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Un “santino” che nasconde tante ombre

1978-2018. Sul quarantennale di via Fani. Il ricordo di Paolo Morando.

Un “santino” che nasconde tante ombre
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17 Marzo 2018 - 09.54


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di Paolo Morando*

 

Questo articolo, in forma ridotta, è comparso ieri sui quotidiani Alto Adige e Trentino. Ringraziamo l’autore per averci concesso di riprenderlo qui. (pfdi)

 

***

 

Quando la sigla Br ricomparve nel maggio del 1999, per l’omicidio di Massimo D’Antona, in chi aveva vissuto gli anni ’70 la sorpresa precedette l’orrore: le Brigate Rosse? Ma esistono ancora? Esistevano, sì: tre anni dopo uccisero anche Marco Biagi e nel 2003 l’agente della Polfer Emanuele Petri. Poi più nulla. Ma oggi, nel quarantennale di via Fani, serve un po’ di memoria in più: provateci oggi, a spiegare ai “millennials” che cosa furono il compromesso storico, le convergenze parallele, la “strategia dell’attenzione”. Iniziate a raccontargli del fattore K, della linea della fermezza, di Moretti e Gallinari, di Kissinger e Pieczenik. Ma anche della banda della Magliana e di Tony Chichiarelli, quello del finto comunicato del lago della Duchessa. Un’impresa da titani. E poi c’è il caso che vi troviate davanti quello che comunque s’informa. E che potrebbe chiedervi: e allora la ’ndrangheta? E il legionario De Vuono che sparava in quel modo così particolare, proprio come spararono ad Aldo Moro?

Per dire che il groviglio si è fatto sempre più inestricabile, come per la morte di Kennedy a Dallas. Un groviglio per giunta complicato dai lavori dell’ultima Commissione parlamentare d’inchiesta, quella attivatasi in seguito a un pazzesco fake del giudice Imposimato: sì, il candidato dei 5 Stelle per il Quirinale. Eppure la sostanziale inattendibilità del memoriale Morucci-Faranda (cui andrebbe aggiunto il nome del “committente” Cossiga), su cui gli ex brigatisti che hanno “gestito” il sequestro Moro hanno costruito univocamente la loro versione (con opportune approssimazioni successive rispetto ai tanti processi), è stata ampiamente dimostrata da Sergio Flamigni, in più libri che datano ormai qualche decennio. Ma da lì in poi, di passi avanti nella ricostruzione della verità ne sono stati fatti pochi. Anche se si attende a giorni un ulteriore lavoro di Paolo Cucchiarelli che annuncia nuove rivelazioni. Mentre ne è appena uscito uno di Simona Zecchi (La criminalità servente nel Caso Moro) che indaga proprio sul ruolo della criminalità organizzata.

In queste ore le rievocazioni dei 55 giorni più tremendi della storia della Repubblica risuonano ovunque. Senza però che mai venga citata una vecchia canzone di Giorgio Gaber. «Che cos’è la destra / cos’è la sinistra», cantava già nel 1994: versi oggi attuali come non mai. Ma è un brano più datato, quello che qui conta: “Io se fossi Dio”, 1980. Che all’epoca fece scandalo. Il testo recita infatti quanto segue: «E se al mio Dio che ancora si accalora / gli fa rabbia chi spara / gli fa anche rabbia il fatto che un politico qualunque / se gli ha sparato un brigatista / diventa l’unico statista. / Io se fossi Dio / quel Dio di cui ho bisogno come di un miraggio / c’avrei ancora il coraggio di continuare a dire / che Aldo Moro insieme a tutta la Democrazia cristiana / è il responsabile maggiore / di vent’anni di cancrena italiana. / Io se fossi Dio / un Dio incosciente, enormemente saggio / c’avrei anche il coraggio di andare dritto in galera / ma vorrei dire che Aldo Moro resta ancora / quella faccia che era». Il coraggio Gaber lo ha avuto, ma quella sua canzone l’hanno sentita in pochissimi.

