Praga saluta Havel simbolo di una rivoluzione dimezzata

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25 Dicembre 2011 - 16.32


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di Francesco Leoncini – ilmanifesto.it

Ieri la città di Praga, sintesi con la sua storia degli splendori e delle tragedie della Mitteleuropa ma anche delle contraddizioni della società contemporanea, ha dato l”ultimo saluto al drammaturgo e allo statista che per oltre due decenni ha rappresentato il suo figlio più illustre ed è stato un protagonista della vita internazionale. 

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Nella conclusione dell”intervista che apparve il 22 agosto 2010 su la Repubblica, Václav Havel rispondendo alla domanda: «Ma per che cosa vorrebbe essere ricordato?» affermava: «Come politico devo dire che sono l”unico presidente della nostra storia a non essere andato via con ignominia. La cosa mi piace». 

A un pubblico non certamente addentro alla storia cecoslovacca questa affermazione è evidentemente passata inosservata e anzi può aver ulteriormente contribuito al consolidamento di quel mito che del personaggio si è costruito in Italia e nel mondo in seguito alla cosiddetta «rivoluzione di velluto», espressione che si è ovunque sostituita all”originario ossimoro ben più pregnante di «rivoluzione delicata o affettuosa».

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Con essa si indica una strategia politica non violenta di accerchiamento del potere, di una sua messa alla berlina, in contrapposizione alla rivoluzione come scontro frontale.

Ma a chi poteva riferirsi Havel con quella affermazione così trionfale? Certamente non a Edvard Benes, che riuscì a portare la Cecoslovacchia, tradita a Monaco nel 1938 da un vile diktat, a sedere tra i vincitori della II Guerra mondiale e da Havel stesso definito «il nostro De Gaulle». Tanto meno egli poteva pensare a Tomás Garrigue Masaryk, una delle figure più luminose della democrazia europea, rieletto negli anni ”30 per la quarta volta alla massima carica dello Stato e proclamato «Presidente Liberatore», da lui stesso sempre richiamato come un Maestro.

Probabilmente si riferiva ai suoi predecessori comunisti, primo fra tutti Gustáv Husák, ma ingenerava l”idea di un Paese (la Cecoslovacchia) disgraziato, spesso definito «artificiale» (ma quali sono gli Stati «naturali»?) e redento solo dalla sua figura. 

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Vi è stato in questo lasso di tempo che va dal dicembre ”89 alle commemorazioni e ai paginoni offerti da tutti i quotidiani al momento della sua scomparsa una glorificazione di questa personalità, che ci potrebbe quasi indurre al grido di «santo subito» di wojtyliana memoria. Ed in effetti in tutto questo periodo chi andava a Praga si imbatteva di frequente nella sua immagine e nelle librerie quello che «di politica» veniva offerto agli stranieri (quindi non in ceco) ruotava attorno a lui e alla sua «epopea». Questa Havelmanie come la definì subito, già nei primi anni ”90 un autore tedesco, pervase gran parte della pubblicistica.

Indubbiamente il suo primo discorso di Capodanno lanciava un messaggio ricco di suggestioni e proponeva una sfida audace e generosa, nella quale al di là dei dovuti richiami a Masaryk, sembrava vibrare un afflato kennedyano. Ovviamente la morale era messa al centro della sua azione politica, ma soprattutto rivendicava l”esigenza inderogabile di fare della politica, non solo l”arte del possibile, ma come il suo Maestro gli aveva insegnato, «l”arte dell”impossibile» in modo che essa contribuisse a «migliorare noi stessi e il mondo».

A poco a poco però non solo in Cecoslovacchia, ma in tutto l”ex blocco sovietico abbacinato dall”improvvisa liberazione, le cose cambiarono. Quella spinta verso una democrazia autentica e radicale, sostanziata di profondi valori morali cade, si rattrapisce, si restringe. Così la democrazia si riduce a parlamentarismo, la libertà a libertà di mercato e la collettività, come fattore di iniziativa politica autonoma, a nazione. E” in questo repentino cambiamento del clima generale che aveva dato vita alla svolta dell”89, è in questo quadro, che definirei di «rivoluzione dimezzata», globalmente riduttivo e regressivo rispetto alla linea di partenza, che matura la prima grande sconfitta per Havel, vale dire la separazione tra cechi e slovacchi e quindi il tradimento stesso di ciò che era stato alla base dell”azione sviluppata dai suoi predecessori democratici.

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Una divisione non inevitabile e sulla quale si sarebbe dovuto indire un referendum, che invece non ci fu, lasciando ai capi dei due partiti di maggioranza relativa delle due componenti nazionali trattare la separazione, come ha scritto Tommaso Di Francesco. All”epoca ci fu chi vide i cechi e il loro profeta Havel agilmente protesi verso gli standard del capitalismo occidentale e gli slovacchi avviluppati nelle spire della vecchia nomenclatura.

La parola «socialismo», accompagnata da quella particolare specificazione «dal volto umano», una tautologia, perché il socialismo nasce per la promozione e la liberazione dell”uomo, come insegna Carlo Rosselli, un”espressione comunque che proprio la Primavera cecoslovacca aveva contribuito a rendere popolare nel mondo, viene espunta dal vocabolario politico e il neoliberismo diventa il «pensiero unico» nella gestione delle società post comuniste.

