La ferocia dello struzzo

Le élite occidentali sono spaventate dal declino dell'Occidente che procede a velocità geometrica. Molto spaventate. E lo spavento le rende pericolosissime e arroganti. [Piotr]

La ferocia dello struzzo
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30 Giugno 2018 - 04.42


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di Piotr

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Premessa

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Paul Craig Roberts, nell’articolo che è stato recentemente pubblicato su Megachip ha usato un’espressione significativa: “disconnessione cognitiva”. Questa è una delle patologie del declinante Occidente. Le élite occidentali sono spaventate da questo declino che procede a velocità geometrica. Molto spaventate. E lo spavento le rende pericolosissime e arroganti.

Sorella, quando ha paura è quanto mai tremenda. Almeno oggi, no, non adesso, non ingombrarle il passo!

Così Crisotemide alla sorella Elettra per metterla in guardia dalle “cose tremende” che la madre Clitennestra sta tramando. Ovviamente Elettra ha in disprezzo l’atteggiamento della sorella, la sua paura e la sua sottomissione ai potenti, a chi ha ucciso il loro padre. La tragedia entra nel vivo.

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Le élite occidentali hanno paura. I potenti occidentali hanno paura. Così come Clitennestra ha visto in sogno il proprio futuro e ne ha terrore, lo stesso terrore serpeggia tra le nostre élite, suscitato dal futuro messo davanti ai loro occhi dalle analisi dei loro esperti strateghi. Sono analisi di ciò che succederà, perché le soluzioni alla crisi occidentale in esse non sono contemplate.  Perlomeno, non sono contemplate soluzioni sensate, ma solo forsennate. E anche questo spaventa.

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Non esistono soluzioni sensate per il semplice motivo che è impossibile e criminale cercare di rilanciare il nostro dominio sul mondo. Il dominio di un esiguo numero di esseri umani governati da una microscopica aristocrazia su un mondo di sette miliardi di persone. Un’aristocrazia che ha perso il contatto anche coi propri sudditi diretti. Quale altro sintomo di decadenza  è più chiaro della perdita dell’egemonia, della capacità di attrarre verso i propri interessi chi in quegli interessi ha una parte residuale o nessuna parte?

Decadenza, quindi. Nessun impero è mai sopravvissuto a se stesso. Non ci riuscì l’impero romano, non ci è riuscito quello britannico, non ci riuscirà quello statunitense.

Dobbiamo dire subito due cose.

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Innanzitutto che la fine di un impero non è la fine del mondo. Semmai, con le nuove armi tremende a disposizione dell’umanità, è proprio il tentativo di farlo sopravvivere che oggi potrebbe portare alla fine del mondo. E’ nell’ordine delle possibilità concrete, anche se non credo delle probabilità.

In secondo luogo, gli imperi non sopravvivono a se stessi non per una strana legge storica metafisica e inspiegabile, ma per un motivo che possiamo così condensare: i tentativi di mantenerlo in vita ampliano a dismisura le contraddizioni che lo minano. La fine di un impero è inscritta nella sua potenza, nel suo successo.

L’impero romano, indebolito da centinaia d’anni di espansione, fu distrutto dai barbari che volevano farne parte, non distruggerlo. L’impero romano non era più in grado di riconfigurarsi.

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Quando la crisi dell’impero del libero scambio britannico si approfondì, il cataclisma avvenne perché l’impero non volle cedere il passo e, assieme, perché la crisi britannica si propagava in tutto il mondo capitalistico così che ogni Paese cercava per conto suo di ripristinare le condizioni precedenti. Ma quelle condizioni erano basate proprio sul pre-dominio britannico, che invece era ormai visto – e a ragione! – come un ostacolo. Un paradosso dentro una contraddizione.

