Il politico e l'utopia. Dialogo con Miguel Abensour

Miguel Abensour: uno dei limiti della filosofia politica è stato di pensare il politico come un ordine. Si potrebbe invece pensare il politico come un legame.

Il politico e l'utopia. Dialogo con Miguel Abensour
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26 Aprile 2017 - 18.50


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(a cura) di Daniele Gorgone

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L”intervista di Daniele Gorgone a Miguel Abensour è stata pubblicata il 24 aprile scorso su [url”Le parole e le cose”]http://www.leparoleelecose.it[/url]. Ringraziamo Italo Testa, della redazione di LPLC, per averci concesso di riprenderla qui. Buona lettura. (pfdi)

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[center]***[/center]

Anzitutto devo chiederle alcune informazioni di carattere biografico: non è facile, infatti, trovare informazioni su di lei. Può tracciare un quadro del suo rapporto con le istituzioni universitarie?

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Sì lo so, in effetti sono un uomo piuttosto discreto. Ho iniziato a 23 anni come assistente di Scienze politiche a Dijon, ma ho lasciato dopo due anni l’incarico perché non sopportavo la gerarchia universitaria: a quell’epoca era terribile. Mi spostai così al CNRS[1] per i successivi 10 anni, dove svolsi la mia tesi di dottorato sulle forme dell’utopia social-comunista nel XIX secolo e il suo rapporto con Marx. Ottenni l’abilitazione in Scienze Politiche e iniziai a insegnare a Reims fino al 1985 quando venni eletto presidente del Collège International de Philosophie[2], carica che tenni due anni allorché dovetti dimettermi per ragioni di salute. Ripresi l’insegnamento nel 1991 all’Université Paris-Diderot e andai in pensione nel 2002 dopo quasi quarant’anni di insegnamento e ricerca. Andai negli Stati Uniti nell’estate del 1968 e in quella del 1970 dove conobbi Marcuse. All’epoca infatti la scuola di Francoforte era molto studiata oltre oceano ma quasi sconosciuta qui in Francia. Sono tornato negli Stati Uniti recentemente (maggio 2011) per tenere una lezione sull’anarchia nel pensiero di Levinas presso la New School for Social Research di New York. Oltre alla carriera accademica un altro elemento importante del mio lavoro è rappresentato dalla direzione della collana Critique de la politique presso l’editore Payot[3]: dal 1974 sono stati pubblicati oltre ottanta volumi.

La collana [i]Critique de la politique[/i], in effetti, ha contribuito notevolmente alla diffusione del pensiero della scuola di Francoforte in Francia. Prima di allora qual era lo stato dell’arte della sua ricezione? Erano già presenti traduzioni?

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Molto poche. Alcuni libri di Adorno erano già stati tradotti, ma all’epoca era considerato più che altro un musicologo. Si iniziò a conoscere la scuola di Francoforte attraverso il successo delle opere di Marcuse (in particolare Eros e civiltà e L’uomo a una dimensione che vennero tradotti quasi subito in francese). Per farle capire la situazione, Adorno venne a Parigi nel 1961 al Collège de France invitato da Merleau-Ponty: ad assistere alla sua lezione non c’erano neanche dieci persone. Una possibile spiegazione di questa tardiva diffusione francese della scuola di Francoforte (in Italia e perfino nella Spagna franchista i loro testi vennero tradotti ben prima che in Francia) risiede a mio avviso nell’opposizione del Parti communiste française che non vedeva di buon occhio quella corrente di pensiero radicale ed eterodossa.

E gli autori vicini alla rivista «Socialisme ou Barbarie»? Neanche loro conoscevano gli scritti dei francofortesi?

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Castoriadis sì, lui li conosceva bene… ma lui conosceva quasi tutto. Per quanto riguarda Lefort e Lyotard invece si sono interessati ai francofortesi più tardi, ad esempio Lyotard nella Condition de l’homme moderne e Lefort in un articolo di commento ai Minima Moralia dal titolo La mort de l’immortalité.

Uno degli aspetti che colpiscono immediatamente chi si avvicina alla sua opera è la sua modalità di scrittura: saggi, articoli ma ben pochi trattati estesi. A cosa è dovuta questa particolarità?

