Spagna: tra il referendum catalano e Podemos

Barcellona: 5 manifestazioni in 4 anni con una partecipazione sempre superiore al milione di persone. E ora Podemos su tutta la Spagna. Il laboratorio diventa interessante

Spagna: tra il referendum catalano e Podemos
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18 Novembre 2014 - 21.27


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di Steven Forti.

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BARCELLONA – Negli ultimi tempi della questione
catalana ne abbiamo parlato in diverse occasioni. E non senza ragioni.
Dal settembre del 2012 la Catalogna è uno dei nervi scoperti della crisi
spagnola: cinque manifestazioni a Barcellona con una partecipazione
sempre superiore al milione di persone negli ultimi quattro anni e mezzo
(la manifestazione del luglio 2010 contro la sentenza del Tribunale
Costituzionale riguardo al nuovo Statuto d’Autonomia, le tre Diades
dell’11 settembre del 2012, del 2013 e del 2014 e la consultazione non
vincolante sull’indipendenza dello scorso 9 novembre) non sono cosa da
poco. Quest’ultima doveva essere il momento clou e così, in un certo senso, è stato. Momento clou, ma non quello “definitivo”.

Il referendum catalano

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Come abbiamo spiegato in un articolo
pubblicato il 21 ottobre scorso, a differenza della Scozia, il
referendum per l’indipendenza della Catalogna ha avuto una genesi e uno
sviluppo ben diversi. Convocato unilateralmente dal governo catalano,
appoggiato anche da alcuni partiti dell’opposizione, a dicembre del 2013
è stato ripetutamente vietato dal governo spagnolo, che si è appellato
all’incostituzionalità di un referendum di questo tipo.

L’ultima possibilità del governatore
catalano Artur Mas per far sì che il referendum si tenesse nella data
stabilita senza incorrere in una sospensione del Tribunale
Costituzionale spagnolo o in un intervento diretto del governo di Madrid
è stata quella di trasformare il referendum in una consultazione non
vincolante, non convocata ufficialmente e basata su di un processo di
partecipazione della cittadinanza. Grazie al lavoro di 40 mila
volontari, domenica 9 novembre sono andati a votare oltre 2 milioni e
300 mila catalani su un censo di 6.228.000 aventi diritto – potevano
votare anche i maggiori di 16 anni, i comunitari residenti in Catalogna
da almeno un anno e gli extracomunitari residenti da almeno tre anni –,
ossia il 36,6% del totale. Alla doppia domanda – “Volete che la
Catalogna sia uno Stato? E in caso affermativo, volete che sia uno Stato
indipendente?” – i sì-sì sono stati l’80,76%, i sì-no il 10,07%, i no
il 4,54% e i voti nulli o in bianco il 3,65%.

Le interpretazioni di questo voto
possono essere molteplici, anche perché, non essendo un referendum
legale e con le necessarie garanzie democratiche, le ragioni
dell’astensione possono essere più d’una. Quello che è certo è che una
buona parte della società catalana si è mobilitata e ha dimostrato di
voler votare, rendendo quanto mai necessario un accordo tra il governo
di Madrid e quello di Barcellona per la convocazione di un referendum
vero e proprio sul modello scozzese o canadese.

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I risultati del 9 novembre hanno però
dimostrato anche che quelli che si sono mobilitati sono stati
soprattutto gli indipendentisti: i voti al doppio sì sono stati difatti
1.861.000, che sono poche migliaia di più di quelli che i partiti
favorevoli all’indipendenza avevano ottenuto alle elezioni regionali del
novembre 2012. Ossia, esiste un importante segmento della società
catalana, circa un terzo, che è a favore dell’indipendenza dalla Spagna –
uno zoccolo duro indipendentista che si consolida, ma non aumenta –,
mentre i restanti due terzi pare che siano contrari o come minimo
scettici. I risultati evidenziano ancora che la situazione è di una
drammatica impasse: da due anni a questa parte non è cambiato
praticamente nulla con i due governi arroccati bene o male sulle stesse
posizioni. Mentre in Scozia la situazione che si è venuta a creare è
stata quella che gli anglosassoni definiscono di win-win in cui nessuno
perde e tutti vincono – Cameron ha mantenuto l’unità del Regno Unito e
Salmond ha ottenuto una maggiore autonomia per la Scozia –, in Catalogna
pare che tutti abbiano perso: Rajoy non è riuscito a impedire la
celebrazione del referendum e ha ricevuto un messaggio chiaro dalla
società catalana, mentre Mas non ha ottenuto la celebrazione di un
referendum legale e non ha ottenuto una partecipazione superiore al 50%
del censo.

