussione e derisione di qualsiasi autorità. Piuttosto, dal momento che [url”è stato dimostrato”]C:UserspdeiulioDocumentsRitter, B. A. (2014). Deviant behavior in computer-mediated Communication:[/url] che in questi ambienti gli utenti mostrano una bassa consapevolezza della possibile lesività di certi comportamenti, usare messaggi che facciano riflettere sulla pericolosità di condividere e fruire materiali privati audiovisivi – comprese fotografie che non hanno nulla di erotico o pornografico – potrebbe avere impatti positivi. Magari permettendo l’emersione di quel sentimento d’empatia che è dote necessaria al riconoscimento dell’Altro come individuo o come gruppo sociale a cui portare rispetto.

Allarghiamo, quindi, i punti di vista, evitando di mescolare questioni diverse dentro uno stesso calderone. Non creiamo spazi di mostruosità in cui confinare gli abietti 2.0 a nostro uso e consumo. Non ragioniamo sulle intenzioni dei singoli, ma lavoriamo sui meccanismi tecnologici che guidano le loro azioni sociali. Solo così potremmo comprendere le dinamiche sottese a tali comportamenti e le strategie necessarie alla loro prevenzione. Altrimenti, pretendendo di avere i nostri giardini ordinati e puliti come le casette americane del film di Lynch, non ci accorgeremo che gli insetti continueranno a brulicare indisturbati, magari proprio sotto l’erba appena tagliata del nostro vicino di casa.

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