- Si tratta di Democrazia Sovrana Popolare che ha eletto Marco Rizzo come nuovo coordinatore del gruppo. Al suo fianco, in veste di presidente, c’è Francesco Toscano
Intervista a Francesco Toscano a cura di Emiliano Morrone – Corriere della Calabria
Democrazia Sovrana Popolare ha tenuto il suo primo congresso nazionale alla fine dello scorso gennaio. È la nuova formazione politica fondata e guidata da Marco Rizzo, già deputato della Repubblica negli anni ’90, europarlamentare agli inizi del 2000 e da ultimo segretario generale del Partito comunista, di cui è ora presidente onorario. Fondatore e timoniere di Democrazia Sovrana Popolare, indicata con l’acronimo «Dsp», è, insieme a Rizzo, Francesco Toscano: 44 anni, già assessore alla Cultura del Comune di Gioia Tauro, avvocato, giornalista e peraltro ideatore e conduttore di Visione Tv; che ha sede nella stessa città calabrese, conta oltre 250mila iscritti al proprio canale YouTube e propone programmi e confronti su temi geopolitici, economici, finanziari e scientifici di ampia portata.
L’impegno
Da Gioia Tauro, Toscano, che non di rado partecipa ad accesi dibattiti politici su La7, ha da pochi mesi creato una rivista mensile, Visione, coinvolgendo esperti di varie discipline, accademici e intellettuali cosiddetti “controcorrente”. «Dsp – si legge sul sito web ufficiale – è una coalizione di forze che punta, in prospettiva, a tradurre in termini politici coerenti una vasta area della critica al sistema e della resistenza oggi sprovvista di rappresentanza». E di seguito: «La costruzione di una forza politica organizzata, forte di una chiara elaborazione teorica rivoluzionaria, può cambiare i rapporti di forza in favore dei ceti oggi subalterni».
Nuovo punto di vista dal Mezzogiorno
Toscano è dunque tra i leader di un soggetto politico che in parte può dirsi nato a Gioia Tauro, che con propri strumenti informativi e culturali è molto presente nel web, che riempie le piazze reali e che, nel settembre 2022, alle ultime elezioni per il rinnovo del Parlamento ottenne, con la denominazione «Italia Sovrana e Popolare», circa 350mila voti alla Camera e quasi 310mila al Senato. Ci è parso di interesse pubblico, allora, intervistare Toscano – che conosciamo e cui daremo perciò del Tu – e raccoglierne il punto di vista sulle prospettive del Mezzogiorno, sugli scenari politici ed economici italiani, europei e internazionali, senza pregiudizi e nel rispetto della terzietà e del pluralismo dell’informazione. «Per un breve periodo della mia vita, ho provato a impegnarmi nel territorio calabrese, nella speranza che, viste le difficoltà della mia terra, ciò mi preparasse – premette Toscano – a sfide nazionali e anche europee. Penso che quell’esperienza mi abbia forzato, aiutato a razionalizzare le idee rispetto al percorso che stavamo facendo. Sono fiducioso che la nostra battaglia tocchi particolarmente il Sud e che nel Mezzogiorno possa rinascere una passione per la buona politica, per l’impegno diretto». «Dobbiamo permettere – sottolinea – alla parte migliore della nostra società, sempre schiacciata da meccanismi ormai noti, di riprendere una parte di protagonismo e provare a invertire il corso delle cose. Il risveglio e la ripartenza del Meridione, come la riconquista di spazi politici all’interno della nostra regione, può diventare un tassello fondamentale per un processo storico che, a cascata, consenta di migliorare tutta l’Italia».
Qual è, nella tua e nella vostra esperienza, il rapporto fra informazione, cultura e politica?
«Visione Tv nasce in un particolare periodo storico e cresce in una fase ben precisa, caratterizzata da una sorta di violenza argomentativa, coordinata e molto penetrante, di pochi padroni delle parole che impongono i temi e i punti di vista, che colpiscono l’immaginario e il simbolico delle masse intorno a priorità scelte su basi arbitrarie. Non sono marxista, ma non faccio fatica a riconoscere che Marx aveva ragione, quando diceva che in ogni epoca il pensiero dominante è quello delle classi dominanti. Quando si ha a che fare con classi dominanti illuminate, che hanno il senso del limite e sanno gestire i processi decisionali, è un conto; altro è, invece, trovarsi di fronte a classi dominanti esaltate, fanatiche, slegate dal sentire comune».