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È il mio modo d’essere, che si riflette nel mio modo di scrivere. Anche Horkheimer ad esempio non ha scritto molti libri, preferendo spesso la forma del saggio breve o dell’articolo. Io mi trovo bene in un articolo di 50 pagine, è la forma che preferisco.

In effetti alcuni suoi libri nascono da articoli, che vengono poi ampliati, come nel caso del suo lavoro su [i]Hannah Arendt contro la filosofia politica?[/i][4]

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Sì in quel caso, tra l’altro, la prima volta che ne parlai fu al «Colloquio Hannah Arendt» organizzato dalla rivista Micromega a Roma. (Era anche presente l’allora sindaco della capitale [Francesco Rutelli ndt], non so se sia ancora lui, ma aveva dato l’impressione di non aver capito nulla dell’opera di Arendt: parlando delle Origini del totalitarismo disse che era la descrizione della democrazia contemporanea…). Quando presentai la mia relazione in molti mi criticarono ferocemente, sostenendo che Arendt fosse legittimamente da considerare una filosofa politica. Mi stupirono invece positivamente gli studiosi italiani di Arendt che accolsero la mia interpretazione e mi spinsero a proseguire le ricerche. Al contrario in Francia gli arendtiani sono molto più conservatori: quando tenni una conferenza alla Sorbonne non appena citai il titolo del mio intervento («Hannah Arendt contro la filosofia politica?») venni accolto da una risata generale del pubblico.

Allo stesso modo il vostro libro su [i]Marx e il momento machiavelliano[/i][5] è lo sviluppo di un precedente articolo.

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Sì, ma la storia di quel libro è più complicata. Originariamente scrissi la prima versione dell’articolo per una conferenza nel quadro del seminario di Claude Lefort tenuto all’École des Hautes Études en Science Sociale. Poi una prima versione venne pubblicata in Phénoménologie et politique: mélanges offerts à Jacques Taminiaux. Successivamente mi chiesero di pubblicare una versione ampliata nella collana del College International de Philosophie presso PUF. Da allora aggiunsi ancora l’importante prefazione all’edizione italiana, in cui parlo di «démocratie insurgente». Per tornare alla questione della mia preferenza rispetto agli articoli: in effetti i miei scritti si potrebbero intendere come degli interventi puntuali. Un lungo articolo vale, a mio avviso, come un libro.

I primi articoli da lei pubblicati, se non sbaglio, trattavano del pensiero politico di Saint-Just. Come si concilia lo studio di uno dei maggiori esponenti del giacobinismo con la preferenza, da lei spesso evidenziata, verso la tradizione comunalista esemplificata dalla Comune di Parigi?

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Il mio interesse verso Saint-Just nacque quando lessi il manoscritto De la nature, che venne ritrovato solamente nel 1947. Al bicentenario della sua nascita nel 1967 organizzai una conferenza alla Sorbonne e proprio recentemente ho curato l’edizione delle opere complete. Per comprendere la mia posizione occorre mostrare la complessità della situazione storica: da un lato è evidente che il giacobinismo, portando al Terrore, ha spezzato e frammentato il movimento popolare ma, allo stesso tempo, a mio avviso Saint-Just e Robespierre avevano intenzione di creare davvero un’altra società, nonostante ciò che poi è stato realizzato. Sull’interpretazione della Rivoluzione francese ad esempio ho avuto dei contrasti con Lefort. In Francia infatti c’è una corrente, legata in particolare a François Furet, che interpreta il 9 Termidoro come l’inizio della libertà e della democrazia liberale. Io prediligo la lettura di altri, come Kropotkin, che invece leggono quella data come la fine della rivoluzione. L’influenza di Furet è oggi fortissima: non si parla più dell’«esecuzione del re» ma dell’«assassinio di Louis XVI». Considerando il mio testo a favore del regicidio, c’è gente che ora non mi parla più… Ho trovato invece molto interessante l’analisi sviluppata da Remo Bodei in Geometria delle passioni: leggere il giacobinismo e il Terrore a partire da Spinoza. In questo modo si supera l’interpretazione classica, vale a dire la lettura retrospettiva della storia che vede nel Terrore l’annuncio del leninismo, o perfino del totalitarismo stalinista. Anche Hannah Arendt in molti scritti ha attaccato questa impostazione, esprimendo invece interesse per la figura di Robespierre. Tornando alla sua domanda, tra le diverse forme di rivoluzioni preferisco quella comunalista; ma anche nella visione giacobina c’era una certa alterità rispetto alla visione classica della repubblica incarnata dai termidoriani che hanno invece plasmato l’idea di repubblica dall’epoca della rivoluzione fino a oggi.

