Lady Macbeth: la brama di potere non ha sesso

Shakespeare era avanti e vedeva ben oltre le discussioni spesso prive di sostanza su patriarcato, femminismo e parità degli odierni social media [Leni Remedios]

Lady Macbeth: la brama di potere non ha sesso
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30 Aprile 2017 - 17.43


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di Leni Remedios.

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A great mind must be
androgynous.

(Samuel Taylor Coleridge)

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In fact one goes back
to Shakespeare’s mind

as the type of the
androgynous, of the man-womanly mind (…).

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(Virginia Woolf)

Bisogna
tornare allo Shakespeare di quattro secoli fa per riscoprire la natura
egualitaria che lega uomini e donne nella loro comune umanità.

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Il
geniale bardo era talmente avanti sui tempi che vedeva ben oltre le discussioni
spesso prive di sostanza su patriarcato, femminismo e parità che imperversano
sui social media del ventunesimo secolo.

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Non
è detto, come puntualizzò Virginia Woolf, che la sua percezione profonda della
natura umana corrispondesse poi ad una consapevolezza dello status sociale de
facto delle donne in epoca elisabettiana[1] o ad un proprio pensiero a
riguardo. Ma tant’è che alcune delle sue intuizioni aprono degli squarci avanguardistici
pure per noi che viviamo e pensiamo nel ventunesimo secolo.

A
dispetto dell’asetticità dei nostri schermi mediatici, dietro i quali ripariamo
la nostra impersonale identità, la figura di Lady Macbeth si ergeva allora in
tutta la sua carnalità sul palco del londinese The Globe, a turbare in carne ed ossa un pubblico già turbato dal
fatto che ad interpretarla fosse un uomo, come doveva essere per tutti i
personaggi teatrali dell’epoca.

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Con
Macbeth – che è pure ambientato di qualche secolo più indietro rispetto alla
contemporaneità di Shakespeare – il bardo stravolge i luoghi comuni più tipici
che imprigionano il genere femminile da secoli, quegli ‘estremi’ che, secondo
Virginia Woolf, hanno rappresentato troppo a 
lungo ciò che il mondo maschile poteva o voleva sapere di una metà del
cielo segregata nelle private stanze: l’angelo del focolare, la moglie
obbediente, la madre premurosa nell’ombra, la cortigiana, persino la strega,
rappresentata qui nel grottesco trio che apre la tragedia.

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Tre
figure androgine queste streghe, al limite dell’umanità, addirittura barbute.

“(…) What are these,

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So withered and so
wild in their attire,

That look not like
the inhabitants ò the earth,

And yet are on’t? (…)

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(…)You should be
women;

And yet your beard
forbid me to interpret

That you are so.”

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“Chi son costoro,

Così avvizzite e selvagge nell’aspetto?

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Non sembrano creature della terra

Eppure la percorrono. (…)

(…) Donne dovreste essere;

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Eppure le vostre barbe non mi permettono

Di giudicarvi tali.”[2]

(Macbeth I, 3 38-46)

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Pochissime
rappresentazioni artistiche hanno riproposto fedelmente questo aspetto del trio
di “strane sorelle” o “sorelle fatali” [3]. Persino lo scrupoloso Polanski,
nella sua pur eccellente versione cinematografica, ne ha fatto quasi una
congrega allargata di pseudo-femministe, una moltitudine di chiari “individui
femmina” sottolineata dalla nudità dei corpi.

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Ma
le streghe androgine di Macbeth, pur nelle note colorite che – queste sì –
aderiscono agli stereotipi dei calderoni e delle ricette, non sono il vero
agente malefico che trasformerà la parabola del prode barone Macbeth in
tragedia.

Il
sanguinario Macbeth non ha nessuna paura nell’ambito ristretto della battaglia,
squarcia il nemico dal mento all’ombelico, si dimostra un guerriero
infaticabile e per questo si merita gli onori del “buon Re Duncan”, nonché il
titolo aggiuntivo di Barone di Cawdor, sottratto ad un traditore del re.