Cioè?
«Nel periodo psicopandemico, noi abbiamo assistito a una palese torsione autoritaria, applicata da una politica che prostituiva la scienza sull’altare di interessi diversi. Dunque, abbiamo avuto modo di percepire le reali finalità di un circuito mediatico che, parlo in generale, non informa, non spiega, non consente un dibattito fra idee diverse, ma si trasfigura nel braccio violento del potere e quindi diffama in maniera scientifica il pensiero divergente, valida teorie e prassi palesemente discriminatorie e cambia, muta di fatto la natura e il ruolo del suo stesso esistere. Visione Tv nasce e cresce in questo ambito, come mezzo, detto con un’immagine abusata, di resistenza contro il tradimento della missione del sistema mediatico e informativo».
Come dire, l’informazione dei grandi media non ci piace affatto e quindi proviamo a fare da contraltare?
«Visione Tv nasce come un canale YouTube. Noi non abbiamo i soldi degli Elkann né abbiamo avuto modo di investire una quantità di denaro tale da costruire uno strumento di persuasione sulla base della forza finanziaria che si fa mediatica. Nel tempo, abbiamo acquisito stima in parte dell’opinione pubblica. Quando ciò avviene, puoi decidere che cosa farne di questa credibilità. Noi siamo partiti fin dall’inizio quale soggetto culturale e mediatico che, senza infingimenti, si presenta come avanguardia per il cambiamento politico. Anche qui, per usare un’altra immagine abusata, non vogliamo solo raccontare la realtà e interpretarla, ma vogliamo modificarla».
Obiettivo alto ma difficile. Non credi?
«Non ci siamo mai nascosti dietro un dito. Il nostro lavoro mediatico, il nostro tentativo di fare egemonia culturale è finalizzato al cambiamento dei rapporti di forza, che all’interno di un Paese civile e democratico può avvenire dentro il circuito di regole previsto dalla nostra Costituzione, cioè attraverso la partecipazione democratica e la ricerca del consenso. So che sarebbe più comodo compiere scelte diverse. Certamente, sarebbe più utile sul piano della serenità, della stabilità anche finanziaria di un progetto come il nostro, che vive solo di donazioni. Ciò perché la politica è divisiva di per sé: crea odi, rancori, fratture. Quindi, sarebbe molto più semplice, e accarezzeremmo anche alcune pulsioni maggioritarie, recitare il ruolo degli antipolitici, degli anticasta, giocando su un sentimento più istintuale, che sfortunatamente convince un numero importante di cittadini. Però, se lo facessimo, finiremmo soltanto per aggiungere il veleno della mortificazione a quello già esistente. A quel punto, avremmo la coscienza di non aver compiuto il nostro dovere».
Allora?
«Ci presentiamo per quello che siamo, spieghiamo con la massima chiarezza che cosa vogliamo fare e in che modo, cercando di tenere insieme pensiero, cultura e informazione, perché una politica slegata dal pensiero e dalla comunicazione non può che diventare un comitato d’affari, e noi questo non lo vogliamo».
Non temete di risultare elitari all’esterno, visto che oggi conta molto l’immediatezza nel discorso politico, la semplificazione, lo slogan?
«In ogni epoca storica, c’è sempre chi guida l’idea stessa di progresso, chi crea le suggestioni che fanno disputare le masse e anche le dialettiche all’interno delle quali la gente si riconosce o combatte. Ora – specie dopo la caduta del muro di Berlino e l’inizio di un’epoca appaltata all’unipolarismo americano, che il politologo Francis Fukuyama sintetizzava con l’immagine della fine della storia – il pallino della costruzione del pensiero non è nelle mani delle forze politiche».
In che senso?