In che modo la sua lettura della rivoluzione influenza l’idea di «democrazia insorgente»? Si tratta di una forma di rivoluzione? E in che modo essa si relaziona con le istituzioni della democrazia rappresentativa?

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Io credo che sia una forma di inganno (escroquerie) concettuale l’idea che «democrazia» voglia dire governo rappresentativo oppure stato di diritto. Ciò che trovo interessante in Marx consiste proprio nel comprendere l’opposizione tra democrazia e Stato: ciò che egli chiama «vera democrazia» (che già spinge a pensare che ci sia anche una «falsa democrazia») si oppone allo Stato, si costituisce nella scomparsa dello Stato. Marx avrebbe sempre voluto scrivere un libro sulla Rivoluzione francese (chissà quanto ci avrebbe aiutato a capire meglio sia la rivoluzione sia il pensiero di Marx!): essa può venir intesa come democrazia insorgente nel senso che è sempre stata attraversata da un conflitto interno tra una comunità politica popolare e le istituzioni; sia, da un lato, le istituzioni dell’Ancien Régime (come la monarchia) sia, dall’altro, le nuove istituzioni in statu nascendi. Ciò si mostra chiaramente alla fine della rivoluzione nei moti di Pratile. Ma allo stesso tempo ho preferito il termine «insorgente» a «insurrezionale» poiché quest’ultimo è un momento preciso, mentre il primo è un processo continuo, sempre pronto a ripresentarsi a seconda delle circostanze storiche. Questa interpretazione della democrazia si fonda su una mia convinzione fondamentale: quella della differenza tra il politico (le politique) e lo statale (l’étatique). Guardi ad esempio ciò che è accaduto recentemente nelle rivoluzioni arabe: è molto chiaro. La democrazia insorgente è stata in un primo momento sconfitta, ma ciò non significa che non possa rinascere e ripresentarsi. In fin dei conti questa era anche l’idea di Machiavelli secondo cui in ogni città sono presenti due desideri in lotta: quello dei Grandi di dominare e quello del popolo di non essere dominato. In ogni rivoluzione dunque ci sono sempre dei «nuovi Grandi» che si presentano sulla scena. In ciò Machiavelli si differenzia da Marx: entrambi pensatori del conflitto, ma il secondo lo intende come provvisorio, mentre il primo come strutturale e insuperabile. Insomma la democrazia è decisamente faticosa.

Qual è la sua posizione rispetto all’utilizzo della violenza nelle dinamiche storico-politiche? Arendt ad esempio prende posizione a favore della non-violenza e della disobbedienza civile, così come Tolstoj interpretando La Boétie.

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La mia riflessione su questo tema passa attraverso la lettura di Pierre Leroux. Egli individua due problemi legati al terrore rivoluzionario: la sua natura violenta da un lato scoraggia la partecipazione popolare all’azione, dall’altro pone un ostacolo alla creazione di una nuova società priva di violenza. A mio avviso bisognerebbe ridurre al massimo l’uso della violenza, benché ci siano delle violenze per così dire «necessarie». Non sono possibili ribaltamenti della struttura del dominio senza alcuna violenza. È un’ambiguità difficile da risolvere.

Restando sul tema dell’emancipazione lei si concentra molto sulla questione dell’autonomia del politico e dunque sulla critica della svalutazione di questa dimensione in favore dell’economico portata avanti, ad esempio, da una parte della tradizione marxista. Ora, come è possibile a suo avviso un’emancipazione politica senza un’emancipazione economica? In effetti nei suoi scritti è raro trovare dei riferimenti al capitalismo.