John Hobson esortava in tutti i modi Londra a cedere il passo per scongiurare la guerra che poi scoppiò. Ma Londra volle resistere in condizioni sistemiche impossibili e ingovernabili e fu la prima guerra mondiale. Le clausole capestro inflitte dai vincitori ai vinti furono un modo per galleggiare nella crisi non ancora risolta. Gli Stati Uniti, potentissimi ma ancora isolazionisti, non volevano assumersi le proprie “responsabilità capitalistiche” di governo del sistema. Gli UK con la spoliazione della Germania cercavano di tappare i buchi che uno dopo l’altro si aprivano nel sistema di dominio dell’ex opificio e centro finanziario del mondo. Lord Keynes, poi Nobel per l’Economia, le cui idee oggi sono messe  fuori legge dalla norma sul pareggio di bilancio messa in Costituzione da un economista che quel Nobel non vedrà mai, avvertiva che le clausole capestro dei vincitori lastricavano la strada di una nuova guerra mondiale. Le cose quindi si sapevano, c’era chi le capiva, ma la strada venne lo stesso lastricata. E’ un altro caso di disconnessione cognitiva.

Ma la disconnessione cognitiva è il risultato di contraddizioni. In questo caso delle contraddizioni nella coppia sistemica potere politico-potere economico, perché i due vanno sempre a spasso assieme abbracciandosi e litigando. Ancora una volta fu esiziale la nostalgia dei Paesi capitalistici per il libero scambio che era stato garantito da un’egemonia, quella britannica, ormai in crisi e che propagava crisi. Tutti volevano tornare al gold standard, il fulcro economico di quel libero scambio, dimenticandosi che esso era vissuto in un luogo fisico e politico: la City di Londra.  Quindi – lo si capisse o meno – tutti avevano di fatto nostalgia di un’egemonia britannica che nessuno voleva più. E tutti intrapresero politiche monetarie e commerciali nazionaliste col miraggio di poter ripristinare le condizioni precedenti al di fuori della Storia. Il gold standard rimase un miraggio, il libero scambio rimase un miraggio e la competizione economica si trasformò velocemente in competizione tra Stati. Scoppiò la seconda guerra mondiale.

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Allo stesso modo, oggi nemmeno se tutti i Paesi del mondo volessero la prosecuzione dell’impero americano, ciò sarebbe possibile. Gli Stati Uniti hanno voluto la globalizzazione per mantenere il proprio predominio (Kissinger dixit) e la globalizzazione ha minato l’egemonia degli Stati Uniti grazie all’entusiasmo della risposta al loro invito, grazie, ancora una volta, al suo successo.

Un paradosso avvolto in un’antinomia prodotta da contraddizioni. Forse sto esagerando con questo concetto, ma esistono solo tre modi per valutare ciò che sta succedendo:

1) Non sta succedendo nulla e tutto fila liscio.

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2) Le cose vanno molto male e la colpa è di un complotto.

3) Siamo immersi in un caos sistemico frutto delle contraddizioni dei processi di accumulazione e della loro complessificazione.

A proposito della tesi numero 2, ho scoperto un sito che spiega con dovizia di particolari che questo è l’esito di un complotto millenario mondialista dovuto a: giudei, marrani, massoni, calvinisti,  anglosassoni, anti-tradizionalisti, bolscevichi e non ariani vari (e qualcun altro che non mi ricordo più; ah sì, i birrai puritani). Strabiliante! Chi non crede che la tesi numero 3 fornisca la cornice analitica più adatta, può andare direttamente su quel sito. Troverà la combinazione di complottardi che più gli si confà.

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Da anni auto-ingorgato in una sempre più forsennata propaganda di guerra, dove tra le altre utili scemenze, chiunque non sia un lacchè di Washington è tacciato di essere un “nuovo Hitler” (azzerando così la  credibilità dell’antifascismo serio e ponderato, non quello fatto da strilli e amarcord, da frasi fatte, da concetti per l’appunto disconnessi dalla realtà, che invece è quanto va di moda in un “popolo di sinistra” che avendo perso i punti di riferimento reali guarda solo le fotografie del passato e reagisce in maniera meccanica), da anni immerso nell’esercizio di espungere la concretezza e la complessità del resto del mondo dal proprio orizzonte cognitivo, l’Occidente guarda la sua decadenza storica in una totale confusione d’idee, incapace di trovare una via di sbocco se non quella di assalire chiunque si muova, come faceva il tirannosauro rex.

