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Gettare via l”acqua sporca è doveroso. Soprattutto se vi si riflette un volto come quello di Franco Fiorito. Però si sa che non bisognerebbe gettare con quella anche il bambino. Che in questo caso si chiama federalismo. Questa che la Lega ha trasformato in una brutta parola starebbe ad indicare in realtà l”assetto più consono a uno Stato realmente democratico.
Non parliamo, ovviamente, del federalismo immaginato in questi anni da Calderoli e soci, pasticciato, parziale e soprattutto viziato nelle sue fondamenta, posate sul becero egoismo dei ricchi nordisti. Parliamo di un federalismo che serva ad aumentare il civismo e il benessere delle collettività (da non confondere con il “benavere” PIL-dipendente!). In ambito politico, il federalismo può servire ad aumentare la partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica, a ricucire lo strappo tra governanti e governati.
In ambito economico, il federalismo va visto come l”assetto più consono ad una economia della decrescita, o in ogni caso della sostenibilità , poiché può favorire al meglio la dimensione locale dei mercati e degli scambi commerciali, con conseguente riduzione degli impatti ambientali (inquinamento) e sociali (disoccupazione) della globalizzazione.
Come si concilia tutto questo con gli scandali di Fiorito nel Lazio, Formigoni in Lombardia, Iorio in Molise, e via elencando? In che modo la Regione Lazio, e le altre Regioni d”Italia, avrebbero favorito la partecipazione alla cosa pubblica, il dialogo diretto tra governanti e governati, l”economia del benessere? Ovviamente, per nulla. Anzi, da sempre (non solo in questi ultimi anni) chi le ha governate (e chi si è fatto governare.) è andato esattamente nella direzione opposta. Ma questo è accaduto per due ragioni che argomentano a favore, e non contro, quello che potremmo chiamare «federalismo civico del benessere».
Prima ragione, di tipo tecnico: in Italia, non c”è un reale federalismo. Da una parte, c”è un gran pasticcio dovuto alle sovrapposizioni di competenze tra Stato e Regioni. Dall”altra, del federalismo in Italia è stata oggetto di dibattito – a causa della bandiera leghista sotto cui ha avuto luogo – quasi solo la sua dimensione fiscale, che è solo una di quelle sotto cui il federalismo andrebbe considerato, e forse l”ultima.
Seconda ragione, di tipo culturale: l”imbarazzante deficit della classe governante (che fa il paio, insisto, con quello di chi l”ha votata.). L”autista non sa guidare, ovvero amministrare, perché incapace, o, troppo spesso, perché disonesto. Ma non è di certo una buona ragione per cambiare l”auto. Tenendo peraltro presente che il nuovo autista non proverrebbe da una scuola poi così diversa: a macchiarsi delle medesime incapacità e disonestà – e in quale sconcertante modo – sono stati, nel recente passato, anche i rappresentanti del popolo nelle istituzioni statali, da Berlusconi in giù.
Ecco quindi che appare evidente che chi oggi spinge per il neo-centralismo “moralizzatore” – da quale pulpito! – lo fa in realtà per un secondo fine. Quale? Rendere il Paese ancor più prono ai mercati globali. Un unico timoniere ben saldo al suo posto di comando – fedele al verbo della crescita e ai diktat di Bruxelles, che poi a loro volta corrispondono ai diktat di banchieri e finanzieri – è più funzionale allo scopo di rendere l”Italia meglio permeabile a quei diktat. Senza fastidiosi intralci che possano giungere dalla odiata dimensione locale, potenzialmente meno sensibile e ontologicamente inconciliabile con l”imperante Verbo del Mercato Globale.
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