Referendum costituzionale: questione di gusti

Le fallacie logiche del dibattito sulla riforma costituzionale. [Sandro Vero]

Referendum costituzionale: questione di gusti
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12 Ottobre 2016 - 07.10


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di Sandro Vero

Il dibattito attuale sulla riforma costituzionale tende, nelle frequenti occasioni in cui si sviluppa (specie nello spazio comunicativo della televisione), a somigliare a un dialogo fra sordi. Cosa che probabilmente deriva dalle ragioni vere, e dunque nascoste, della riforma stessa: una sorta di doppiezza concettuale da cui origina una relativa doppiezza argomentativa.

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Tuttavia, è meglio andare con ordine ed evidenziare il carattere peculiare che le due modalità “dimostrative” poste in gioco esprimono.

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Il fronte del sì, compattamente stretto intorno al carisma renziano, è quotidianamente impegnato nell’affermazione dell’indifferibilità di un progetto di modernizzazione del paese, una trasposizione all’interno di un linguaggio più dotto del concetto di “rottamazione” con il quale, pochi anni fa, Renzi cominciò la sua fortuna politica (e, diciamolo, varò la sua campagna di marketing comunicativo alla conquista di una credibilità presso le agenzie forti del potere, nazionali ed europee).

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Il fronte del no è più frastagliato, magmatico, articolato. Come del resto si conviene a un pensiero che resiste, che si oppone, che fa della critica il fulcro originario della sua energia affermativa. Ma come d’altronde si conviene anche a un non-pensiero che sfugge alla necessità della giustezza e si ripara dietro le pantomime della convenienza. In fondo, occorre rammentarlo, a dire “no” sono insieme, sideralmente lontani, Zagrebelsky, Berlusconi e Fratoianni!!!

La struttura logica delle argomentazioni del sì è quanto di più vicino ci sia alla figura del modus ponens, che in logica proposizionale ha un’interpretazione semantica abbastanza vicina alla locuzione: “se a allora b, siccome a!, dunque b”. Vale a dire, un procedimento argomentativo che pone l’accento sull’affermazione dell’antecedente (a) da cui è poi possibile dedurre il conseguente (b).

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Se la riforma costituzionale, che consiste nei punti x,y,z, dà finalmente risposta alle esigenze di snellimento della politica e dei suoi costi, di alleggerimento del peso della burocrazia con il conseguente accorciamento dei tempi per l’intrapresa economica, di semplificazione legislativa con il relativo guadagno della trasparenza della politica rispetto alla legittima domanda di leggibilità da parte del cittadino, se tutto questo agisce nel suo complesso meccanismo sinergico, allora il paese avvierà un inesorabile, irrinunciabile, inestimabile cammino di modernizzazione. Ovvero: potrà stare degnamente in Europa, fare diligentemente i compiti che le saranno assegnati, beneficiare dei dividendi economici e politici che derivano dal far parte di un contesto sovranazionale che richiede, per il suo funzionamento, cessioni parziali di sovranità in cambio di benessere e di protezione.

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Bene. L’argomentazione è esattamente questa: siccome la riforma è a tutta evidenza e in maniera incontrovertibile pensata, scritta, proposta, per dare quelle risposte di cui sopra, dunque il paese (se la voterà) sarà consegnato a un benigno destino di cambiamento (quale?), di modernizzazione (ricordate l’aforisma di Che Guevara che compare spesso fra i post di Facebook?). Chi non la voterà, non vorrà, non vuole, niente di tutto ciò.

La struttura logica delle argomentazioni del no, ridotta all’osso, è invece quanto di più vicino vi sia alla figura del modus tollens, che in logica proposizionale ha un’interpretazione semantica abbastanza vicina alla locuzione “se a allora b, siccome non-b!, allora non-a!”. Vale a dire un procedimento dimostrativo che pone l’accento sulla negazione del conseguente (b), da cui si può dedurre la negazione dell’antecedente (a).

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Se la riforma costituzionale, che sembra tagliare costi e tempi della politica e della burocrazia, si ponesse anche il problema della complessa architettura istituzionale che ha guidato la formulazione della carta da parte dei padri costituenti, vale a dire il problema del controllo dei poteri quale solo può venire da un delicato equilibrio fra legislativo ed esecutivo, fra centro e periferia, allora tale riforma sarebbe o inutile (dal momento che quei tagli sono risibili) o non predisporrebbe la vicenda politica ad assumere forti connotazioni di deriva anti-democratica, plebiscitaria, introducendo meccanismi di eccessivo accentramento di potere nell’esecutivo, specie in combinazione con la legge elettorale vigente.

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Bene. L’argomentazione in questo secondo caso è più o meno questa: siccome il testo renziano predispone il contesto politico a ridursi a un mero teatrino in cui il potere esecutivo dispone della regia, delle luci, del suono, e degli attori che poi daranno vita alla messa in scena, con un senato ridotto al rango di parcheggio per consiglieri regionali e sindaci privi di vere funzioni di controllo, dunque la riforma non si pone il problema di alcuna architettura istituzionale, riducendosi alla sua apparenza ragionieristica di spending review (qualche taglietto) ma introducendo, al contempo, altri sostanziali elementi di spossessamento democratico in linea con quanto già precedentemente fatto: la riforma delle pensioni (governo Monti), il Jobs Act (lo stesso governo Renzi).

Modus ponens e modus tollens. Che dire? È questione di gusti.

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Solo due annotazioni finali: il modus ponens è tipico degli ottimisti e degli apodittici. Se poi queste due caratterizzazioni coincidono la miscela è esplosiva. Il modus tollens è tipico dei pessimisti e degli empirici, che non si accontentano dei pronunciamenti categorici.

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E infine: il modus tollens è la chiave di volta del falsificazionismo popperiano. Vale a dire, di un modo di intendere la scienza che qualche fortuna, suvvia, l’ha avuta.

(12 ottobre 2016)

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