Di Gaber la morte ha fatto un “santino”, come sempre accade: basta pensare al commissario Calabresi, di cui ora c’è chi chiede la beatificazione. Di Moro, non ne parliamo. E ci mancherebbe. Ma rievocare oggi la sua tragedia, scegliere cioè solo l’elemento conclusivo della sua biografia, è un’operazione parziale. Ad esempio, Moro riformatore: sicuri? È vero che fu lui a presiedere negli anni ’60 i governi del centrosinistra organico, ma secondo una consolidata storiografia, da Paul Ginsborg in giù, la nazionalizzazione dell’energia e la riforma della scuola prendono le mosse con il precedente governo Fanfani. Ed è proprio l’inanità dei successivi esecutivi Moro, non a caso preceduti dal “rumor di sciabole” del Piano Solo del generale de Lorenzo, a sancire la fine del centrosinistra e portare ai traballanti governi Leone e Rumor, su cui si abbatterà la strage di piazza Fontana. E a proposito di piazza Fontana: non era forse uomo di Moro il Maletti depistatore che, da capo del controspionaggio del Sid, verrà condannato in via definitiva per favoreggiamento nei confronti dei vari Giannettini e Pozzan, consentendone la fuga all’estero?

Moro che apre ai comunisti: davvero? La mattina del 16 marzo 1978 non è solo quella di via Fani, in quelle ore in Parlamento giurava il quarto governo Andreotti costituitosi pochi giorni prima. E la lista dei ministri, un monocolore Dc, tutto era fuorché un tendere la mano al Pci: nomi irricevibili, dopo aver depennato tutti quelli graditi a Botteghe Oscure. Moro disse che sarebbe stato lui, il garante degli accordi con Berlinguer: sta di fatto che furono proprio i governi di unità nazionale a portare alla svolta dell’Eur, alla politica dei sacrifici, all’austerità di cui a pagare le conseguenze prima di chiunque altro saranno gli operai. E fu sempre Moro, parallelamente ad Andreotti, a spiegare all’ambasciatore statunitense Gardner che serviva un governo sostenuto dal Pci proprio per fargli “coprire” politiche che ne avrebbero colpito la base elettorale: lo scopo, dichiarato, era esattamente quello di far perdere milioni di voti ai comunisti superando così lo stallo provocato dalle elezioni del 1976.

Quindi sì al dialogo con il Pci, ma per “sterilizzarlo” e addomesticarlo, elettoralmente e politicamente. Proprio come era stato fatto con i socialisti negli anni ’60. Tutto legittimo, ovvio. Ma nel “santino” degli ultimi quarant’anni poco lo si dice. Senza dimenticare che Moro è anche quello del «non ci lasceremo processare nelle piazze», lo storico discorso nei giorni dello scandalo Lockheed il 9 marzo del 1977, il suo ultimo in Parlamento. E aveva ragione su Gui, che la Corte costituzionale poi assolverà (non così il socialdemocratico Tanassi): ma nonostante la nettezza delle sue parole, a Moro le Camere riunite in seduta comune votarono contro, mandando entrambi gli ex ministri (e non era mai accaduto) a processo alla Consulta.

Nulla di tutto questo spiega naturalmente le ragioni dell’orrore di via Fani e via Caetani, dell’incredibile abbaglio politico delle Brigate Rosse, che credevano di smuovere il Paese trascinandoselo dietro verso il Sol dell’Avvenire. L’effetto, per fortuna, fu invece di ritrovarselo pressoché tutto contro, dopo il credito a lungo goduto tra studenti, operai, in certa intellighenzia di sinistra. Perché quando l’anno prima a Torino uccisero Casalegno, vicedirettore della Stampa, ai cancelli di Mirafiori Giampaolo Pansa raccolse ben poche parole di esecrazione. Nulla spiega neppure del calvario inflitto dai brigatisti a Moro nella “prigione del popolo”, leggibilissimo nelle drammatiche lettere che lo statista inviò a familiari, amici, compagni di partito. Calvario che resta un punto fermo della storia della Repubblica. E che tutti dovrebbero conoscere a menadito, a partire da chi prima o poi ci governerà. Perché l’identità è memoria. Ma memoria tutta: non scegliendo da un menu alla carta, come nei ristoranti.

 

* Paolo Morando, giornalista, vive e lavora a Trento dove è vicecaporedattore del “Trentino”, quotidiano del Gruppo Espresso. Ha contribuito al volume collettaneo Uscire dalla Seconda Repubblica – Una scuola democratica per superare il trentennio di crisi della politica (a cura di Mario Castagna, Carocci 2010). Già docente di giornalismo all’Università di Verona, ha scritto per il trimestrale del Mulino “Problemi dell’informazione” e per la rivista specializzata “Link – Idee per la televisione” di Rti-Mediaset”. Per l’editore Laterza ha pubblicato: Dancing Days 1978-1979. I due anni che hanno cambiato l’Italia (2009) e ’80. L’inizio della barbarie (2016).

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