di Marco Nicastro
Riceviamo e proponiamo ai lettori di Megachip il seguente articolo di Marco Nicastro sul tema della violenza e della comunicazione di questa all’opinione pubblica da parte dei media. L’articolo è uscito il 3 maggio scorso sul magazine POL.it – Psychiatry on line Italia. Ringraziamo l’autore per avercelo segnalato. Buona lettura. (pfdi)
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È ormai stancante per me tornare su questo argomento, già affrontato in un altro articolo uscito tempo su POL.it – Psychiatry on line Italia. Capita spesso che gli appelli delle persone più informate e con intenzioni serie, lontane dal desiderio di visibilità mediatica, rimangano inascoltati. Il problema su cui ancora una volta vorrei soffermarmi è quello della violenza e della comunicazione di questa all’opinione pubblica da parte dei media. Sentiamo abbastanza spesso ormai notizie di omicidi, suicidi, stragi familiari, fino alle più fisicamente lontane, ma non meno coinvolgenti da un punto di vista emotivo, stragi terroristiche o di guerra.
La sensazione mia, ma credo sia condivisibile anche da altri (almeno da quello che mi capita spesso di sentire parlando con le persone), è di oppressione dinnanzi a queste notizie, e anche della sensazione che i fatti su cui vertono sia numericamente sempre più rilevanti. Dubito che si tratti di una semplice impressione soggettiva; poco importa dal mio punto di vista, perché se fosse anche solo un’impressione soggettiva di un’accresciuta violenza nella nostra società, un’impressione comunque diffusa e forte, questa non potrebbe poi non avere conseguenze effettive sulla vita del singolo e di molti. Infatti, tanto più una persona o un gruppo di persone si sente attivato e coinvolto emotivamente in qualcosa, anche se poi magari non è effettivamente così, tanto più sarà incline a prendere certe decisioni o a mettere in atto certi comportamenti in risposta. Quello che voglio dire è innanzitutto che le percezioni soggettive devono essere tenute in considerazione come i dati di fatto, perché c’è sempre una quota di realtà che deriva dalla nostra specifica interpretazione soggettiva e non c’è quasi nulla, nella vita dei singoli e delle popolazioni, ad essere essenzialmente oggettivo.
Nella creazione di una certa impressione soggettiva sui fenomeni reali un grosso contributo viene dato certamente dai mezzi di informazione, in particolare da quelli digitali come i vari programmi informativi che passano via radio o tv, i quali hanno un grande potere di influenzamento sia perché basati sulla velocità e l’immediatezza della notizia, specie se corroborata da audio e immagini dell’accaduto che ne aumentano esponenzialmente la presa sullo spettatore, sia perché essendo tendenzialmente superficiali sono veloci e facili da comprendere per un’ampia platea di persone.
Già nel 2008 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha emanato delle importantissime Linee guida per i giornalisti, dal titolo “La prevenzione del Suicidio: suggerimenti per i professionisti dei media“. Il motivo della redazione del documento era che, sulla base delle evidenze che si erano accumulate nel tempo circa la strettissima correlazione tra notizie di suicidi e numero effettivi di suicidi nella popolazione generale a seguito di tali notizie, si ritenne ineludibile dare dei consigli che potessero guidare i mezzi di informazione a svolgere nel modo più adeguato il proprio compito (cioè quello di dare le notizie) negli specifici casi in cui si parlava di persone che si toglievano o provavano a togliersi la vita. Pareva, infatti, che alcuni elementi che caratterizzavano le notizie di suicidi potessero paradossalmente aumentare il rischio di suicidio nella popolazione che riceveva la notizia, piuttosto che prevenirlo. Le linee guida dovevano quindi servire da un lato a garantire l’attività giornalistica e il diritto di informazione, tutelando però maggiormente il diritto alla sicurezza e all’incolumità (il diritto alla salute) dei membri di una società, specie di quelli in condizione di maggiore fragilità.
