Francia: quando i Rom eravamo noi

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17 Settembre 2010 - 13.58


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di Zeno Leoni – Megachip.

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In questi giorni di caccia allo zingaro e pulizia etnica d”oltralpe, viene da parafrasare così il libro, poi opera teatrale, di Gian Antonio Stella: “Quando i Rom eravamo noi”. Già. Fra le rotte più ambite dai milioni d”italiani emigrati tra il 1890 e il secondo conflitto mondiale, v”era stata innanzitutto la vicina Francia dello sceriffo Sarkozy e del suo ministro all”emigrazione Eric Besson.

Dove certamente, anche allora, l”accoglienza non era una specialità della casa. Tornando indietro di un secolo, è pacifico ricordare come la geografia indirizzò la transumanza di molti verso regioni quali la ProvenceAlpesCôte d”Azur e la Rhone Alpes. E pure dalle parti dell”Aquitaine, che a Merignac, vicino Bordeaux, ospitava un vecchio campo di concentramento nazista, trisavolo del moderno Cpt, utilizzato dalle autorità locali per trattenere i nuovi arrivi. La storia si ripete.

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Al tempo, molti di noi erano bollati con l”epiteto di français de coni (francesi di Cuneo), italiani che si spacciavano per transalpini; altri con quello di orso per ricordare gli “orsanti”, mendicanti-circensi partiti dall”Appennino parmense, che si esibivano in tutta Europa con scimmie, cammelli e quindi orsi.

Espressioni per nulla offensive, se paragonate al carcamano – non ha bisogno di spiegazioni – in voga nell”allora giovanissima repubblica del Brasile, o al black dago – accoltellatore negro – diffuso in Louisiana e altri stati della civilissima America. Tuttavia, nel sud-est della Francia, i più erano rital. R-ital, voce del gergo popolare francese dall”ingiuriosa connotazione, poteva evidenziare la difficoltà dei nostri nel pronunciare la r moscia, ma anche la personificazione della figura di Arlecchino nei nuovi immigrati, coperti di vestiti rammendati con pezze e stracci. Ritagli, per l”appunto.

Piemontesi, lombardi, liguri ed emiliani, pur di lavorare, avevano accettato di appartenere a un mondo difficile. Fatto di bocche affamate e schiene spezzate, dove il bistrot era veramente una bettola sporca e non il ristorantino chic sugli Champs-Élysées. Quel mondo, c”è stato raccontato in prima persona da Pierre Milza e François Cavanna. L”attualità di “Voyage en Ritalie” e de “Le ritals”, è racchiusa in un emblematico confronto di punti di vista. Fra come l”opinione pubblica francese dipingeva gli italiani negli anni delle prime ondate e come li considerava poi, alla vigilia della prima guerra mondiale.

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Soprattutto dal resoconto storico di Milza, ne emergono due punti di vista agli antipodi. Se a fine novecento l”italiano era il manesco capofamiglia che alloggiava in case lerce da cui “provenivano odori di puzzolenti intingoli”, vent”anni dopo diventava, secondo i francesi, padre modello e gran lavoratore, affezionato alla nuova madrepatria e pronto a difenderla – come accadde – anche di fronte alla guerra. Solo la follia di Mussolini e le violenze del fascismo, riuscirono per un attimo a scalfire la nuova figura del cittadino italiano modello, dividendo la massa francese tra favorevoli e contrari. Siamo di fronte a uno scherzo del destino? No. Ma guardando quegli anni da così lontano, sembra impossibile capire. Gl”italiani, erano i pericolosi straccioni di fine novecento o, piuttosto, gli “italiani brava gente” delle successive ondate migratorie? Nessuno dei due. Oggi in Italia non si parla più degli albanesi, eppure una volta li perseguitavamo. Gli albanesi sono diventati buoni, o non sono mai stati cattivi? La storia si ripete ovunque. Qualcuno fa finta di non capirlo.

 

 

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