In ogni caso, Mas si è salvato in
corner, quando molti lo consideravano un cadavere politico. Una cosa non
da poco, ma che non cambia la situazione. Ora bisognerà vedere se il
governo catalano convocherà elezioni anticipate (e in questo caso se con
una lista unica indipendentista, il che pare ormai difficile; con un
nuovo “Partit del President”, che riunisce dietro Mas il suo partito e
altri settori della società catalana o con ogni partito “soberanista”
per conto proprio) o se deciderà di non sciogliere il Parlamento e
trovare nuovi appoggi per arrivare alla fine della legislatura. C’è lo
scoglio della finanziaria 2015, che ERC, presa in contropiede dal
protagonismo di Mas nel referendum, ha deciso di non appoggiare; ma il
PSC si è proposto come salvagente, anche per rientrare nei giochi
politici catalani, da cui è stato escluso per il suo posizionamento
sulla questione nazionale. A fine novembre Artur Mas ha dichiarato che
renderà pubblica la decisione al riguardo.

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La miopia del Partito Popolare

Quando oltre due milioni di persone
decidono di andare a votare in un referendum non legale e non
autorizzato significa che il problema catalano esiste. Un governo
spagnolo serio ne avrebbe preso atto e avrebbe fatto in modo di evitare
di arrivare a questo punto di quasi non ritorno, facendo delle proposte e
aprendo delle vie di dialogo. Nulla di tutto questo è stato tentato da
Rajoy: l’unica risposta è stata la via legale (un referendum è
incostituzionale e dunque non s’ha da fare) con una giustizializzazione
della politica che ha raggiunto livelli parossistici, come le pressioni
sulla magistratura affinché denunciasse per disobbedienza Mas per non
aver annullato il referendum dopo la sentenza di sospensione del
Tribunale Costituzionale. E non facendo altro che fortificare Mas in
Catalogna: venerdì scorso il Parlamento catalano ha approvato una
mozione in cui si è autoincolpato collettivamente della celebrazione del
referendum. Ancora una volta i due nazionalismi, quello spagnolo e
quello catalano, si retroalimentano.

La miopia politica di Rajoy e del
governo del PP è elevatissima: cercare la resa incondizionata
dell’avversario, senza preoccuparsi di mettere in piedi una campagna
sullo stile del Better together degli unionisti britannici, dimostra
l’assenza di una visione di stato. Forse Rajoy se ne è finalmente reso
conto: le dichiarazioni del presidente spagnolo di domenica scorsa –
“Dovrò spiegare le mie ragioni ai catalani meglio di quel che ho fatto
fino ad ora” – pare che vadano in questa direzione. Ma il tempo a
disposizione è poco perché il 2015 si preannuncia pieno di ostacoli: a
maggio ci saranno le elezioni comunali e regionali (si vota in 13
regioni spagnole su 17) e a novembre le politiche generali. Il Partito
Popolare si gioca la maggioranza assoluta nelle Cortes e il controllo di
regioni importanti, oltre che di città chiave in ambito locale, come
Madrid e Valencia.
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E pare che i sondaggi non siano affatto favorevoli al PP, che secondo un
sondaggio del CIS della prima metà di ottobre, si manterrebbe come
primo partito, ma perderebbe il 16% dei voti, passando dal 44,6% del
2011 al 27,5%. Il PSOE è dato ancora in calo (dal 28,7% al 23,9%, ma con
un lieve miglioramento dopo l’elezione in estate del nuovo segretario
generale, Pedro Sánchez), mentre la grande sorpresa è Podemos come terzo
partito con il 22,5%, che si mangerebbe oltre la metà dell’elettorato
di Izquierda Unida (IU) che dall’11,5% dell’estate del 2013 si
troverebbe con solo il 4,8%.

 

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Una Tangentopoli spagnola?