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Eppure
il temerario barone-guerriero, una volta rientrato nell’ambiente domestico,
diventa “Macbeth il codardo”: uno stravolgimento malizioso del suo nuovo titolo
onorifico conquistato con tanto sforzo virile (l’inglese “coward”, codardo, è
un anagramma di Cawdor). Del resto Shakespeare amava giocare con l’ambiguità,
compresa quella del linguaggio.

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Da
chi riceve cotanto epiteto? Niente di meno che dalla moglie, Lady Macbeth.
Lungi dal farsi relegare – come voleva la rigida struttura patriarcale
dell’epoca – a ruolo contorno di angelo del focolare che spende le proprie ore
nell’attesa del consorte, Lady Macbeth fa di più: interiorizza completamente il
peggio degli ideali e addirittura del linguaggio che quella struttura sociale
incarnava. L’ambizione di Macbeth viene tutto sommato mitigata da una
consapevolezza della vanità della vita, a cui spesso allude con monologhi
nichilisti che riportano alla mente il suo confratello di penna Hamlet. Il
recalcitrare di Macbeth ed il suo tentennare nel portare avanti i piani omicidi
ai danni di Re Duncan rivelano una parte sensibile del barone, il quale
obbedisce fino in fondo ai codici di guerra, ma di fronte ai sotterfugi
sanguinosi e tortuosi per la conquista del trono mostra di avere scrupoli
morali e fors’anche una banale volontà di rimanere nel “quieto vivere”. Ce lo
dice la stessa Lady Macbeth in un monologo prima dell’arrivo del barone a
Dulsinane:

Yet do I fear thy
nature;

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It is too full ò th’
milk of human kindness

To catch the nearest
way: thou wouldst be great,

Art not without
ambition, but without

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The illness should
attend it.

Eppure temo la tua natura:

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Essa è troppo pregna dell’umana bontà

Per prendere la via più breve: vorresti essere un grande,

l’ambizione non ti manca, a mancarti

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è però la crudeltà che la deve accompagnare.

(Macbeth I, 5 14-16)

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La
feroce consorte poi invocherà a gran voce divinità e spiriti indefiniti, a cui supplicherà
di strapparle via il suo sesso, ripudiando le caratteristiche tipiche
attribuite al femminile, compresa tutta la mitologia rotante attorno all’ “amor
materno”. Se sobbalzo io sulla sedia a leggere le seguenti righe, non posso non
immaginare la costernazione del pubblico elisabettiano dell’epoca:

(…) Come, you spirits

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That tend on mortal
thoughts, unsex me here,

And fill me from the
crown to the toe top-full

Of direst cruelty.
Make thick my blood.

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Stop up the access
and passage to remorse,

That no compunctious
visitings of nature

Shake my fell purpose,
nor keep peace between

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The effect and it!
Come to my woman’s breasts,

And take my milk for
gall, you murd’ring ministers,

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(….)

(…) Accorrete, o spiriti

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Voi che assistete i pensieri mortali, strappatemi via il
sesso,

E riempitemi dalla testa ai piedi

Della più feroce crudeltà. Rendete il mio sangue più
spesso

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Bloccate la via e il passaggio a qualsiasi rimorso,

Così che nessuno scrupolo

possa far vacillare il mio intento malvagio, nè
interporsi

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fra esso ed il suo compimento! Accorrete al mio petto di
donna,

E scambiate il mio latte materno col veleno, o voi
ministeri di morte (…)

(Macbeth I, 5 38-46)

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I have given suck,
and know

How tender ’tis to
love the babe that milks me.

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I would, while it was
smiling in my face,

Have plucked my
nipple from his boneless gums

And dashed the brains
out, had I so sworn as you

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Have done to this.

Ho allattato un bambino e so

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Dell’amore che si prova verso il neonato che succhia il
latte.

Eppure avrei ben strappato le sue molli gengive dal mio
capezzolo

Mentre sorrideva rivolto al mio viso

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Ed avrei fatto schizzare fuori le sue cervella, se avessi

Giurato così come tu facesti.

       (Macbeth
I, 7 54-57)

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Unsex me. Il termine scelto
appositamente da Shakespeare è aspro come le vallate scozzesi battute dal
vento. Urta la pelle, i nervi, il sangue.