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Ci sono diverse questioni in questa sua domanda. Anzitutto l’[i]autonomia del politico[/i], un concetto molto importante per la mia generazione. Io sono stato a lungo marxista, poi sono diventato marxiano e lo sono tutt’ora. A mio avviso il marxismo ha sempre compiuto una forzatura pensando gli eventi storici dal punto di vista socio-economico. Un esempio, rimanendo alla Rivoluzione francese, è dato dall’interpretazione del processo al re da parte del marxista Albert Soboul: nella sua analisi si parla solo di classi sociali, ignorando così la presenza, in quell’evento storico, della dimensione simbolica e politica oltre che di quella giuridica. Altri storici dell’Ottocento, come Michelet ad esempio, hanno invece insegnato a riscoprire la sfera politica nell’analisi degli eventi storici. Così per la mia generazione fu fondamentale riscoprire il politico a partire da Machiavelli e dalla sua lettura datane da Lefort. Allo stesso tempo però ho sempre accolto l’opposizione marxiana tra emancipazione politica e emancipazione umana: nella Democrazia contro lo Stato insisto sul fatto che l’uguaglianza e la libertà se esistono a livello politico devono esistere ovunque, diffondendosi in ogni settore della vita sociale. So bene dunque che viviamo in un mondo capitalista e che questo è, per certi aspetti, determinante. Non me ne sono mai occupato direttamente, ma questa consapevolezza è implicitamente sempre presente. Il punto è che in nome della critica del capitalismo per molto tempo si è ignorata la dimensione politica, quindi si può dire che in un certo senso la contingenza ha voluto che mi occupassi di questo aspetto, come per riequilibrare i piani di interesse.

Vorrei ora passare a una domanda relativa a Étienne de La Boétie e alla nozione di servitù volontaria. È un tema a me caro dato che sono entrato in contatto con il suo lavoro studiando il tema dell’obbedienza assurda e il differente modo in cui questo concetto viene analizzato nel [i]Discours de la servitude volontaire[/i][6] e nella [i]Leggenda del Grande Inquisitore[/i] dei [i]Fratelli Karamazov[/i] di Dostoevskij. In questo confronto, il punto dirimente sembra ridursi alla questione antropologica, vale a dire alla concezione – positiva o negativa – dell’uomo. Nel primo caso interpretando l’uomo come un essere per la libertà, come insegna a fare La Boétie, è possibile leggere la servitù volontaria dal punto di vista dell’emancipazione, cioè la consapevolezza che il potere resta nella mani del popolo mentre i dominanti vengono relegati a un ruolo del tutto marginale. Nel secondo caso invece interpretare l’uomo come incapace di gestire la propria libertà significa intendere la servitù volontaria come giustificazione del dominio. Come è possibile uscire da questa alternativa?

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È possibile insistendo sul tema della pluralità umana. In La Boétie, a mio avviso, non c’è solo una questione antropologica, quindi l’uomo come essere per la libertà. Io direi piuttosto che l’uomo è un essere per la libertà nella misura in cui, riprendendo Arendt, sono gli uomini che abitano la terra. Ciò significa che la libertà è inseparabile dalla pluralità o da quello che La Boétie chiama l’amitié o entreconnaissance. Su questo aspetto ho avuto spesso delle discussioni con Françoise Proust[7] che, portando avanti studi sull’antropologia negativa, riteneva che la servitù volontaria fosse un’ipotesi ripugnante. Per evitare questa prospettiva, l’unico modo è leggere il ribaltamento della libertà nel suo contrario in connessione alla pluralità umana, vale a dire il tous uns. Questa collettività è estremamente fragile e può in ogni momento disfarsi e ricomporsi nella nuova unità del tous Un[8]. Quello che lei dice riguardo all’antropologia è giusto: se si riduce l’enigma della servitù volontaria a un giudizio riguardo alla natura umana si resta bloccati. Per capire meglio questo punto si può confrontare La Boétie con Rousseau. A mio avviso è evidente che nel Discours sur l’origine et les fondaments de l’inégalité parmi les hommes ci sia la presenza implicita di La Boétie, benché sempre nascosta. Questo forse è dovuto al fatto che La Boétie appartiene, come è stato detto, alla mauvaise tradition. Si può così vedere un’opposizione tra La Boétie e Rousseau da un lato e Gropius e Pufendorf dall’altro. Questi ultimi non sono teorici della servitù volontaria ma della schiavitù volontaria: ciò significa che così come un uomo può alienare sé stesso a un padrone, allo stesso modo un popolo può alienare sé stesso a un tiranno, con tanto di contratto di protezione e così via. La protezione è sempre presente in questi discorsi: Horkheimer diceva che «la protezione è l’archetipo della dominazione». Nel caso di La Boétie e Rousseau invece il discorso è diverso poiché ha a che fare con gli affetti, con il desiderio: sotto il «fascino del nome d’Uno» la collettività può talvolta disfarsi e divenire tous Un. Per i teorici della schiavitù volontaria c’è l’elemento antropologico: gli uomini hanno una naturale tendenza alla schiavitù e dunque non bisogna stupirsene. Dal punto di vista della servitù volontaria non c’è affatto questa prospettiva: l’uomo è un essere per la libertà, ma questa è esposta a ribaltarsi a causa della fragilità della pluralità umana.