Ma la crisi del PP è generale: il
ministro della Giustizia Alberto Ruiz-Gallardón si è dimesso a fine
settembre per il fallimento del progetto di legge di riforma dell’aborto
– su cui Pedro Arriola, asessore di Rajoy, ha consigliato di fare
dietro front per il rischio di creare crepe anche nello zoccolo duro
degli elettori di destra – e molti dei dirigenti del PP dell’epoca
Aznar, e ancora strettamente legati all’ex presidente, sono imputati per
importanti casi di corruzione. Ai casi Gürtel – tangenti nel PP di
Madrid e Valencia – e Bárcenas – dal nome dell’ex tesoriere del PP che
ha svelato l’esistenza di una cassa B del partito con vari milioni
all’estero – scoppiati nel 2009 e a inizio 2013, negli ultimi mesi se ne
sono aggiunti molti altri.

Ad inizio ottobre, Miguel Blesa, per
oltre un decennio presidente di Caja Madrid, e Rodrigo Rato, ex
presidente di Bankia (2010-2012), ex direttore del FMI (2004-2007) e ex
ministro dell’Economia nel secondo governo Aznar (2000-2004), sono stati
imputati per lo scandalo di Caja Madrid: tra il 2003 e il 2010 pare che
86 dirigenti della banca madrilena abbiano avuto a disposizione delle
carte di credito opache con cui sono stati spesi oltre 15 milioni di
euro. Vale la pena ricordare che Bankia, nata nel 2011 dalla fusione di
sette casse di risparmio spagnole, la più importante delle quali era
Caja Madrid, venne nazionalizzata nel maggio 2012 a causa di un buco di
23 miliardi di euro, che portò alla richiesta da parte dello stato
spagnolo di un prestito di 100 miliardi di euro al BCE.

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A fine ottobre, poi, nell’ambito
dell’operazione Punica – bustarelle per il valore di 250 milioni di euro
nell’ultimo biennio in cambio di appalti –, è stato arrestato Francisco
Granados, ex segretario generale del PP della regione di Madrid tra
2004 e 2011 e uomo di fiducia di Esperanza Aguirre, il presidente
popolare della provincia di Leon, Marcos Martínez Barazón, e altri
sindaci e assessori del PP della regione madrilena, ma anche alcuni
esponenti del PSOE, come il sindaco della città di Parla. E ancora:
Ángel Acebes, ex ministro degli Interni con Aznar (2002-2004) e ex
segretario generale del PP (2004-2008), è stato imputato il mese scorso
per appropriazione indebita nell’ambito del caso Bárcenas.

Ma i casi sono molti e non coinvolgono
solo il PP, ma tutto il sistema politico spagnolo: il PSOE con il caso
degli ERE in Andalusia, il caso Pokemon in Galizia – dove sono coinvolti
anche il PP e i nazionalisti del BNG – e il caso Mercurio
nell’hinterland barcellonese; il sindacato socialista UGT con il caso
Fernández Villa nelle Asturie; Convergència i Unió (CiU) con il caso
Palau, il caso Pujol e il caso Crespo – che coinvolge anche il Partit
dels Socialistes de Catalunya (PSC) nell’ambito di indagini sulla
corruzione nella sanità catalana –; la stessa famiglia reale con il caso
Nóos che vede imputato il genero dell’ex Re Juan Carlos I, Iñaki
Urdangarín… Nemmeno IU si salva del tutto. Non è un caso che si sia
iniziato a parlare, come ha rilevato in più occasioni il vicedirettore
de La Vanguardia, Enric Juliana, di una Tangentopoli spagnola. E questo è
uno dei fattori che spiega il fenomeno Podemos, che clama contro la
“casta” – il termine di Stella e Rizzo ha fatto scuola… – e la
corruzione del sistema.

 

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Podemos: dalle elezioni europee all’Asamblea Ciudadana di novembre

