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di Giuseppe Masala.
La crisi greca, dopo il fallimento delle trattative per la firma di un nuovo piano d’aiuti delle istituzioni creditrici, ha subito un’accelerazione drammatica che ha portato Atene al limite della paralisi e tiene le istituzioni europee con il fiato sospeso.
Nel fine settimana il governo Tsipras ha chiamato il popolo greco ad esprimere, con un Referendum, la propria volontà sulla firma di un nuovo memorandum d’intesa che prevede ulteriori sacrifici in cambio di un ulteriore prestito. Anche la BCE da Francoforte ha fatto sentire la sua voce, e non di quelle voci che stemperano la tensione. Draghi ha deciso infatti di non alzare il tetto della liquidità d’emergenza verso le banche greche, lasciandolo a 89 miliardi di euro. E’ evidente che in una situazione in cui l’emorragia di liquidità a causa dei prelevamenti della clientela è molto forte, il mancato innalzamento del tetto della liquidità d’emergenza in capo alla BCE equivale alla certezza che ben presto il sistema bancario rimarrà privo di moneta contante.
Proprio questa posizione ha fatto precipitare la situazione, probabilmente ben oltre le intenzioni dei protagonisti.
Infatti il governo greco si è visto costretto nel corso di una riunione d’emergenza a chiudere le borse e le banche per una settimana e a decidere la limitazione dei prelevamenti via bancomat a soli 60 euro al giorno. Questi sviluppi devono essere considerati assolutamente drammatici, perché introducono una limitazione nella circolazione del capitale in uno stato che fa parte di un’area valutaria comune. La limitazione corrisponde a una vera e propria rottura dell’aera monetaria e di fatto implica l’uscita del paese che si è fatto carico di una decisione così drastica dall’area medesima e dunque dalla moneta unica. Come altrimenti potrebbe essere considerata l’introduzione di misure di controllo e limitazioni alla circolazione del capitale in una (ex) area valutaria comune? Con queste limitazioni, la Grecia è già fuori dall’area valutaria e dunque dall’Euro.
Dunque la domanda che è importante porsi è se questa situazione sia reversibile e a quale costo. Introdurre misure che limitano la fiducia nella circolazione del capitale, e addirittura imporre la chiusura delle banche e della borsa, mina alla base il patrimonio più grande delle banche e dei mercati finanziari: la fiducia dei risparmiatori e degli investitori di poter riavere i propri danari.
Non basterà dunque un nuovo eventuale accordo tra governo greco e istituzioni creditrici (UE, FMI, BCE). Sarà necessario rassicurare i risparmiatori e gli investitori che una simile situazione mai più si verificherà . Ma questo può essere fatto con misure altamente costose. In assenza di queste rassicurazioni non può essere escluso che la clientela delle banche continui a non fidarsi di esse, lasciandole nella situazione di collasso nella quale si trovano ora.
E’ ovvio che la firma di un nuovo memorandum d’intesa sarebbe comunque inutile in un paese con il sistema bancario ridotto di fatto in bancarotta.
Insomma, non basterà un voto favorevole all’austerità nel referendum (voto favorevole, tra l’altro, assolutamente non scontato) e la firma di un nuovo, più o meno efficace, memorandum d’intesa tra creditori e stato greco.
Saranno necessarie ulteriori e costosissime misure economiche in favore delle banche per ripristinare la fiducia e dunque per evitare un ulteriore crollo dell’economia greca causato dal malfunzionamento del sistema bancario (basti pensare a cosa accadde a Cipro solo un paio di anni fa).
L’Europa sarà disposta a finanziare tutto questo e la Grecia sarà disposta a dare ulteriori contropartite?
Difficile dirlo a questo punto.
Fonte: http://it.sputniknews.com/economia/20150629/653888.html.
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