Come si concilia l’ipotesi della servitù volontaria con l’idea di emancipazione? Sembra quasi che la servitù volontaria costituisca un punto cieco per l’emancipazione.

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Gli eventi storici ci hanno insegnato a complicare molto l’idea di emancipazione, a non vederla come un processo lineare. Prenda i filosofi della scuola di Francoforte: nelle loro riflessioni è presente l’idea di una dialettica della ragione. Allo stesso modo occorre pensare a una analoga dialettica dell’emancipazione, ma ciò non significa abbandonare il progetto di liberazione, bensì complicarlo facendo i conti con l’ipotesi della servitù volontaria. In un certo senso La Boétie aggiorna le riflessioni di Machiavelli introducendo il sospetto di una dialettica interna al desiderio di libertà del popolo che per lo scrittore fiorentino era invece il polo oppositivo rispetto al desiderio di dominio dei Grandi. Su questo punto ho spesso discusso con dei colleghi che ritengono sia presente nel pensiero di Machiavelli l’idea di servitù volontaria: a mio avviso non è così. Lo stesso è accaduto in relazione ad Hannah Arendt: a una conferenza Remo Bodei ha sostenuto che nelle sue riflessioni è presente la categoria laboetiana. Secondo me non è così. Arendt certamente conosceva questa nozione ma in un certo senso si rifiutava di pensarla, di accettarla: è come se volesse preservare il campo della libertà nella sua purezza poiché una volta che questo viene messo in discussione non si può più tornare indietro.

A proposito della comunità dei tous uns a cui lei spesso si riferisce nei suoi scritti: in che modo questa concezione politica è in rapporto alla filosofia etica di Lévinas? Mi pare che la presenza costante di questo autore nelle sue riflessioni rappresenti una tensione tra il politico e l’etico, come in cerca di un punto esterno su cui fondare la sua ipotesi politica.

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Sicuramente Lévinas è una figura molto importante per il mio lavoro. Ma non è corretto parlare di fondamento: egli infatti parla di «anarchia del bene» in riferimento alla sua concezione dell’etica. Il punto a mio avviso è la relazione tra politica e metapolitica: io penso che in Lévinas ci sia un di più rispetto alla dimensione etica. Allo stesso tempo la politica centrata su sé stessa corre dei rischi: in Totalité et Infini egli scrive che la politica ripiegata su sé stessa porta alla tirannia. Secondo me in Lévinas non c’è solo una relazione tra etico e politico, si tratta di qualcosa di più straordinario: ciò che chiamo metapolitico è una svolta verso una dimensione altra, oltre la politica ma che non è un avvicinamento verso dei principi filosofici bensì verso ciò che chiama la sensibilità e la prossimità del «per l’altro». Questa relazione è anarchica, senza principio e permette quindi di pensare diversamente anche la dimensione politica.

Ma questa rapporto al metapolitico non è in contraddizione con l’autonomia del politico?

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Le due cose possono stare assieme. Prenda i filosofi dell’antichità classica: nel loro pensiero si trova un’autonomia della politica nella misura in cui c’è una corrispettiva relativizzazione della politica. Si cerca il «vivere bene», l’eccellenza ecc. È proprio in relazione a questa relativizzazione che la politica acquisisce la sua dignità. Lévinas ha compiuto una operazione simile nell’ambito di un pensiero moderno, articolando la politica con una dimensione altra ma che permette di restituire alla politica la sua dignità.

Qual è il rapporto tra questa concezione della politica e la sua insistenza sul tema del [i]lien humain[/i], del legame umano come uno dei vettori dell’emancipazione umana?

