Una pallottola spuntata 8 e ½

Il caso Rodotà rivela gli aspetti più profondi del risultato elettorale di fine febbraio e scopre l’inettitudine di gran parte delle classi dirigenti italiane.

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17 Aprile 2013 - 23.19


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di Pino Cabras Megachip.

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Il decollo della candidatura di Stefano Rodotà alla Presidenza della Repubblica rivela gli aspetti più profondi del risultato elettorale di fine febbraio e scopre l’inettitudine di gran parte delle classi dirigenti italiane, che continuano a sottovalutare la portata storica di queste elezioni perché non sanno più leggere nulla, perché pensano che siano una parentesi, tanto poi si farà come e più di prima. Gli dei accecano coloro che vogliono portare alla rovina. Stavolta gli dei si sono accaniti oltre ogni misura con gli occhi politici di quel povero cocciuto di Pierluigi Bersani, che si è presentato ai grandi elettori quirinalizi del suo partito annunciando, dopo i suoi incontri con il Caimandrillo, la sua carta segreta meravigliosa: niente meno che Franco Marini, presentato come «un uomo che conosce le sofferenze dei lavoratori e in questi tempi di crisi rappresenterebbe un segnale di apertura della politica». E noi, con un groppo in gola, sognamo la scena in milioni di case italiane. Ansiosi per il lavoro? Animo! C’è Marini! Ah, sollievo!


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Questo è il mondo di Bersani. La cosa tragica è che il suo non è stato il classico ballon d’essai, né una machiavellica manovra per bruciare Marini e preparare il terreno ad altri. No, Bersani si è proprio giocato tutta la sua faccia, senza affatto intuire la forza del putiferio che avrebbe fatalmente scatenato, non solo fra la gran massa dei suoi elettori, ma fin dentro i suoi gruppi parlamentari.

Nichi Vendola non ha atteso un minuto per sganciare i voti di SEL da quelli di Berlusconi. Matteo Renzi, che un’idea di dove giri il fumo ce l’ha, non ha aspettato nemmeno lui.

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E aggiungiamo che la rete – leggi milioni di elettori del PD e non solo – travolgerà questo assurdo tentativo in poche ore: per noi è una facile profezia, per i fautori del «segnale di apertura della politica» è una cosa incomprensibile, come sempre. Eppure, per capire che la cosa non poteva funzionare, a questi strateghi bastava ricordarsi due fatti: che il 40% degli operai ha votato le liste di Beppe Grillo, e che Marini è stato allegramente trombato dagli elettori abruzzesi. Le «sofferenze dei lavoratori» avevano trovato le aperture.

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Bersani ascolta ancora quel volpone di Massimo D’Alema, un re Mida all’incontrario che da anni in politica sbaglia sempre tutto, mosse, previsioni, alleanze: un perdente di razza, ancora miracolosamente sorretto da una pertica di spocchia che dal calcagno lo innalza fino al Palazzo.

È presto per capire se e come avremo un governo, ora che dobbiamo aspettare anche l’assestarsi della battaglia per il Quirinale. Ma è già certo che non ci sono margini di consenso né di sufficiente legittimazione per un “governissimo”.

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L’effetto dirompente della candidatura di Rodotà dovrebbe far prendere coscienza ai Cinquestelle dei loro mezzi reali, quando si accorgono che tattica non è affatto sinonimo di tatticismo. Se i parlamentari del M5S prendono l’iniziativa e si ricordano di avere un peso, come hanno fatto adesso, allora cambia tutto lo scenario. E questo può accadere persino per un governo. I saggi che piacciono agli elettori, quegli elettori che vogliono rinnovare la nostra Repubblica, vanno indicati con nomi e cognomi. E intanto, ora, ci vuole un Rodotà.

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