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È
lei il vero agente malefico. Non è la ferocia battagliera del suo consorte, non
sono le ricette visionarie delle “strane sorelle”, che infine, come le moire
greche, non fanno nulla per forzare il destino, ma si limitano a mostrare lo
stato delle cose così com’è, com’è stato e come sarà. Il loro compito è quello
di dipanare il filo del Destino. Di mostrare a chi le interpelli la Realtà
smascherata. Sono loro a rivelare a Macbeth la vanità delle sue ambizioni,
nelle rifrazioni di uno specchio in cui Macbeth non è altro che un granello
nell’ingranaggio della sequela dei re che furono e che saranno. Le Sorelle
Fatali sono la scalcagnata Voce della Saggezza. Sono a loro volta lo specchio
del comune vivere, che spesso non ha nulla dell’elaborata perfezione dell’Arte
o della solidità delle infrastrutture sociali. La realtà può spesso eruttare in
un modo che riecheggia esattamente loro tre: surreale, grottesca, paradossale.

Spetterà
a Macbeth la scelta. Cosa farne di questa sapienza? Prenderne atto e rinunciare
ai propri sogni di potere? O seguire le istigazioni della sua compagna? Già
Macbeth aveva intuito che la sua coscienza sarebbe sempre stata tormentata. Per
paura di essere scoperto nelle proprie trame, per autentico scrupolo morale,
per tutto questo insieme. Eppure alla fine deciderà di non scegliere. Bensì di
farsi trascinare dalla corrente delle passioni insane. In questo Macbeth è
veramente codardo: nel non prendere posizione contro i piani assassini e
disumani della moglie, che ha castrato subito gli scrupoli morali del barone
stuzzicando e mettendo in dubbio la sua virilità.

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Lady
MacBeth è manipolatrice e si fa persino co-autrice degli atti sanguinosi di cui
le sue orecchie delicate di gentildonna non dovrebbero nemmeno sentir parola,
pena la morte istantanea per la soverchiante emozione.

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E
difatti è nella scena del ritrovamento del cadavere di Duncan che risiede il
picco di genialità di quest’opera: Lady MacBeth, fingendosi ignara, chiede
ragguagli al Barone Macduff, il quale esita nel dare la sconvolgente notizia:

O gentle lady,

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‘Tis not for you to hear what I can speak:

The repetition, in a woman’s ear,

Would murder as it fell.

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O nobil donna,

Ciò che sto per dire
non vi si confà:

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Il solo ripeterlo
alle orecchie di una donna,

Porterebbe alla sua
morte istantanea.

(Macbeth II, 80-83)

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Con
un colpo solo il bardo di Stratford sconquassa la galassia di mitemi
apparentemente contraddittori ruotanti attorno all’idea di donna come essere
delicato da toccare solo con un fiore; un’idea frutto della stessa cultura per
cui quello stesso fiore delicato è per questo costituzionalmente inferiore, un
soggetto iper-sensibile incapace di razionalizzare, men che meno di comprendere
la ferocia che anima gli animi maschili. E per questo passibile di essere di
volta in volta incapsulata per la sua protezione in un cilicio (vero o
metaforico) o violentata senza scrupoli.

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Nel
mentre Macduff pronuncia queste parole, nel bel mezzo di una delle scene più
drammatiche della tragedia, il lettore-spettatore non può fare a meno di
soffocare un sorriso sarcastico e quasi vien da mormorare alle spalle del
personaggio fittizio “Macduff, se solo tu sapessi”. Non solo le orecchie di
lady MacBeth possono reggere benissimo alla notizia infausta. Ma le sue mani
ancora odorano del sangue del buon Re Duncan, dove la stessa ha riportato i
coltelli utilizzati dal marito.

Shakespeare
ci dice così che il femminile ed il maschile sono in profondità paritari sia
verso l’alto che verso il basso. Nelle vette dello spirito e dell’intelletto
come pure nel fango della ferocia e del cinismo.

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Non
dovrebbe forse questa tragedia shakespeariana parlare a noi che di Lady Macbeth
abbondiamo?

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Il
nostro personaggio darà, inascoltata, una suprema lezione di distaccato
cinismo, di fronte ad un terrorizzato Macbeth incapace di realizzare il crimine
che ha appena compiuto: invita con freddezza a non indugiarvi troppo coi
pensieri, perché solo questo porterebbe alla follia.