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Lo stato di cose che spaventa l’aristocrazia, dalla popolazione “normale”, cioè dai ceti dominati, è vissuto in una disparità di modi, di timori e preoccupazioni, spesso non coerenti e che ovviamente hanno molto a che fare con l’essere sociale. Ma il pensiero contraddittorio della popolazione “normale” non è una patologia endemica al “popolo”, cioè una patologia “populista”, bensì è frutto di decenni e decenni di inganni delle idee dominanti.

Ci dissero che la globalizzazione avrebbe portato la pace nel mondo, avrebbe ridotto la differenza tra ricchi e poveri nelle nazioni e tra le nazioni e aperto la possibilità di un futuro migliore. Un futuro “desiderante” per dirla con la terminologia di chi queste cose ha tradotto en marxiste.

Dove la vedete la pace nel mondo? Dove vedete la riduzione delle disuguaglianze? Le statistiche dicono che mai le ricchezze sono state così polarizzate dai tempi dei faraoni in poi. Gli stati più ricchi e armati del mondo si dilettano da decenni a fare la guerra a quelli più poveri e vulnerabili. Milioni di persone sono state talmente baciate dal “progresso” che rischiano la vita pur di venire da noi, in parte ingannate esse stesse da una propaganda che nasconde minuziosamente la verità, in parte perché la nostra rapinosità e aggressività internazionale non lascia loro altra scelta, se non quella di un viaggio disperato e un doloroso sradicamento. Qui verranno accolti col cuore in mano come servi della gleba da una varietà di strangolatori e da un crescente razzismo frutto anch’esso  degli inganni delle idee dominanti.

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Se da una parte l’ideologia dell’accoglienza è egemonizzata (e questo è un fatto atroce) da miliardari senza scrupoli la cui fortuna è complice economica e politica dello stato di disperazione in cui versa chi cerca di venire in Europa lasciando ciò che gli è più caro alle spalle, dall’altra parte abbiamo altri complici di questo stato di cose che a quell’ideologia invece si contrappongono. Ma non si contrappongono direttamente agli schiavisti, bensì attraverso il rifiuto degli schiavi. Che sono esseri umani, non metafore per qualcos’altro. Col risultato di propagandare un’ostilità generale verso chi vede l’accoglienza come un dovere umano, lasciando gli ipocriti che la usano come arma per i propri interessi solo sullo sfondo. Un danno culturale e politico, perché l’accoglienza, come tutto ciò che concerne le dinamiche umane, ha due facce, non una sola.

Il nazionalismo da piccola patria padana è cresciuto e si è sviluppato in un nazionalismo da piccola patria italiana. Non cambia molto. Qui bisogna fare attenzione a non cedere alla tentazione di prendere le parti del ministro degli Interni come reazione all’insopportabile ipocrisia e ai piani criminali di quella élite internazionale che lo critica e lo contrasta.

La sua politica è tutta interna alle contraddizioni di questa crisi e ai suoi protagonisti più aggressivi. Forse il decisionismo autoritario e cinico del ministro degli Interni risolverà momentaneamente qualche punto di tensione (aprendone altri). Forse calmerà qualche situazione locale. Forse smuoverà un’Europa ingessata nella propria meschina ottusità (e questo potrebbe essere l’unico fatto con conseguenze positive). Ma non fornirà soluzioni, perché, diciamocela tutta, nonostante gli esecrabili piani nazionicidi della ditta Soros & Affini, i problemi strutturali della nostra Italia in via di invecchiamento e di spopolamento non dipendono dai 650.000 immigrati in 4 anni, che sono arrivati nel nostro Paese e nemmeno vorrebbero rimanerci se non fosse che vengono respinti con violenza dai nostri ipocriti “partner” europei, tra i quali spicca il vomitevole Macron (preoccupato che la questione migranti metta più che altro i bastoni tra le ruote al suo piano di sostituirsi all’Italia come partner privilegiato e punto di riferimento della Libia – e se per quello, anche dell’Egitto)[1].

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Il nostro ministro degli Interni non può nascondere dietro i migranti gli esiti della politica neoliberista sociocida, economicida e speranzicida che il suo partito ha sostenuto in Italia e in Europa. 

Con quale ampiezze di vedute opera il ministro degli Interni?

