di Emiliano Liuzzi.
Accidenti se Livorno fu comunista, prima del 1921 e dopo la guerra. Forse la più rossa delle città italiane e non è un paradosso che oggi abbia vinto il partito dei Cinque Stelle.
E guai a confondere Livorno con Bologna: Bologna è stata per tanti anni
l’intreccio di più poteri, la Chiesa, la Massoneria e il Partito,
appunto. A Livorno no, ha contato solo il Partito. E
hanno contato le genti di Livorno, il sottoproletariato che andava
dall’orafo e si faceva fare la catena con la falce e martello. Fatti
così. Gente di mare e di forti passioni. Come le libecciate d’inverno.
Nessun obiettivo di spiegare cosa è successo, ma due episodi sì, vanno raccontati. Era il 1960.
Nella Livorno comunista, c’erano due fronti contrapposti: quello di una
parte dei cittadini esasperati e quello della Folgore che nel nome e
nell’insegna, nella baldanza militaresca, evocava un potere
antipopolare, ma soprattutto fascista. La caserma della Folgore spezza a
metà la città , ma ha sempre vissuto una vita propria recintata dal filo
spinato.
Una banale scazzottata per questione di donne fra alcuni
parà e un gruppo di ragazzotti degenerò in una battaglia per la
leggerezza degli ufficiali che mandarono in libera uscita la truppa.
Raccontava Aldo Santini, grande inviato dell’Europeo:
“Quando vedemmo avanzare sull’Aurelia un reparto perfettamente
inquadrato, con gli scarponi da lancio, intuimmo come sarebbe finita. Male.
Non avevamo i telefonini per mettere in guardia la polizia. D’altronde,
il questore era già in campana. Il reparto marciò compatto fino in
piazza Grande, accolto da fischi e sfottò. Qui, a un ordine, i parà si
slacciarono i cinturoni e si aprirono a macchia di leopardo scatenandosi
in un’azione di commando. Vetrine infrante, filobus danneggiati, persone travolte.
La reazione popolare non si fece attendere. Dalla loro sede sciamarono i
portuali che lavoravano ancora a forza di braccia e parevano armadi a
quattro ante. Quando i parà giunsero in piazza Cavallotti, dalle
finestre presero a piovere conche, vasi di terracotta, bottiglie,
pentoloni pieni d’acqua. Fu una battagliaâ€.
A Roma temettero una
sommossa, una rivolta della città contro l’ordine costituito. Finì con
una pace firmata in Comune. Da allora i parà portano il basco amaranto,
colore della città . Ma continuano a ignorarsi coi livornesi.
L’episodio
la dice lunga su cosa sia Livorno. Capace di metabolizzare
l’insofferenza e poi esploderla in rabbia, anche fisica. Città generosa,
fino all’estremo. Siamo nel 1976, e racconto un altro episodio. Tutti i giornalisti del Telegrafo e i tipografi ricevono dalla sera alla mattina una lettera di licenziamento. Attilio Monti, il petroliere nero o “Cavalier artiglioâ€, come lo chiamavano, chiuse il giornale. Aveva già la Nazione e il Telegrafo
era d’impaccio ai suoi piani. Così lo chiuse. I giornalisti la mattina
stessa si costituirono in cooperativa, ma poteva non bastare. Fu il
sindaco comunista a requisire, con un atto storico, il giornale. Lo
requisì. E fu una rivoluzione. Il Telegrafo che fino al giorno prima vendeva 30.000 copie passò alle 60.000.
E accadde perché i livornesi si schierarono a difesa del loro giornale.
I portuali, prima di montare di notte, passavano dalla tipografia a
prendere le copie che avrebbero venduto sulle banchine.
Violenta, generosa. E comunista.
Cosa è rimasto di allora? Quasi tutto. Sono i partiti e i sindaci che
sono cambiati attorno alla città . Ma Livorno è la stessa. Un messaggio
l’ha lanciato e chiaro: non stiamo con Renzi. Siamo nati comunisti e non moriremo democristiani.
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