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A mio avviso uno dei limiti della filosofia politica è stato di [b]pensare il politico come un ordine[/b]. Si potrebbe invece pensare il politico come un legame. Prenda ad esempio Platone: nel Politico egli compara l’uomo politico a un tessitore, quindi a qualcuno che effettivamente crea dei legami, mentre nella Repubblica tutto si riduce alla ricerca di una costituzione in grado di portare ordine nel sociale. La mia idea è che la manifestazione politica rinvia sempre a una dimensione più ampia di quella politica che non è una fuga da essa ma un diverso modo di rapportarcisi.

Cambiando argomento le chiederei di parlarmi dell’importanza della critica del totalitarismo nel suo pensiero.

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Nel secondo dopoguerra la critica del totalitarismo era diventata sostanzialmente un’arma della guerra fredda: a questo spesso si riducevano le interpretazioni liberali. Per quanto mi riguarda mi avvicinai a questi temi quando incontrai le riflessioni di Lefort e Arendt: essi non hanno sviluppato un’analisi sociologica o di scienza politica del totalitarismo bensì un’interpretazione filosofica. Inoltre attraverso il loro lavoro si può sviluppare una critica della dominazione totalitaria da una prospettiva radicale ed emancipativa mostrando così come essa non sia solamente legata alla tradizione liberale. Ciò che accomuna Lefort e Arendt a mio avviso è il fatto di aver interpretato il totalitarismo non solo come distruzione della politica ma come annichilimento della dimensione politica dell’uomo, quindi della sua condizione di possibilità. Se per Lefort l’elemento del suo pensiero che ho ritenuto più importante è l’idea dell’immagine del corpo, e quindi la possibilità per la massa di autorappresentarsi unita e fusa nella figura del capo, nel caso di Arendt mi pare che al fondo delle sue riflessioni ci sia il tema del movimento: il dominio totalitario è attraversato da una invasione del movimento che finisce per distruggere ogni punto di riferimento stabile nel mondo.

Qual è stato il suo contributo a questa discussione sulla critica del totalitarismo?

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Le risponderei sottolineando alcuni aspetti. Il primo è la mia insistenza rispetto agli oppositori della critica del totalitarismo che intendevano questo fenomeno storico come un eccesso del politico: a questa interpretazione segue così un disinvestimento nel politico inteso come la causa della barbarie totalitaria. A mio avviso invece il totalitarismo non è l’eccesso del politico (al massimo l’eccesso dell’ideologico) bensì una sua distruzione. In tal modo la risposta non consiste in una uscita dal politico ma nella sua ripresa e ripensamento. L’apoliticismo contemporaneo, vale a dire la disaffezione verso la politica, è a mio parere connessa con il fenomeno totalitario: rappresenta cioè una sorta di eredità lasciata dall’ideologia e entrata nel sentire comune. Il secondo aspetto riguarda la mia analisi della «compattezza» sviluppata attraverso il rapporto tra dominio totalitario e architettura. Ho approfondito la lettura del diario di Albert Speer (architetto del Reich) indagando la componente estetica presente nell’operazione di massificazione della società totalitaria. Infine mi sono interessato alla lettura del nazismo offerta da Lévinas in Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo. Inizialmente Lévinas non intendeva ripubblicare il suo testo, si decise solamente dopo avermi chiesto di accompagnarlo a un mio saggio di analisi. L’occasione fu un colloquio su Heidegger organizzato al College nel periodo della mia presidenza: decidemmo di invitare Lévinas per presentare una posizione vicina ma al contempo critica della filosofia di Heidegger. Non fu facile perché Lévinas non amava parlare direttamente di Heidegger: così mi disse che avrebbe partecipato solo a condizione che fossi io a presentarlo. Fu così che dal colloquio si passò in seguito alla pubblicazione dei due testi.

In che senso la filosofia di Lévinas rappresenta un «Contro Hobbes»?

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Hobbes è esattamente il nemico: se si vuol pensare il politico come un ordine il riferimento è lui. In Lévinas invece è presente un altro pensiero del legame umano connesso alla priorità della relazione intersoggettiva: da un lato homo homini lupus, dall’altro la prossimità.

La concezione del politico come legame umano è presente anche nelle riflessioni di Pierre Leroux a proposito dell’associazione. A cosa è dovuto il suo interesse per la riscoperta di questo autore, spesso considerato un utopista minore?