Il ministro degli Interni ama molto Trump? Bene, che dirà ai coltivatori italiani, solo per dirne una, quando saremo invasi dai prodotti agroalimentari statunitensi, sussidiati, ormonizzati, pesticizzati e geneticamente modificati? Altro che invasione di clandestini! E altro che biologico e chilometro zero! Avremo nostalgia di quando i giovani africani, liberi di immigrare da noi per essere sfruttati in condizioni esecrabili, raccoglievano i nostri bei pomodori gagliardamente tricolori.

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I problemi da quel lato semmai verranno dai prossimi due miliardi di giovani africani che saranno pressati dalla nostra rapina delle loro risorse nazionali e dai conflitti che scoppieranno per l’accaparramento di quelle risorse (costruiremo un Mose per fermare questa marea?). Allora sì che per noi sarà finita la pacchia. Garantito al limone se continueremo con la dissennata, feroce e spudorata politica che l’Occidente pratica da centinaia di anni.

Niente risposte, e men che meno di lunga durata, dal nazionalismo padano-italico, quindi. In compenso i danni, di civiltà e mentalità, rischiano di essere duraturi.

Questo nazionalismo che qualcuno vede come una possibilità di ritorno alla sovranità nazionale, scippata da centri decisionali che operano fuori dal raggio d’azione di qualsiasi controllo democratico, è la reazione alle fandonie globaliste che nei decenni scorsi hanno azzerato la capacità di critica di una sinistra che quelle fandonie ha accettato una ad una mentre i suoi leader diventavano gli interpreti più entusiasti della politica globalista-finanziaria neoliberista finalizzata alla rapina internazionale e al cannibalismo nazionale (ripeto ancora una volta per i più sordi: politica sperimentata per la prima volta nel Cile di Pinochet!).

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Gridare e fare gli scongiuri contro chi cavalca il disinganno non risolve nulla se non si è in grado per lo meno di capire ciò che sta succedendo e di abbozzare una soluzione che guardi in avanti e non all’indietro. Ma la sinistra, ahimè, si strugge invece di nostalgia proprio per la causa del male, si strugge di nostalgia cioè per la favola bella che ieri l’illuse e ancora l’illude. E questa nostalgia la sconnette dalla realtà (cosa che chiama “attaccamento ai valori”).

 

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Come abbiamo accennato, all’inizio degli anni Novanta il dottor Henry Kissinger, uno dei più lucidi, ancorché criminale, strateghi statunitensi, aveva tranquillamente ammesso che “globalizzazione è solo un altro termine per predominio americano”. Già allora i sintomi della disconnessione facevano capolino, perché quasi nessuno fece caso a quel che diceva il dottor Kissinger. E non ci fece caso perché turbava i sogni che, tra una critica e l’altra, venivano alimentati dal mito della globalizzazione (che per qualche misterioso motivo in molti separavano dalla finanziarizzazione, lei sì invece cattivissima). Tra una critica e l’altra si preferiva vedere nella globalizzazione l’attuazione delle “previsioni” di Marx (previsioni di 150 anni prima, manco fosse Nostradamus!). E sull’onda di questo abbaglio la critica intellettuale alla “globalizzazione capitalista” (concetto che comunque zoppicava un bel po’ concettualmente e storicamente) assunse le categorie e le modalità di pensiero del suo avversario, confermando così che le idee dominanti sono in ogni epoca quelle della classe dominante. E dagli intellettuali, con le loro casse di risonanza, discesero giù per li rami, fino a terra.

All’inizio del XX secolo lo stesso errore era stato fatto dal Karl Kautsky. Un errore denunciato senza mezzi termini da Lenin e che doveva avere conseguenze disastrose. In un battibaleno l’avvento dell’ultraimperialismo venne anticipato dallo scoppio della prima delle due guerre mondiali che dovevano risolvere la precedente crisi sistemica innalzando gli USA al ruolo di nuova potenza dominante. Cento milioni di morti in trent’anni!