Il
cinismo e la disumanità sono il fio da pagare per soddisfare la sete di
ambizione e di potere.

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Nella
scala di valori patriarcal-virili negativi che lady Macbeth incarna così bene,
Macduff riecheggia, in un gioco di specchi, la codardia di Macbeth e
subodorando un complotto fugge abbandonando vilmente proprietà, terreno, moglie
e figli.

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La
moglie di Macduff – anch’essa una curiosa rifrazione della Lady sua superiore e
lungi dall’essere il fiore delicato nell’ombra, pur priva della sua ferocia –
non lesina parole aspre nei confronti del marito, che qualifica come
“traditore” e, per l’appunto, “codardo”. Ma la sua posizione socialmente
inferiore la esporrà alle trame sanguinose dell’ormai despota Macbeth, e morirà
trucidata assieme a tutta la famiglia dopo essere stata violentata. Perché il
fiore delicato che non può udir parole forti, quando appartiene ad altri, si
tramuta in oggetto da distruggere legittimamente, al pari degli edifici messi a
ferro e fuoco.

Entrambi
i “codardi”, Macbeth e Macduff, riscatteranno la loro codardìa alla fine,
guarda caso quando entrambe le compagne saranno morte: il primo perché non ha
più nulla da perdere. Il secondo per furia vendicatrice.

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Macbeth
non è tanto un codardo. È un debole. Questo è il succo della tanto blasonata
virilità di quel modello patriarcale lì introiettato da Lady Macbeth: la sua
successiva tirannia esprime una forza che viene dalla debolezza. Una forza che
non viene dalla solidità dello Spirito, bensì dalla reazione alle proprie paure
e folli paranoie. Messo sempre più alle strette, non fa altro che imprigionare,
mettere a tacere il dissenso, ergere muri, soffocare col sangue. Un castello di
congiure e sotterfugi impossibile da reggere a lungo.

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Quale
contrasto con la forza della coesione dimostrata dall’esercito messo su in
quattro e quattr’otto da Malcolm e gli altri: “i custodi del retto agire”, i
rappresentanti di quel patriarcato che non si piega al volere del tiranno e
difende i buoni valori, coloro che non ci stanno a fingere fedeltà per paura di
perdere privilegi o la vita. Essi pongono fine all’incubo non con complicate
strategie militari, non con altri sotterfugi, bensì con uno stratagemma
fantasioso, sfruttando inconsciamente la folle paranoia del tiranno.  La mente di Macbeth, memore delle parole
delle Sorelle Fatali, era rassicurata:

“(…)‘Fear not till Birnan Wood

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Do come to Dunsinanè”

“(…) ‘Timori non avere
finchè il bosco di Birnan

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Non arrivi a
Dunsinanè”

(Macbeth V, 5 44-45)

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Ma
alla fine l’esercito si fa bosco ed il bosco si muove verso il castello.

Su
ordine di Malcolm, il futuro re che ristabilirà l’ordine sociale dopo la
tirannia, ognuno dei soldati si mimetizza e procede silenziosamente portando
innanzi un ramo.

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Nè
il glaciale cinismo di lady Macbeth – che giungerà a suicidarsi inseguita dalla
propria coscienza – nè la tirannia del barone avranno la meglio.

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La
disumanizzazione delle nature – sia che alberghino in corpi femminili che in
corpi maschili – alla lunga implode, condannata all’autodistruzione.

Nei
corsi e nei ricorsi della Storia, la luce torna e ritorna a riscattarsi
ciclicamente sul buio.

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Non
ci resta che raccogliere un ramo.

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NOTE

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[1] V. Woolf, A Room of One’s Own, (1928), Penguin,
London, 2004, p. 114.

[2]
Traduzione mia, così come le successive. La traduzione non tiene conto della
metrica.

[3] Fra queste il dipinto
del 1783 

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Fonte: [url”https://criticaimpura.wordpress.com/2017/04/30/lady-macbeth-la-brama-di-potere-non-ha-sesso-un-saggio-critico-di-leni-remedios/”]https://criticaimpura.wordpress.com/2017/04/30/lady-macbeth-la-brama-di-potere-non-ha-sesso-un-saggio-critico-di-leni-remedios/[/url].

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