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Il punto a mio avviso più importante del suo pensiero consiste nella possibilità di coniugare democrazia e utopia. Spesso infatti questi due concetti sono stati ritenuti incompatibili: nel 1981 al momento dell’elezione di Mitterand si sosteneva: «l’utopia è morta, ora è il tempo della democrazia». Leroux invece ha proposto una loro articolazione sostenendo che occorra democratizzare l’utopia (questo contro i saint-simoniani legati a una visione molto gerarchica dell’utopia) e utopianizzare la democrazia. Ciò significa che questa non va intesa solo come un regime politico o come stato di diritto, ma come una nuova forma di emancipazione umana comparsa nel XIX secolo sotto il nome di «associazione», vale a dire la scomparsa del dominio politico.

Ecco l’utopia, uno dei suoi maggiori temi di interesse. Cosa la spinse a intraprendere questo ambito di ricerca fin dagli anni Sessanta in occasione della sua tesi dottorale?

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Inizialmente intendevo svolgere la mia tesi sul giacobinismo. Poi mi resi conto che era un tema un po’ inflazionato… in Francia ci sono state 2500 società giacobine! Venni impressionato dalla lettura di William Morris, così scelsi di concentrarmi sull’utopia anglosassone del XIX secolo (Owen, Bellamy). Un’altra mia convinzione era, e lo è tutt’ora, la presenza di una dimensione utopica nell’opera di Marx, quindi il problema su cui mi soffermai fu il rapporto tra Marx e l’utopia o tra questa e il marxismo. Venni incoraggiato in questa direzione dalla lettura di Labriola. Nei suoi Saggi sulla concezione materialistica della storia[9] egli parla di una previsione morfologica nel pensiero di Marx, vale a dire la previsione di una forma di società superiore a partire dalla quale compiere una critica del capitalismo. Questo in Francia era totalmente sconosciuto. Inoltre William Morris rappresenta un vero e proprio caso emblematico: dopo aver letto il Capitale egli si schierò, con sue parole, «con Marx contro il mondo intero». In seguito scrisse la famosa utopia News From Nowhere: Marx e l’utopia non erano così incompatibili.

Lei propone inoltre un’altra lettura della tradizione utopica, preferendo parlare di tradizioni utopiche per sottolinearne la complessità.

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Sì, propongo una successione di tre momenti utopici. Anzitutto il socialismo utopistico dei tre iniziatori Saint-Simon, Fourier, Owen. Poi ciò che chiamo il neo-utopismo in cui rientrano tutta una serie di epigoni che in un certo senso istituzionalizzarono la spinta utopica presente negli inizi. Infine il «nuovo spirito utopico», definizione polemica che all’epoca scelsi in contrasto al «nuovo spirito scientifico» di Gaston Bachelard. Con questo concetto intendo oppormi alla tesi classica secondo la quale l’utopia sarebbe morta dopo la Rivoluzione del 1948, rimpiazzata dal socialismo scientifico. A mio parere invece in quell’epoca ci furono numerose scissioni e scontri che portarono a elaborare una critica del progetto di emancipazione presente nell’utopia per ripensarla e rinnovarla. Per questo Morris si inscrive interamente in questa corrente.

Questa autoriflessione dell’utopia su se stessa si riflette nell’analisi della differenza tra mito e utopia. In che modo sviluppa il rapporto tra questi due concetti?

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Iniziai a interessarmi al rapporto mito/utopia attraverso gli autori della Scuola di Francoforte. In particolare grazie a Benjamin si può leggere la duplice presenza di aspirazione mitica e utopica, vale a dire la possibilità per il polo emancipativo dell’utopia di ribaltarsi in mito. L’obiettivo dei miei studi è stato quindi di operare una critica della ricaduta dell’utopia nel mito e non una critica dell’utopia stessa.

Come si relazione l’idea di utopia, così concepita, alla storia e all’idea di progresso?

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A mio parere l’utopia non va connessa all’idea di progresso, essa esprime piuttosto l’idea di una alterità. Ciò che minaccia l’utopia è la sua riduzione a previsione del futuro. Un po’ ciò che ha compiuto Bloch, secondo il quale l’utopia sarebbe passata da una dimensione spaziale a una temporale di anticipazione del futuro. Io critico questa impostazione sostenendo invece che la questione fondamentale sia quella dell’alterità, vale a dire la capacità dell’utopia di far sorgere questa dimensione nella storia, di intervenire interrompendo la storia.