Podemos è la grande novità della politica spagnola del 2014. Ne abbiamo parlato  il 18 giugno scorso, dopo l’exploit del nuovo partito
alle elezioni europee del mese di maggio (1.245.000 voti, pari al 7,97%
del totale e a 5 seggi nel Parlamento Europeo). Un risultato che nessun
partito con solo cinque mesi di vita aveva mai ottenuto in Spagna; un
partito che ormai conta oltre 250 mila simpatizzanti iscritti alla sua
web e circa mille circoli in tutto il paese. Come evidenziò il manifesto
del nuovo partito, presentato nel gennaio di quest’anno, e intitolato
“Mover ficha: convertir la indignación en cambio político”, Podemos non
nasce dal nulla, ma si collega all’onda lunga dei movimenti sociali
dell’ultimo triennio (gli indignados e il movimento del 15-M, le mareas
contro i tagli all’educazione e alla sanità del biennio successivo, la
Plataforma de Afectados por la Hipoteca). Secondo Pablo Carmona, membro
di Observatorio Metropolitano e portavoce di Ganemos Madrid, una
piattaforma nata dal basso che si presenterà alle prossime elezioni
municipali nella capitale spagnola, Podemos ha saputo raccogliere parte
di quelle richieste e convertire una maggioranza sociale in una
maggioranza politica. Ma ne è anche un superamento: già nel febbraio del
2013 Juan Carlos Monedero, uno dei fondatori di Podemos, aveva
dichiarato che “senza una guida politica, senza un programma e senza
una struttura, anche se abbiamo buone idee, non possiamo risolvere
tutti i problemi in cui ci troviamo sommersi
”. E pare proprio che i
risultati si stiano vedendo: il sondaggio del CIS della prima metà di
ottobre lo dà come terzo partito in Spagna e addirittura come primo
partito in alcune regioni come le Asturie, mentre un più recente
sondaggio di Metroscopia di fine ottobre pone Podemos come primo partito
in intenzione diretta di voto. Un terremoto senza precedenti per un
sistema politico come quello spagnolo fondato sul bipartitismo PSOE-PP,
partiti che governano il paese dal 1982. La paura di un successo di
Podemos è reale ed è dimostrata quotidianamente dagli attacchi che sia
il PP, sia la Confindustria spagnola (la CEOE) sia il PSOE e i mass
media affini gli lanciano, accusandoli di populismo e di bolivarismo.

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Dopo le elezioni europee Podemos è
entrato in un intenso processo di dibattito interno che si è concluso lo
scorso fine settimana. A giugno è stata eletta una direzione “tecnica”
che ha guidato il partito fino al suo primo congresso celebrato il 26 e
27 ottobre nel Palasport di Vistalegre a Madrid e a cui hanno assistito 7
mila persone. Due le proposte presentate: il documento “Claro que
Podemos” firmato da Pablo Iglesias e dal suo gruppo, tra cui si trovano i
principali fondatori di Podemos (Juan Carlos Monedero, Iñigo Errejón,
Carolina Bescansa e Luis Alegre), e “Sumando Podemos” firmato da tre dei
cinque deputati europei eletti a maggio, Pablo Echenique, Teresa
Rodríguez e Lola Sánchez. Le differenze erano soprattutto organizzative:
mentre “Claro que Podemos” era favorevole a una struttura con
un solo segretario generale e a un processo partecipativo che non
perdesse di vista l’efficacia, “Sumando Podemos” proponeva una
segreteria condivisa da tre portavoce e consegnava maggiore potere ai
circoli di base. Ma vi era anche una tensione tra l’equipe di Iglesias e
Izquierda Anticapitalista (IA), piccolo partito nato nel 2009, ma
figlio dell’esperienza di Espacio Alternativo, realtà attiva dal 1995 al
2008: tra i fondatori di Podemos, IA controlla alcuni circoli,
soprattutto a Madrid, e ha tra i suoi dirigenti proprio la eurodeputata
Teresa Rodríguez. Una delle proposte di Iglesias è stata infatti anche
che i membri della struttura di Podemos non possano essere affiliati ad
altre organizzazioni politiche per il rischio palpabile che IA stesse
facendo un lavoro di entrismo nei circoli di Podemos.

 

Dei
250 mila simpatizzanti iscritti alla web di Podemos hanno votato 112
mila persone: “Claro que Podemos” ha ottenuto l’80% dei voti, mentre
“Sumando Podemos” solo il 12%. Un chiaro appoggio alla figura di
Iglesias e alla sua proposta confermato anche la scorsa settimana
nell’Asamblea Ciudadana (Assemblea della Cittadinanza) di Podemos che si
è tenuta al Teatro Nuevo Apolo di Madrid, dopo una settimana di
votazioni – via internet tramite l’impresa Agora Voting – per eleggere i
membri delle strutture del nuovo partito. I votanti sono stati 107
mila, di cui l’88,6% (95.000 voti) sono andati alla lista proposta
dall’equipe di Iglesias, che è stato dunque eletto segretario generale
di Podemos. La struttura del partito è poi composta da un Consejo
Ciudadano (Consiglio della Cittadinanza) formato, oltre che dal
segretario generale, da 62 membri (50% uomini e 50% donne) eletti
nell’Assemblea – la grande maggioranza provenienti dalla lista di
Iglesias –, 17 rappresentanti regionali e 1 membro dei circoli di
Podemos all’estero. Il Consejo Ciudadano si divide in diverse aree di
lavoro (organizzazione, economia, partecipazione, comunicazione,
uguaglianza, ecc.) e eleggerà a breve un Consejo de Coordinación
(Consiglio di Coordinamento) formato da 10-15 persone che gestiranno
l’attività quotidiana del partito.