Il documento in questione, in effetti, recita: «I fattori che contribuiscono al suicidio e alla sua prevenzione sono complessi e non pienamente compresi, ciò nonostante esiste una solida evidenza che definisce il ruolo significativo dei media. Da un lato, soprattutto se la copertura è estesa, prominente, sensazionalista e/o descrive in modo esplicito il metodo di suicidio, i mezzi di comunicazione possono essere causa di comportamenti imitativi. D’altra parte un giornalismo responsabile può servire ad educare il pubblico sull’argomento e può incoraggiare le persone a rischio nel cercare aiuto» (p. 7, corsivo mio).
Ancora più interessante è la considerazione, supportata da diverse revisioni sistematiche di studi condotte negli anni, che le notizie di suicidio diffuse dai media inducono imitazione in chi le riceve, in modo direttamente proporzionale – come viene esplicitato qualche riga più avanti nel documento – alla frequenza con cui viene data la notizia, alla spettacolarità dell’evento in sé o del modo in cui viene presentato, alla somiglianza in termini di condizioni di vita tra chi si è suicidato e gli spettatori di turno e, infine, alle caratteristiche stesse di questi, in particolare se si tratta di persone che si trovano in condizione di particolare fragilità psichica e/o esistenziale. Vengono quindi date indicazioni ai mezzi di informazione per un’attività corretta ed etica, cioè rispettosa e consapevole degli effetti che tali notizie possono avere sulle persone e della necessità di rivedere, almeno parzialmente, il diritto ad informare sulla base di ragioni di salute e benessere della popolazione. Una delle più importanti è quella di non accrescere la visibilità del fatto (ad esempio usando un linguaggio ad effetto o dandogli un posto di primo piano nel giornale, televisivo o cartaceo che sia) né di ridurre la complessità dell’evento-suicidio, sempre plurifattoriale come in genere avviene per i comportamenti umani, ad un singolo fattore (una delusione d’amore, problemi economici, malattie ecc).
Secondo il documento dell’OMS l’uso del linguaggio ha un ruolo rilevante in questo processo di induzione: i media dovrebbero perciò evitare di qualificare positivamente il gesto, anche inavvertitamente; non esplicitare i dettagli dei metodi e dei luoghi in cui si è verificato il suicidio; non ripetere troppe volte il termine “suicidio”; non associarlo a quello di un personaggio famoso (pp. 8-10).
Inoltre, tali raccomandazioni sono da riferirsi sia alle notizie diffuse dai mezzi di informazione tradizionali (radio, giornali televisivi e cartacei) sia a quelle presenti sul web, sia, cosa interessante, ai programmi televisivi che raccontavano storie di suicidi anche di gente comune. Sebbene il documento si riferisca specificamente al suicidio, altri dati sono stati raccolti nel tempo da numerosi studi relativamente all’effetto che l’esposizione alla violenza eterodiretta attraverso i video (programmi televisivi, videogiochi ecc.) ha sul benessere emotivo delle persone. La riflessione che faccio in queste righe può quindi essere estesa agli effetti delle notizie di violenza in generale e non solamente a quella autodiretta tipica dei suicidi.
Volendo andare un po’ più a fondo alla questione, possiamo dire che ciò che le raccomandazioni dell’OMS non spiegano, riportando solo dati statistici pur molto significativi, è la possibile causa (o concausa) di questo chiaro effetto di emulazione. In altre parole: dato per assodato l’aumento del numero di suicidi in una certa area geografica nei periodi in cui l’informazione batte particolarmente su quel tipo di notizie, e dati alcuni elementi del modo in cui viene fornita l’informazione (ripetitività, spettacolarizzazione, immagini realistiche, abbondanza di dettagli ecc.) che sembrano contribuire particolarmente a questo effetto, cos’è che lo determina nelle mente dei singoli o collettiva, una volta ricevuta la comunicazione dai media?