A proposito di momenti di rottura della storia lei parla molto della Rivoluzione francese e della Comune di Parigi ma non ho letto nulla a proposito del maggio 1968. In conclusione vorrei dunque chiederle in che modo interpreta e in che modo ha vissuto questo evento storico.

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In effetti non ho scritto nulla sul ’68 benché abbia tenuto alcune conferenze a riguardo. Sicuramente si tratta un evento importante per me, soprattutto in quanto rivoluzione antiburocratica.

Quindi non è comparabile alle rivoluzioni del XVIII e XIX secolo?

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È differente poiché si tratta di una rivolta contro l’esperienza di burocratizzazione del mondo che ha interessato sia il totalitarismo sovietico sia il capitalismo americano. I movimenti più importanti del ’68 sono stati appunto, a mio avviso, quelli che hanno lottato contro il costituirsi di una burocrazia all’interno dello stesso movimento. «Socialisme ou barbarie» rappresenta un esempio di chi si è opposto alla trasformazione del movimento in un’avanguardia rivoluzionaria. Detto questo in effetti non ho mai scritto nulla perché non ho una lettura particolarmente originale di quegli eventi: scrivo qualcosa, un articolo un libro, se ho una tesi da esporre, altrimenti non ha senso. Mi sono sempre comportato in questo modo.

Note

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[1] Centre National de la Recherche Scientifique, analogo francese del CNR italiano.

[2] Istituzione nata nel 1983 su iniziativa di Jacques Derrida e Jean-François Lyotard (che ne furono anche i due primi presidenti) si caratterizza per una spiccata tendenza cosmopolita e per l’interdisciplinarità e il dialogo tra filosofia e scienze sociali.

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[3] Collana che rappresenta una vera e propria operazione di riscoperta e rilettura di testi più o meno conosciuti. Il primo testo, uscito nel 1974, è stato Eclisse della ragione di Max Horkheimer. Dopo molti anni presso la casa editrice Payot la collana viene pubblicata dal 2016 da Éditions Klincksieck.

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[4] Hannah Arendt contre la philosophie politique?, Sens&Tonka, Paris 2006; trad. it. Hannah Arendt contro la filosofia politica?, Jaca Book, Milano 2010.

[5] La démocratie contre l’État: Marx et le moment machiavélien, PUF, Paris 1997; trad. it. Id., La democrazia contro lo Stato: Marx e il momento machiavelliano, Cronopio, Napoli 2008.

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[6] É. de La Boétie, Discours de la servitude volontaire, 1548-53; trad. it. Discorso della servitù volontaria, Feltrinelli, Milano 2014.

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[7] Professoressa di Filosofia all’Université Paris I e direttrice di programma di ricerca presso il College International de Philosophie ha pubblicato nella collana curata da Abensour il volume Kant, le ton de l’Histoire, Payot, Paris 1991.

[8] Nella sua lettura del Discours Abensour sottolinea questa dialettica esistente tra tous uns (tutti unici) e tous Un (tutt’Uno) intendendole come due diverse configurazioni dello stare insieme degli uomini: il tous uns è una situazione in cui il legame umano crea una totalità in grado di salvaguardare e valorizzare l’individualità di ciascuno, ma che è costantemente in pericolo di trasformarsi in tous Un, cioè una totalità in cui la relazione tra gli uomini si dissolve nella figura di un Uno.

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[9] A. Labriola, Saggi sulla concezione materialistica della storia, Laterza, Bari 1976.

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Miguel Abensour (1939-2017), già professore all’Université Paris VII-Denis-Diderot, ha tentato di conciliare nel suo lavoro filosofico l’idea di democrazia – intesa come « democrazia contro lo Stato » – con l’idea di utopia, ripensata in termini dialogici. Ha prestato particolare attenzione a autori quali Emmanuel Levinas, Martin Buber, Hannah Arendt, Claude Lefort, Saint-Just, Pierre Leroux, Blanqui, e ha diretto dal 1974 l’importante collana « Critique de la Politique » (Payot & Rivages), che ha contribuito alla ricezione della teoria critica in Francia. Tra i suoi libri pubblicati in italiano: La democrazia contro lo Stato (Cronopio), Per una filosofia politica critica (Jaca Book), Della compattezza. Architetture e totalitarismi (Jaca Book), Hannah Arendt contro la filosofia politica (Jaca Book).

(24 aprile 2017)

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