Alla fine del XX secolo l’errore fu ripetuto, da personalità di minore caratura di Kautsky. Nessun Lenin però era all’orizzonte. Solo pochissimi lucidi studiosi totalmente snobbati dalla sinistra, a parte pochi casi men che minoritari, come Samir Amin o come Giovanni Arrighi che non vedevano nella finanziarizzazione-globalizzazione un avverarsi delle “previsioni” di Marx, bensì una riedizione della Belle Époque anticipatrice di un caos sistemico costellato da feroci guerre. Guerre, avvisava Arrighi, anche di tipo nuovo, condotte sempre più spesso da eserciti sub-nazionali come coadiuvanti delle potenze in conflitto. Avete in mente cosa è successo dopo  le Torri Gemelle, a proposito di feroci guerre? Avete in mente l’Isis a proposito di eserciti sub-nazionali?

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Non può esserci una soluzione a sinistra e progressista se la sinistra e il pensiero progressista si inseriscono organicamente nel pensiero del nucleo interno e dominante del capitalismo (come Pasolini aveva già denunciato a suo tempo, caro Wu Ming 1. È giusto contrastare il tentativo della destra di appropriarsi di Pasolini – o di Gramsci – ma alcune cose Pasolini le aveva veramente dette molto chiaramente – si veda ad esempio qui. Il problema semmai è proprio il gramsciano “riappropriarsi” delle nostre parole d’ordine).

 

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Penso che al contrario del pensiero comunista-emancipatorio quello di sinistra-progressista abbia quell’esito nefasto. Ma è un tema complesso che qui non può essere svolto. Visto invece che abbiamo parlato di Isis, vediamo cosa sta combinando nel subcontinente indiano. Facile profeta, già alcuni anni fa avevo scritto che l’Isis sarebbe stato utilizzato in vari Paesi eurasiatici e nominavo in specifico l’India e il Pakistan. Ebbene pochi giorni fa c’è stato l’ennesimo scontro nel Kashmir tra le forze di sicurezza indiane e militanti affiliati all’Isis. E’ da tempo che si parla di questa presenza sulla stampa asiatica, almeno da un anno.

Chi segue un po’ le cose del Subcontinente, sa che appena India e Pakistan hanno tentato un riavvicinamento, subito c’è stato un attentato sanguinoso. Perché? Astraiamoci per un attimo dalla questione specifica del Kashmir, sulla quale Arundhati Roy e i suoi coautori hanno scritto pagine importanti (Tariq Ali, Arundhati Roy, Pankaj Mishra: Kashmir: The Case for Freedom. Verso, 2011). Per prima cosa, l’India, nonostante le ambiguità di Narendra Modi, è storicamente alleata alla Russia mentre il Pakistan è alleato storicamente con la Cina e con gli USA. In una congiuntura storica che vede però Russia e Cina sempre più vicine c’è il grande rischio che un avvicinamento tra i due Paesi del subcontinente significhi per gli Stati Uniti la perdita di un importantissimo alleato e la fine delle speranze di portare anche l’India nel proprio campo. Ricordiamoci sempre di una cosa: l’Occidente è in declino economico e demografico mentre il motore mondiale è in Asia. E Pakistan e India stanno in Asia e lo sanno benissimo. Per seconda cosa, che effetto ci fa a noi Occidentali l’avvicinamento tra una potenza atomica con 193 milioni di abitanti e un’altra con 1.324 milioni di abitanti? Ci fa un po’ di paura, no? E se queste due potenze, inoltre, aderissero infine insieme a una stessa associazione di nazioni che conta già un miliardo e mezzo di persone, che effetto ci farebbe?

Beh, Kashmir o non Kashmir, attentati o non attentati, è proprio quanto è successo esattamente un anno fa: Pakistan e India sono state ufficialmente associate all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, SCO, il 40% della popolazione mondiale e il 20% del PIL mondiale, in crescita.

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Di sfuggita, l’associazione dell’India non è una cosina pro-forma ma era uno degli obiettivi strategici russi, una vera fissa geopolitica dell’ex premier ed ex ministro degli Esteri, Yevgeny Primakov, scomparso tre anni fa. Missione compiuta.

Ora, qui c’è un altro notevole esempio della disconnessione occidentale dalla realtà.