«I politici sono ridotti al ruolo di pubblicitari che svolgono più o meno consapevolmente il compito di assicurarsi il consenso contingente e temporaneo delle masse mediante tecniche di marketing: una buona immagine, un buon sorriso, un buono slogan, un rivestimento il più possibile edulcorato di una buona idea, di una buona prospettiva e tutto quello che viene loro richiesto».
E perché?
«Non è compito loro stabilire la direzione. Il compito dei Salvini, delle Meloni, delle Schlein, dei Conte, è quello di applicare, ognuno con una sensibilità diversa, la linea di marcia che il decisore vero ha scelto per tutti. Il decisore vero, con gli intellettuali di riferimento, non lo trovi dentro le scuole di partito: non ci sono più le Frattocchie in cui qualche filosofo organico immagini il processo del divenire».
E dove si trova il decisore vero?
«I grandi pensatori di riferimento, i grandi mondi che decidono stanno a Davos. Le sintesi che vengono fatte lì, da uomini di completamento come Yuval Noah Harari, sono poi accettate come verbo dai diversi personaggi politici di differente colore. Cambiano solo le gradazioni: se da Davos parte l’idea che è giunto il momento di forzare una transizione ecologica, allora noi avremo una sinistra che prometterà di tutelare al massimo l’ambiente, sul presupposto che l’uomo stia facendo danni incredibili. Nel contempo, avremo una destra che si esprimerà in maniera favorevole, ma dirà che non si può snaturare o colpire con troppa violenza il mondo degli agricoltori o di quelli che verranno schiacciati da questo processo, ritenuto necessario».
Quante persone comuni conoscono Davos?
«Non molte, ma resta un fatto: l’ordine delle priorità non viene deciso dalle classi politiche, ma viene da lì. E questo vale un po’ per tutto: valeva al tempo della finta crisi economica, quando si diceva che eravamo sull’orlo del default, e vale adesso. Non c’è chi contesta l’ordine, c’è chi lo applica secondo una gradualità differente. Il nostro compito è più ambizioso, perché noi non vogliamo entrare dentro questi panni del burattino buono o del burattino zelante: noi vogliamo andare lì dove si costruisce il processo storico e si mette in discussione la linea di marcia che il manovratore ha deciso per tutti. Per cui il nostro interlocutore non è Conte, non è Schlein, non è Meloni, ma noi abbiamo la presunzione di prendere di petto gli Schwab (Klaus, presidente del Forum economico mondiale, nda) e gli Harari.
Quindi anche la presunzione di mettere in discussione le politiche monetarie?
«Sì. Nel nostro mensile Visione, abbiamo dedicato due numeri ai temi della moneta e del neoliberismo, che trovano ampio interesse negli italiani, rimasti molto colpiti e turbati dalla retromarcia di forze, penso alla Lega e al Movimento Cinque Stelle, che nel 2018 vinsero le elezioni cavalcando l’onda della sovranità monetaria, per poi tradire quel popolo, quelle istanze e finire addirittura accucciati sulle ginocchia di Mario Draghi, cioè l’incarnazione della morsa finanziaria dell’euro».
Insomma, sei e siete “eurocritici”, per usare un neologismo estemporaneo?
«L’ingresso dell’Italia nell’euro ha comportato la fine della nostra sovranità monetaria, cioè la fine della possibilità, per le nostre classi dirigenti, di decidere di volta in volta quali politiche applicare per conseguire risultati di utilità generale: dalla giustizia sociale all’aumento del Pil, a qualsiasi obiettivo politicamente rilevante. L’euro nasce come strumento di lotta di classe da parte dei ricchi contro i poveri».
Per quale motivo lo affermi?
«Quando ai singoli Stati si impedisce, come avvenuto a seguito dell’unificazione monetaria, di poter utilizzare, per esempio, la leva della svalutazione; quando si impone una moneta unica per tutti, anche per Stati molto differenti, di fatto si scarica sempre sui salariati, sui lavoratori, il peso che questa realtà comporta. Dopodiché, all’evidenza che una moneta unica per economie troppo diverse è di per sé irrazionale, si è aggiunta la seconda follia, cioè l’utilizzo di una banca centrale che non serve per garantire il debito degli Stati, ma in sostanza rimane ferma, immobile, mentre gli altri giocano a speculare sulle difficoltà strutturali dei singoli Paesi. È come se qualcuno venisse aggredito e la polizia, anziché intervenire, lasciasse fare il rapinatore e lo guardasse mentre gli altri lo pestano. È la stessa cosa che fa la Banca centrale europea nei confronti dei Paesi in difficoltà, ma il compito di una banca centrale è quello di essere un prestatore di ultima istanza».
