Il principato di Renzi

Intervista al prof. Alessandro Pace, presidente del Comitato per il No al referendum. [Giacomo Russo Spena]

Il principato di Renzi
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25 Gennaio 2016 - 21.00


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(a cura) di Giacomo Russo Spena

Il Parlamento ha dato il suo via libera, la parola spetta ai cittadini. Ma attenzione a parlare di “svolte autoritarie” nella riforma costituzionale di Renzi-Boschi, piuttosto Alessandro Pace – professore emerito di diritto costituzionale nell’Università La Sapienza di Roma e presidente del Comitato per il No al referendum – intravvede “un blocco di potere affaristico-finanziario con propaggini piduistiche che, grazie ad una legislazione elettorale drogata, potrebbe reggere per anni con il favore di una minoranza di elettori”. Il comitato è formato tra gli altri da Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Gaetano Azzariti e altri illustri giuristi. Poche risorse economiche e media ostili però, per Pace, la battaglia va comunque combattuta “per la nostra dignità d’uomo, come diceva Calamandrei, e per dare testimonianza della nostra fede nei principi nei quali crediamo: libertà, eguaglianza, pluralismo, democrazia. E per poter tramandare questi valori ai nostri figli e nipoti”. (grs)

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Professore Pace, la riforma voluta dal governo Renzi si compone di due capitoli che costituiscono due facce dello stesso progetto: la revisione della Costituzione e la riforma elettorale. Quali sono i punti più controversi che Lei critica? Il concentramento di potere nella mani del premier? Il monocameralismo?

I punti controversi sono molti. Innanzitutto il ddl Renzi-Boschi nega l’elettività diretta del Senato, ancorché gli venga contraddittoriamente ribadita la spettanza della funzione legislativa e di revisione costituzionale; privilegia la governabilità sulla rappresentatività; elimina i contro-poteri esterni alla Camera senza compensarli con contropoteri interni; riduce il potere d’iniziativa legislativa del Parlamento a vantaggio di quella del Governo; prevede almeno sette/otto tipi diversi di votazione delle leggi ordinarie con conseguenze pregiudizievoli per la funzionalità delle Camere; sottodimensiona la composizione del Senato (100 contro 630) rendendo irrilevante il voto dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune relative alla elezione del Presidente della Repubblica e dei componenti del CSM (mentre per quanto riguarda i giudici della Corte costituzionale ne attribuisce irrazionalmente tre ai 630 deputati e addirittura due ai 100 senatori); pregiudica il corretto adempimento sia delle funzioni dei senatori, divenute part-time, sia quelle ad esse connesse, dei consiglieri regionali e dei sindaci; prevede degli inutili senatori pro-tempore di nomina presidenziale, ancorché il Senato non svolga più quelle alte funzioni che giustificavano la presenza di senatori a vita eletti dal Capo dello Stato. Inoltre ciò che preoccupa di più è il combinato disposto della riforma costituzionale e dell’Italicum (che è il bis del Porcellum), in conseguenza del quale il Premier-segretario conseguirebbe uno smisurato accumulo di poteri.

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La riforma mette veramente a rischio il nostro impianto democratico? Rischiamo una torsione autoritaria o sono le solite boutade?

Se per involuzione autoritaria del sistema si deve intendere – come io intendo – una democrazia autoritaria come quella di Erdogan in Turchia, non avrei tale timore. Vedo piuttosto il rischio di un “principato civile”, quale descritto da Machiavelli, di recente persuasivamente richiamato da Maurizio Viroli. Un principato nel quale «uno privato cittadino» (non si dimentichi che Renzi non è stato ancora democraticamente eletto!) «non per scelleratezza o altra intollerabile violenzia, ma con il favore degli altri suoi cittadini diventa principe della sua patria». E Machiavelli aggiungeva: «con astuzia fortunata». Più che una torsione autoritaria, intravvedo un blocco di potere affaristico-finanziario con propaggini piduistiche che, grazie ad una legislazione elettorale “drogata”, potrebbe reggere per anni ed anni, con il favore di una minoranza di elettori, intorno al 30/35 per cento.

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Secondo lei siamo al tradimento dei nostri Padri costituenti?

Come nel 1997 e nel 2006 siamo piuttosto in presenza di un tentativo “costituente” che, nella vigenza di un’altra costituzione – nella specie la nostra Costituzione del 1947 – è per definizione “illegale”, secondo l’insegnamento, tuttora valido, del grande Santi Romano. Alla luce della Costituzione vigente, la procedura seguita è infatti viziata sia nella forma sia nella sostanza. Nella forma perché essa è stata introdotta dal Governo (non dal Parlamento) e condotta in una legislatura, la XVII, palesemente delegittimata dalla sentenza della Corte costituzionale sul Porcellum: una procedura che è stata condizionata dall’indirizzo politico di maggioranza, con sostituzioni di parlamentari in sede referente, con esclusione del relatore di minoranza al Senato, con emendamenti monstrum ecc. È viziata anche nella sostanza perché contravviene manifestamente a due principi supremi della Costituzione, quello della sovranità popolare e quello della ragionevolezza/razionalità (articoli 1 e 3), che non sono derogabili nemmeno con una legge costituzionale, come statuito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 1146 del 1988.