Pochi giorni fa le due nuove associate hanno partecipato a Qingdao  in Cina al loro primo vertice SCO. Non solo, entrambe in agosto parteciperanno in Russia ad una esercitazione militare congiunta. Vi rendete conto dell’enormità dell’evento? Queste due nazioni che erano destinate a spararsi nel Kashmir condurranno insieme un’esercitazione militare, ufficialmente “contro il terrorismo”, sotto il patronaggio di Mosca.

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Insomma, tutti gli equilibri geopolitici stanno per essere sconvolti. Ne avete avuto notizia? Sono andato a vedere su la Repubblica, il Corriere, il New York Times, il Washington Post, il Guardian, sul sito RAI. O ci vedo male, oppure di questa svolta drammatica nelle relazioni internazionali non si vuole parlare. Turberebbe la favola bella che ieri ci illuse e che oggi ancora ci illude.

Finché il Ministero della Verità non li metterà in riga, ne parlano invece siti specializzati nella difesa od osservatori indipendenti e attenti, come, già nel 2016, Pierluigi Fagan.

Ovviamente le testate asiatiche non si sono lasciate sfuggire le notizie. Ma quelli sono Asiatici mica Occidentali fighi come noi!

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E da domenica scorsa si aggiunge, con ogni probabilità, un tassello al puzzle.

Erdoğan ha vinto di nuovo. Una vittoria personale, perché il suo partito AKP ha perso la maggioranza dei seggi. E quindi cosa farà? Si alleerà col partito di estrema destra di Azione Nazionalista, MHP. Cosa succederà? La distanza tra Nato e Turchia aumenterà, la distanza tra Europa e Turchia aumenterà, l’ostilità verso i curdi del PKK-PYD-YPG aumenterà e indebolirà in Siria la loro alleanza vassalla con gli USA, mentre la distanza con l’Organizzazione di Shanghai diminuirà. Tutte cose positive per il mantenimento della pace nel mondo e per arginare il sanguinario imperialismo occidentale, spaventato e feroce.

Ma a che prezzo? Con quali prospettive nel lungo periodo? Con quale progetto?

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Recitare il “vade retro” qui serve ancora di meno che con il ministro degli Interni.

 

Conclusione

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Ha così tanto torto Paul Craig Roberts quando parla di “presstitute”? Ditemi un po’: i ministeri degli Esteri e della Difesa russi affermano che da varie fonti indipendenti si è venuto a sapere di un possibile prossimo attacco chimico da parte dei militanti in Siria. Orbene, comunque si veda il conflitto siriano questo è uno scoop giornalistico, non è vero? Invece zitti mosca! Perché il possibile attacco chimico è una mossa coordinata coi protettori occidentali di questi militanti, che sono anche quelli che “at the end of the day”, come dicono da qualche parte, pagano le testate (e spesso i singoli giornalisti) e decidono cosa dire e cosa non dire (si veda ad esempio il noto caso di Udo Ulfkotte).

A proposito, rispetto a questi sviluppi siriani c’è un colpo di scena: l’ambasciata americana ad Amman pochi giorni fa ha avvertito i militanti nel Sud della Siria che non devono contare su un intervento degli USA e dei suoi alleati per fronteggiare il prossimo attacco dell’Esercito Arabo Siriano e che è meglio che decidano “in base ai loro interessi e a quello delle loro famiglie” (che a me pare un invito a deporre le armi, così come proposto da Damasco per evitare spargimenti di sangue).

E’ un ottimo avvertimento. Tuttavia non sarebbe la prima volta che CIA e Pentagono smentiscono coi fatti (al limite dell’ammutinamento) le parole del Dipartimento di Stato (quando c’era John Kerry a Foggy Bottom, succedeva metodicamente, tanto che il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, dovette dichiarare che i suoi “partner” Obama e Kerry non erano in grado di far rispettare gli accordi che prendevano). Ma tra poco Trump e Putin si incontreranno, per lo sgomento dei neocons e dei liberals che già parlano dell’incontro tra “due dittatori”. Così mentre i “buoni” soffiano sul fuoco della guerra il “cattivo” sembra che cerchi di evitarla. Nemmeno questa sarebbe  una situazione inedita nella storia americana.