Invece?
«Per come è stata costruita questa Europa, la Bce si è limitata ad assecondare gli appetiti delle grandi seduzioni finanziarie private, che si arricchiscono proprio tramite la destabilizzazione degli Stati sovrani. Qualcuno mi dovrebbe spiegare come mai, quando avevamo un debito pubblico più basso di quello di oggi, tutti i giornali aprivano con lo scandalo del debito quale presagio del fallimento, mentre oggi non interessa più a nessuno il suo dato attuale e quello dello spread. Ciò non perché entrambi siano spariti, ma perché per la classe dirigente non è più conveniente inventare un mostro che serva a conseguire risultati politici».
Sarebbe a tuo avviso uno spauracchio?
«Siamo dentro un mondo che vive di menzogne, di falsità, di strumentalizzazioni; che decide in maniera arbitraria quando e se alcuni dati che rimangono lì diventano un problema politico da esasperare mediaticamente. Insomma, siamo nelle mani di un’oligarchia finanziaria europea che, attraverso il più abietto feticismo dei numeri, condanna popoli e nazioni intere alla precarietà, alla povertà e alla disoccupazione permanente. Questo significa l’euro».
Tu anni fa dicevi: «Debito pubblico uguale ricchezza privata». Oggi la pensi nello stesso modo?
«Sempre di più. Chi ha studiato un minimo di finanza funzionale, chi conosce i lavori dell’economista Abba Lerner, ad esempio, sa perfettamente che alla spesa del pubblico corrisponde l’aumento della ricchezza privata. Quando lo Stato aumenta il debito, questi soldi finiscono a imprese e famiglie. Quando si fa il contrario, quando si perseguono politiche di avanzo primario, quando si costringono gli italiani a versare più tasse di quanto lo Stato ne restituisca in beni e servizi, siamo di fronte a un obiettivo impoverimento delle classi medie e proletarie».
Atto di imputazione?
«Il processo di impoverimento collettivo del nostro Paese non è un processo dettato dal caso o dal destino cinico e baro. È invece il risultato di una precisa progettualità politica, che ha trovato in Mario Monti e in Mario Draghi i profeti perfetti di questa nuova mistica. La deindustrializzazione del nostro Paese, con conseguente impoverimento di larghe fette di popolazione, è un progetto politico, non è una crisi economica».
Sarete presenti alle elezioni europee? Sarete candidati? Avrete una vostra lista?
«Stiamo facendo di tutto per essere presenti, sapendo che la partita è complicatissima. Infatti, bisogna raccogliere un numero incredibile di firme: 150mila, di cui 3mila in regioni molto piccole come la Valle d’Aosta, il Molise, la Basilicata. Insomma, è un’impresa ai limiti del possibile. L’alternativa sarebbe trovare un’alleanza con qualche forza europea, però un nuovo emendamento di Fratelli d’Italia sembra impedire la possibilità di partecipare in questo modo. Dunque, rimane soltanto l’ipotesi di riuscire a concludere un’alleanza con forze italiane che godono dell’esenzione perché hanno già propri eletti».
Che cosa vi spinge ad esserci?
«La coscienza della realtà: la follia sembra dilagare e troppe voci spingono nella direzione dell’allargamento del conflitto con la Russia. Vediamo restringersi pericolosamente gli spazi di libertà. Guardiamo con preoccupazione a quelle risoluzioni, votate in Europa, in cui si cerca di criminalizzare la posizione legittima di chi lavora per la diplomazia e per la pace e non intende proseguire il muro contro muro con la Russia. Vediamo come questo maccartismo sia oramai preda di un numero non irrilevante di persone, che purtroppo godono di un prestigio immeritato nel nostro Paese. Perciò, pensiamo di poter rappresentare una forza quasi catecontica, frenante rispetto al dilagare del male e della follia che vediamo invadere i centri decisionali del nostro Paese».