Ebbene, a tal proposito, sulla base anche di dati emersi da vari studi – molti dei quali citati nel libro di Manfred Spitzer Demenza digitale (2013) – l’emulazione è dovuta innanzitutto ad un effetto di “assuefazione” affettiva alla violenza, una normalizzazione che comporta un abbassamento delle nostre difese psichiche verso gli impulsi più distruttivi, non ritenuti più troppo pericolosi; in secondo luogo, l’emulazione della violenza è riconducibile ad un effetto di identificazione dello spettatore con il modello che osserva.
Bisogna infatti tenere presente che i nostri impulsi, sessuali e aggressivi, specie nelle loro manifestazioni più dirette, vengono solitamente inibiti da meccanismi mentali – i cosiddetti meccanismi di difesa – che ne impediscono l’espressione in atto almeno nelle forme più primitive, cioè quelle meno mature da un punto di vista affettivo (ma anche, se vogliamo, evolutivo). Questi meccanismi normalmente si sviluppano nel corso della crescita dell’individuo grazie ai normali apporti educativi ricevuti (familiari ed extrafamiliari), cosa che ci permette di dire che, fortunatamente, la maggior parte degli individui li possiedono in forme tali da garantire loro la sopravvivenza e una vita sufficientemente adeguata nella comunità umana. Tuttavia alcune persone non sono così fortunate nelle loro vicissitudini relazionali e di vita (hanno subito traumi, lutti precoci, abbandoni, trascuratezze gravi, violenze ecc.) e presenteranno difficoltà psichiche di varia entità e natura tali da compromettere seriamente il funzionamento di questi meccanismi di controllo degli affetti e dei comportamenti. Inoltre, anche i bambini e gli adolescenti non dispongono normalmente, per ragioni questa volta legate alla loro immaturità psichica, di un apparato di difesa sufficientemente strutturato, e per questo rientrano a buon diritto anche loro nella categoria degli esseri umani particolarmente esposti agli effetti della violenza assistita.
Anche l’identificazione, del resto, è un processo mentale normale (a volte consapevole, altre no) di cui tutti disponiamo per far nostri aspetti della realtà esterna e in particolare degli altri esseri umani che ci coinvolgono emotivamente o diventano rilevanti per noi. Tramite questo meccanismo la nostra identià si consolida o si trasforma: possiamo apprendere comportamenti nuovi e valori cui riferirci, adattarci nel tempo più facilmente a certe circostanze, rafforzare la nostra autostima. Tuttavia, pur essendo normali e presenti in tutti, i vari meccanismi di identificazione sono più attivi nei soggetti che hanno un’identità fragile o poco definita, a causa di disturbi psichici, di blocchi evolutivi o per un semplice motivo di crescita (come, appunto, nel caso dei bambini e degli adolescenti). Tali individui, proprio per questi motivi, saranno più inclini a identificarsi con modelli umani di comportamenti e stili di vita che hanno modo di osservare ripetutamente[1]. Per questi due motivi quindi – l’indebolimento dei meccanismi di difesa psichici e l’identificazione – la ripetizione mediatica di notizie di violenza genera, specie in particolari categorie di individui, quel rischio di emulazione che i dati statistici da decenni hanno evidenziato con chiarezza.
Assieme alle raccomandazioni dell’OMS, e a queste osservazioni di carattere più squisitamente psicologico, ci sarebbe poi da tenere presente che il codice deontologico dei giornalisti[2] prevede che il diritto di informazione, sancito costituzionalmente, debba rispondere a motivi di pubblico interesse (art. 2, comma a); rispettare i diritti fondamentali delle persone, compreso quello alla privacy (comma b); porre particolare attenzione alla tutela dei minori – come previsto dalla Carta di Treviso condivisa anche dall’Ordine Nazionale dei Giornalisti – al fine di difendere la loro integrità psico-fisica dagli effetti di comunicazioni multimediali potenzialmente lesive.