Havel, partendo da una posizione puramente morale e individualistica ai fini del cambiamento politico e in assenza di un”analisi critica del sistema di mercato, finisce per identificare, dalla metà degli anni ”90, la democrazia con il rispetto della libertà d”iniziativa e il compito del governo con la creazione delle condizioni atte al pieno dispiegamento delle forze economiche. Di conseguenza abbandona la tradizione umanistica ceca, da Jan Hus a Comenio a T.G. Masaryk, alla quale aveva originariamente attinto e aderisce all”ideologia neocapitalista. Quest”ultimo si era apertamente dichiarato a favore del socialismo nei suoi famosi Colloqui con lo scrittore Karel Capek (l”inventore di quella parola robot, tanto espressiva della modernità). Egli aveva precisato che «umanesimo non significa quello che un tempo si chiamava filantropia. La filantropia aiuta solamente qui e là, ma l”umanesimo cerca di migliorare le condizioni di vita tramite le leggi e il governo. Questo è il socialismo». 

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Verso la fine della sua vita Havel confessa che quel suo primo discorso di Capodanno “se dovessimo prenderlo come promessa concreta, dovremmo constatare che non l”ho mantenuta. Io infatti, molto intimamente ed emotivamente, lo vivo come la mia maggior sconfitta e mi pongo continuamente la domanda, cui difficilmente si può rispondere, se avesse senso lanciarmi in tutto questo e se io fossi la persona adatta. (.) Qualche volta ho l”impressione che il fine ultimo del nostro Stato sia quello di sfruttare e sfigurare la nostra terra fino in fondo, nell”interesse di qualche discutibile paradiso dei consumi costruito per la generazione presente, e di prendere a pugni e a calci chiunque tenti di opporsi” (V. Havel, Un uomo al Castello. Intervista con Karel Hvizdala, Edizioni Santi Quaranta 2007, p.175).

Emerge qui la contraddizione di fondo che caratterizza la sua personalità, fatta di slanci e di ammissioni di impotenza. Ma il patrimonio più prezioso che ci ha lasciato è il suo pensiero antitotalitario, quello che si manifesta quando fonda Charta 77 e quando scrive Il potere dei senza potere, pubblicato in italiano nel 1979 dalla piccolissima casa editrice dei padri dehoniani di Bologna, passato del tutto inosservato ai tanti che divennero poi suoi ammiratori, e ristampato da Garzanti nel ”91.

Fu assai utile invece, a due anni di distanza dalla «Biennale del dissenso», pesantemente osteggiata dal Pci, per capire quale fosse la filosofia che sottostava ai movimenti di opposizione che si andavano sviluppando in quei Paesi e che poi ebbero in Solidarnosc il momento di massima visibilità. Alcuni passi li inserii subito in quella raccolta di fonti e documenti che stavo preparando su quei temi e che uscì proprio nel 1989 per Lacaita (L”opposizione all”Est 1956-1981, ora Cafoscarina 2007).

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Si trattava, a detta del dissidente ceco, di dar vita innanzitutto a una rivolta morale e personale, di promuovere una «rivoluzione esistenziale» fondata sulla vita nella verità, che, in conseguenza di una decisione autonoma, mettesse in discussione l”ambiente circostante e mirasse alla costruzione di strutture di «auto-organizzazione» sociale, una vera propria «polis parallela» al fine di pervenire a un sistema post-democratico (sua la sottolineatura).

Havel infatti aveva precisato in quel suo libriccino (un centinaio di pagine in formato tascabile) che «sarebbe stato miope puntare sulla democrazia parlamentare tradizionale come ideale politico e cader vittime dell”illusione che questa forma ”matura” possa garantire stabilmente una condizione dignitosa e indipendente. Io vedo la sterzata dell”attenzione politica verso l”uomo concreto come qualcosa di sostanzialmente profondo del semplice volgersi ai meccanismi consueti della democrazia occidentale (o – se volete – borghese)» (p.97, II ed.).

Da molto tempo vado sostenendo – e il manifesto è l”interocutore, per la sua storia e per il dibattito «La rotta d”Europa» aperto da Rossana Rossanda sulle pagine del giornale – che bisogna dissequestrare i contenuti espressi dai movimenti di opposizione al sistema sovietico dall”ambito spazio-temporale nel quale si sono manifestati e proiettarli in una prospettiva di lungo periodo che permetta di utilizzarli per un”azione di trasformazione politica e culturale nelle attuali società dominate dal «pensiero unico» neoliberista.

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Su questa linea interpretativa si muove anche il volume da me curato e uscito in queste settimane L”Europa del disincanto. Dal ”68 praghese alla crisi del neoliberismo (Rubbettino).

In effetti Havel parla della necessità di un” «altra» cultura e di un”«altra» società, di un”alternativa sociale alla dittatura comunista e nello stesso tempo alle tradizionali democrazie occidentali. Esse appaiono ora più che mai svuotate di qualsiasi connotato che le possa qualificare come «rappresentative». E” un pensiero estremamente attuale che si salda con i movimenti di contestazione che stanno dilagando in tutto il mondo contro la nuova dittatura imposta dai centri di potere economico-finanziario e che esigono la creazione di un controllo «dal basso» delle strutture di governo.

Il «socialismo dal volto umano» della Primavera di Praga, il pensiero «alternativo» di Havel e di Charta 77, l”idea di un «autogoverno dei cittadini», che fu portata avanti a suo tempo da Solidarnosc costituiscono fonti primarie per un”azione volta alla trasformazione degli attuali assetti sociali. Questi movimenti e quelle personalità che li hanno animati non devono essere «celebrati» o «marmorizzati» ma ad essi si deve attingere per dare senso e sostanza a quell”indignazione alla quale il vecchio resistente francese Stéphane Hessel chiama in modo vibrante le nuove generazioni. 

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Francesco Leoncini è Storico dell”Europa centrale all”Università Ca”Foscari di Venezia.

Fonte: http://www.ilmanifesto.it/attualita/notizie/mricN/6136/

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