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Nel suo primo discorso come segretario
generale, Pablo Iglesias ha spiegato la decisione di non presentarsi
alle elezioni municipali di maggio 2015 – per evitare di creare una
“marca” Podemos poco controllabile – e di appoggiare le diverse liste
civiche che sono nate dal basso, come Guanyem Barcelona e Ganemos
Madrid, ma di presentarsi alla regionali dello stesso mese e soprattutto
di puntare alle generali di novembre 2015, con la volontà di vincerle.
Iglesias ha poi ribadito la necessità di iniziare un processo
costituente con l’obiettivo di riformare il sistema nato dalla
transizione alla democrazia perché la Spagna sta vivendo “una crisi di
regime”.

Podemos: discorso e programma

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E questo è uno dei punti chiave che si
ricollega al discorso che facevamo sulla Tangentopoli spagnola e la
crisi generale (politica, istituzionale, sociale, economica…) che vive
il paese iberico. In un contesto di crisi economica durissima con un
tasso di disoccupazione attorno al 25% da oltre tre anni, la corruzione e
la trasparenza sono due dei principali puntelli del discorso di
Podemos: le undici persone contrattate attualmente dal partito e gli
stessi europarlamenti percepiscono un salario di 1.290 euro al mese e la
contabilità del partito, i costi della campagna elettorale (nelle
europee sono stati spesi solo 138.814 euro) e l’utilizzazione dei fondi
concessi dalla UE sono trasparenti e vengono pubblicati nella web di
Podemos.

Il discorso di Podemos può essere letto da molti italiani come qualcosa di paragonabile al Movimento 5 Stelle, ma le differenze sono notevoli, come già scrivevo nell’articolo pubblicato  il 18 giugno. Podemos, e in questo l’equipe di Iglesias è
chiave, ha deciso di non utilizzare strategicamente una terminologia
chiaramente di sinistra per non allontanare possibili votanti di centro
che con la sinistra non si riconoscono direttamente (nei recenti
sondaggi un 17% dei simpatizzanti di Podemos ha dichiarato di aver
votato PP alle ultime elezioni). Lo spiegava bene lo stesso Iglesias a
inizio 2013: “Se metti la parola “sinistra” al tuo partito, non ti
voterà mai una persona il cui nonno è stato fucilato dai repubblicani
nella Guerra Civile”. Così invece di parlare di lotta di classe e
proletariato si preferisce il termine precariato o “pobretariado”
(letteralmente: poverotariato); invece di sinistra-destra si parla di
poveri-ricchi (arriba-abajo, letteralmente quelli in alto e quelli in
basso); invece di oligarchia si parla di casta, in modo simile a Occupy
Wall Street con il discorso del “We are the 99%”.

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Ma il programma di Podemos è chiaramente di sinistra
e anche i suoi contatti e la sua affiliazione nel Parlamento Europeo.
Alle europee di maggio, difatti, Podemos ha appoggiato la candidatura di
Tsipras e i cinque deputati eletti siedono nel Gruppo della Sinistra
Europea. Lo stesso Alexis Tsipras, insieme all’eurodiputata del Bloco de
Esquerda portoghese Marisa Matías, agli ambasciatori della Bolivia e
del Nicaragua e a membri delle ambasciate del Venezuela, dell’Ecuador e
dell’Argentina, del popolo curdo e palestinese, hanno partecipato
all’Asamblea Ciudadana di Podemos della settimana scorsa. Non è affatto
un caso: al di là del gruppo di Izquierda Anticapitalista la cui
provenienza politica è evidente, Pablo Iglesias e i suoi più stretti
collaboratori hanno alle spalle delle esperienze politiche e
professionali nella sinistra spagnola. Formatisi nelle lotte del
movimento no global e poi in quelle contro la guerra in Irak, Iglesias,
Monedero e Errejón, docenti a contratto presso la Facoltà di Scienze
Politiche dell’Università Complutense di Madrid, hanno lavorato come
assessori politici di dirigenti di Izquierda Unida alle elezioni
generali del 2011 (Monedero di Gaspar Llamazares e Iglesias dell’attuale
segretario Cayo Lara) e di governi progressisti latinoamericani (la
Bolivia e l’Ecuador per Errejón e il Venezuela per Iglesias e Monedero).
Nell’autunno del 2013, quando poi si stava lavorando al progetto di
Podemos, Iglesias fece un tentativo con IU per creare una candidatura di
sinistra, ma non ci fu volontà politica da parte del partito di Cayo
Lara.