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Sarà proprio così? Trump sembra spesso voler sgattaiolare dalla gabbia che il Deep State gli ha costruito attorno. A volte ho quasi la sensazione che cerchi di utilizzarla per i propri scopi. E’ solo un’impressione o quella parte di aristocrazia statunitense che sta dietro di lui cerca di fare i giochi illusionistici per ingannare neocons e liberals? Non lo so. Però ciò che sta succedendo mi conferma un po’ il sospetto che ho da tempo, cioè che i peggiori di tutti in questo momento ce li abbiamo proprio nel nostro continente e sono la Francia e gli UK.

Se il mio sospetto è giusto, allora gli UK è meglio averli fuori dall’Europa Unita e non ha senso stare con la Francia contro la Germania. Cosa che scompiglia le strategie di difesa dall’Euro, anche  quella che sembra la più sensata, cioè la creazione di un’Europa Mediterranea distinta (ma non separata) dall’area d’influenza tedesca[2]. Ma le contraddizioni ci sono, non è salutare non vederle solo perché non fanno comodo. In più, anche Trump vuole che l’Italia si contrapponga alla Germania e non perché ha a cuore la sovranità del nostro Paese[3]. Un “sovranismo” targato Lega non può essere che una sovranità molto limitata targata USA.

Nel caos sistemico le contraddizioni diventano un casino. Un gran casino.

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Le soluzioni ci possono essere, nulla è scontato, nulla è ineluttabile. Ma ne devono tenere conto.

 

Note

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[1] Dalla “crisi dei subprime” la forbice negativa tra natalità e mortalità si sta allargando in modo inesorabile: la prima va a picco mentre la seconda prende il volo. Non succedeva dai tempi della I Guerra Mondiale e della Spagnola. Se ne può dedurre che l’austerity abbia un ruolo importante nelle dinamiche demografiche negative del nostro Paese. Tuttavia dopo la II Guerra Mondiale la natalità in Italia era già iniziata a calare, precisamente a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, cioè dal culmine del boom economico e la mortalità ha iniziato a superare la natalità dai primissimi anni Novanta in concomitanza con l’avvio del nuovo corso neoliberista. Ovviamente le condizioni economiche sono solo una delle componenti della spiegazione di un fenomeno complesso come quello demografico, ma è una componente da non sottovalutare. Quel che si vuole qui sottolineare è che le tesi che sostengono che in un’Italia “indipendente” economia e demografia verrebbero rilanciate ripristinando le condizioni di crescita pre-Euro così che non ci sarebbe bisogno della “sostituzione etnica” sorosiana, non tengono conto di dinamiche di più lungo periodo. Similmente è necessario tenere presente che il successo del “keynesismo” del secondo dopoguerra non era indipendente dalle condizioni storiche di allora e che quelle condizioni non si possono ripetere. Occorrono altre idee che a mio modo di vedere devono far perno su alcuni concetti, o meglio pratiche, chiave, come “programmazione” e “democrazia” (le sole, tra l’altro, che possono tener conto della fondamentale variabile ecologica).

[2] Una volta ridefinita su pressione italiana la responsabilità collettiva della UE per l’accoglienza dei migranti, un divorzio tra un’Europa Mediterranea e una “tedesca” (e quella di Visegrád da che parte starebbe?) rimetterebbe di nuovo tutto in questione, lasciando di nuovo da soli gli stati rivieraschi. Non parliamo poi di un’uscita unilaterale dall’Erozona. La monomania securitaria del ministro degli Interni avrà quindi come effetto quello di indebolire gli argomenti italiani in altri dossier europei.

[3] Non penso che l’ostilità di Trump verso la Germania risieda nel timore che Berlino intenda  marciare geopoliticamente verso Est. Sicuramente i due gasdotti Nord Stream sono indigesti agli USA, gli interscambi russo-tedeschi pure, ma la Merkel è una fedele funzionaria degli Stati Uniti e della Nato e le minacce di Trump rischiano di indebolirla. Le connessioni economiche non diventano automaticamente connessioni geopolitiche. Per il passaggio occorre la ratifica del Potere politico che ha vincoli e logiche che possono non coincidere con quelli economici.

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