Quindi il diritto di informazione, già secondo la legge e lo stesso codice deontologico dei giornalisti, dovrebbe fermarsi dinnanzi al rispetto della personalità e del benessere psico-fisico collettivo o dei singoli (specie, si può capire, se minorenni). Tuttavia lo stillicidio quasi quotidiano di questo tipo di notizie, e le modalità in cui solitamente vengono date, dimostrano che questa norma molto spesso non viene rispettata. I media sguazzano abitualmente nelle notizie più torbide (casi di cronaca nera, omicidi-suicidi in famiglia, stragi di guerra ecc.) cui viene dato per giorni assoluto rilievo. Il lessico non è curato, come invece consiglierebbero le Linee guida dell’OMS, in modo da depotenziarne l’effetto e vengono spesso usate immagini che riprendono le scene dei crimini (o le ricostruiscono fedelmente) lasciando poco spazio all’immaginazione dello spettatore.
Il guaio maggiore, a mio avviso, è che tali notizie vengono ripetute per giorni, spesso solo per aggiungere dettagli insignificanti. È chiaro che dinnanzi all’infrazione delle norme di tutela succitate, l’effetto emulativo relativamente ai comportamenti auto ed eterodistruttivi nella popolazione generale rischia di essere potenziato notevolmente, tanto da poter ragionevolmente pensare che la società stia in effetti, specie con la diffusione sempre più capillare dei media digitali, alimentando la violenza in sé stessa.
Dinnanzi a tali evidenze ritengo fermamente, da persona che lavora nel campo della salute mentale, che non si dovrebbe dare spazio a queste notizie, quantomeno nei media a diffusione nazionale o, in subordine, concedergli solo uno spazio minimo, riportando quindi le notizie di cronaca nera in modo molto sintetico. Sarebbe già un grande passo in avanti se fossero seguite alla lettera le indicazioni dell’OMS prima citate, ma si può fare ancora di più, evitando possibili ambiguità e mezze misure, con l’eliminazione completa di questo tipo di notizie dai giornali e dai telegiornali a più ampia diffusione.
Il diritto di informazione è un diritto fondamentale in una democrazia, in quanto permette alle persone di accedere a notizie che si suppongono possano ampliare la loro capacità di agire, di pensare, di leggere la realtà. Che vantaggio ne abbiamo dal sapere che un padre ha ammazzato i suoi figli piccoli e poi si è suicidato, o che un marito ha accoltellato la moglie perché voleva lasciarlo? Io credo nessuna. Anzi, oltre che l’orrore, aumenta esponenzialmente anche il senso di impotenza collettivo, dinnanzi a questioni che possono essere affrontate solo attraverso iniziative sociosanitarie e legislative forti.
Tuttavia le notizie relative alla violenza tra gli esseri umani non sono fondamentali per leggere correttamente la realtà, anzi, come evidenziano i dati, favoriscono nelle persone, specie le più fragili, comportamenti emulativi, desensibilizzazione alla violenza e stati d’animo pericolosi, ledendo, cosa non irrilevante, anche il diritto alla riservatezza e al rispetto del dolore delle famiglie e degli individui coinvolti in quelle drammatiche vicende.
In quest’epoca di comunicazione esasperata e di saturazione mediatica della vita collettiva, la responsabilità dei media nella diffusione della violenza tra le persone, o di un’altrettanto deleteria e distorta percezione di pericolosità della nostra vita sociale, non può più essere considerata solo un’ipotesi tra le altre, quanto piuttosto una drammatica e intollerabile certezza.
(3 maggio 2017)
Note
[1] Purtroppo i soggetti in condizione di fragilità psichica sono molto più numerosi di quanto possano dirci i dati sui ricoveri nei reparti di psichiatria o sull’utenza dei servizi pubblici e privati per la salute mentale. Un numero non irrilevante di individui, apparentemente ben adattati, presenta importanti deficit nella capacità di controllare i propri impulsi o di esercitare la propria capacità di giudizio, cioè di valutare le conseguenze delle proprie azioni, in condizioni di stress emotivo.
[2] Vedi TESTO UNICO DEI DOVERI DEL GIORNALISTA, 27 gennaio 2016 e relativo Allegato 2 (Carta di Treviso).
Link articolo © Marco Nicasto © POL.it – Psychiatry on line Italia.