E il programma presentato alle europee di maggio lo dimostra
chiaramente: difesa del Welfare State, rafforzamento del settore
pubblico, rinazionalizzazione dei settori strategici (telecomunicazioni,
energia, alimentazione, trasporti, sanità, educazione…), fine del
sistema economico spagnolo fondato sul mattone e sul turismo, riforma
del sistema fiscale (con una maggiore tassazione delle grandi fortune,
eliminazione della Sicav, nuova tassa del 30-35% sui beni di lusso…),
lotta contro l’evasione fiscale, aumento del salario minimo, riduzione
della giornata lavorativa a 35 ore, abbassamento dell’età pensionabile a
60 anni, reddito di cittadinanza, ampliamento della partecipazione dei
cittadini alle scelte politiche, democratizzazione delle istituzioni
come il BCE, rinegoziazione del debito pubblico…

Su quest’ultima questione – ma anche su
altre, come le nazionalizzazioni – recentemente ci sono state delle
prese di posizione più moderate: dalla cancellazione del debito pubblico
si è passati a una proposta di una sua ristrutturazione ordinata e
dall’esproprio delle grandi imprese da nazionalizzare si è passati a
parlare di un modello che “regoli i settori strategici per favorire
l’interesse generale”. In una recente intervista a “Diagonal”, Iñigo
Errejón ha spiegato che “Se vuoi davvero una cancellazione del
debito, se lo dici e lo annunci prima ottieni un movimento di capitali
che te lo rende impossibile. Bisogna aprire un processo mediante il
quale possiamo essere capaci di ristrutturare una parte del debito, di
rinegoziarne un’altra, di cancellarne la parte illegittima e di
organizzare un piano di pagamenti che la renda fattibile.
” Allo
stesso tempo, il partito ha incaricato l’elaborazione di un documento
che servirà come base del futuro programma economico a due stimati
economisti di sinistra, Vicenç Navarro e Juan Torres, autori di numerosi
studi, tra cui l’apprezzato Hay alternativas scritto insieme al giovane
deputato di IU Alberto Garzón e pubblicato nel 2011.

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Anche su altre questioni, Podemos ha mantenuto un profilo basso come la questione monarchia-repubblica e la questione catalana.
In entrambe è a favore di un referendum dove siano i cittadini a
decidere. Nel caso catalano, non si è presa una posizione a favore o
contro la consultazione del 9 novembre, ma si è dichiarato di essere a
favore del “diritto di decidere” dei catalani, sottolineando la priorità
delle questioni sociali su quelle nazionali. In un recente articolo
pubblicato su “El País” firmato da Errejón e Gemma Ubasart, si spiegava
che “In uno Stato plurinazionale, solo l’accordo e l’attrattiva
dovrebbero essere il collante per ricostruire ponti, in uno scenario di
costruzione della sovranità popolare in contrapposizione ai poteri delle
minoranze e al diktat finanziario, assunto dalle caste catalana e
spagnola la cui unica patria è la Svizzera
”. E pare che il discorso
abbia già fatto presa: secondo un recente sondaggio del CEO, Podemos
sarebbe il terzo partito per intenzione diretta di voto in Catalogna,
ottenendo 11 deputati alle elezioni regionali e 8 alle politiche
generali (nella sola Catalogna), superando, e non di poco, la
federazione rosso-verde di ICV-EUiA e avvicinandosi al PSC. Tenendo
conto della situazione politica catalana e tenendo conto che in
Catalogna Podemos disponde di meno circoli che nel resto della Spagna,
il risultato è più che notevole.

Podemos ha fatto passi da gigante in
questi primi dieci mesi di vita. Vedremo se riuscirà a mantenersi
all’altezza delle aspettative generate nella società spagnola.

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