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Non crede che la vostra battaglia sia conservatrice? Non è giusto rivedere e riformare alcuni punti della Carta Costituzionale? Ad esempio, il bicameralismo in molti Paesi non esiste e la riforma del Senato forse è indispensabile…

Nella mia audizione alla Camera, ho sostenuto che sarebbe stato più logico, anziché conservare questo pseudo bicameralismo, eliminare del tutto il Senato e passare al monocameralismo, a patto però che si prevedessero dei contro-poteri interni, come ad esempio il potere d’inchiesta come diritto delle minoranze, che in Germania esiste sin dal 1919, tranne la parentesi nazista. Ciò premesso, non sono affatto contrario al superamento del bicameralismo paritario, ma non come viene tentato dalla riforma Renzi. Un Senato composto da 100 senatori part-time, per giunta non eletti dal popolo, è una presa in giro che ha risvolti istituzionali gravissimi se, come ho già sottolineato, gli si conferma addirittura la partecipazione all’esercizio della potestà legislativa e di revisione costituzionale.

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Va considerato tra l’altro che in Parlamento vi sono deputati e senatori eletti con una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Hanno la legittimità necessaria per modificare la Costituzione?

Ho ripetutamente sostenuto l’illegittimità della XVII legislatura. Devo però spiegarne le ragioni. La Corte costituzionale, pur dichiarando l’incostituzionalità del Porcellum con la sentenza n. 1 del 2014, consentì espressamente alle Camere di continuare ad operare e a legiferare, non però in forza della legge elettorale dichiarata incostituzionale, bensì grazie a un principio fondamentale del nostro ordinamento conosciuto come il «principio di continuità dello Stato». La Corte richiamò a tal riguardo due esempi di applicazione di tale principio: la prorogatio dei poteri delle Camere, a seguito delle nuove elezioni, finché non vengano convocate le nuove (art. 61 Cost.) e la possibilità delle Camere sciolte di essere appositamente convocate per la conversione in legge di decreti legge (art. 77 comma 2 Cost.). Ebbene, in entrambe tali ipotesi, il «principio fondamentale della continuità dello Stato» incontra limiti di tempo assai brevi, non più di tre mesi. Pertanto, ammesso pure che le nuove elezioni non potessero essere indette nei primi mesi del 2014 perché lo scioglimento delle Camere avrebbe portato alle stelle lo spread nei confronti del Bund tedesco, è però del tutto evidente l’azzardo istituzionale, da parte del Premier Renzi e dell’allora Presidente Napolitano, di iniziare una revisione costituzionale di così ampia portata nonostante la dichiarazione d’incostituzionalità del Porcellum, e quindi con un Parlamento delegittimato quanto meno politicamente, se non anche giuridicamente, con parlamentari non eletti ma “nominati” grazie al Porcellum, insicuri di essere rieletti e perciò ricattabili ed esposti alla mercé del migliore offerente.

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Renzi ha dichiarato: «Se perderò considero fallita la mia esperienza politica». Di fatto, ha trasformato il referendum in un voto politico sulle sorti del governo. Anche per voi del Comitato è così?

In effetti, il premier ha inteso garantire il successo referendario della sua riforma minacciando le sue dimissioni. Ma i problemi devono essere mantenuti distinti. Dall’angolo visuale della riforma costituzionale la risposta di Renzi è significativa: ha esplicitamente ammesso che la paternità della revisione costituzionale è stata non del Parlamento, come avrebbe dovuto essere, ma del governo. Con tutte le storture procedimentali che ci sono state.

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Farete la campagna per il No con Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. Ciò la imbarazza?

Ci saranno almeno due Comitati elettorali per il No, il che non è contraddittorio perché, pur avendo il centro-destra un’idea diversa di Costituzione, lo scopo immediato è lo stesso del nostro, che è quello di impedire l’entrata in vigore della riforma Renzi-Boschi.

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Il No ha veramente possibilità di vincere?

So che è difficilissimo, perché abbiamo pochissime risorse economiche e non abbiamo dalla nostra un guru della comunicazione, come se lo può permettere Renzi. Ma c’è una ragione di fondo: certe battaglie le si devono combattere anche se è difficilissimo vincerle. Le si devono combattere per la nostra “dignità d’uomo”, come diceva Calamandrei, e per dare testimonianza della nostra fede nei principi nei quali crediamo: libertà, eguaglianza, pluralismo, democrazia. E per poter tramandare questi valori ai nostri figli e nipoti.

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(21 gennaio 2016)

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