Che cosa vi proponete?
«Faremo di tutto per essere presenti e dare rappresentanza a un numero importante di italiani che non vogliono l’invio di armi in Ucraina; che non vogliono assecondare la narrazione bellicista e fanatica dei soliti neocon; che vogliono immaginare l’apertura di un mondo multipolare che riesca finalmente ad archiviare per sempre una lunga stagione di guerre targate Nato, spacciate come missioni civilizzatrici benché risultato di una tendenza degli Stati Uniti e dei loro alleati vassalli a immaginarsi come l’unica civiltà possibile, costretta a difendersi da un mondo di barbari. Questa visione della vita e delle cose, fondamentalmente razzista e sbagliata, è alla base di tutte le guerre e di tutti i drammi che abbiamo notato e seguito dalla caduta del muro di Berlino in poi».
Come vedi l’Europa nel quadro internazionale?
«L’Europa di oggi non conta affatto, anche perché è stata pensata proprio per non contare nulla. C’è un bel libro di Zbigniew Brzezinski, che si chiama “La grande scacchiera”, in cui si spiega precisamente il compito dell’Europa da un osservatorio degli Usa. La tesi di questo famoso politologo, molto influente, è che l’Europa deve essere una specie di accrocco burocratico, che va favorita la costruzione di una sovrastruttura tecnocratica in cui ogni singola nazione europea non possa fare: né un passo avanti nella direzione dell’unità politica, che metterebbe in discussione il primato statunitense; né un passo indietro nella direzione del recupero di sovranità, che ostacolerebbe la nuova idea di potere e di dominio globale sviluppata dagli americani».
Globalismo, apertura incondizionata dei mercati, cancellazione delle identità territoriali. Secondo voi sono questi i nemici da sconfiggere?
«Il globalismo è già fallito. Esso non è altro che la pretesa della civiltà occidentale, in particolare anglosassone, di avvertirsi come l’unica possibile. Quindi la globalizzazione si realizza applicando metodi, strutture, convincimenti, prassi, valori e tic tipici della sola società occidentale, facendo finta che essi siano riconosciuti come universali da tutti i popoli della Terra. La globalizzazione partiva da presupposti tutti sbagliati. Si diceva che l’apertura al liberismo della Cina avrebbe portato quel Paese, prima o poi, a diventare liberale anche sul piano delle istituzioni politiche, cosa che non è mai accaduta e probabilmente mai accadrà. Ci dicevano che le teorie del “Washington consensus” avrebbero infine garantito a tutti i popoli, anche quelli più poveri, di riuscire a tirarsi fuori dalla precarietà, dalla difficoltà, per diventare ricchi e prosperi».
E poi?
«Abbiamo visto che niente di tutto questo è accaduto. I neoliberisti si limitano solo a fare opera di rapina nelle nazioni più deboli, controllate per il tramite di “pupazzi”. In realtà, non c’è stata alcuna vera redistribuzione della ricchezza. Non c’è stata una vera redistribuzione della ricchezza su un piano complessivo e neanche all’interno delle stesse società occidentali, che hanno visto negli ultimi 30 anni aumentare le diseguaglianze in maniera poderosa».
E fuori dall’Occidente?
«Alcuni Stati sono riusciti in autonomia, e non grazie all’aiuto delle società occidentali, a crescere in maniera significativa. Alcune nazioni del cosiddetto “Sud globale” sono arrivate a immaginare una solidarietà orizzontale, fra di loro, che mette in discussione il sistema costruito e cristallizzato dagli occidentali a proprio uso e consumo. Oggi i Paesi del Brics fanno tanta paura perché manifestano il desiderio, di importanti nazioni in crescita, di liberarsi dal giogo occidentale».
Che cosa pensi del recente arrivo in Calabria della presidente del Consiglio, per la firma dell’accordo sul Fondo per lo sviluppo e la coesione con il presidente della Regione Calabria?
«È folclore, è teatro, non è politica. Come sta veramente la Calabria lo sa qualsiasi cittadino che va in Pronto soccorso, in cui trova file interminabili e rischia di non essere visitato per ore. Questa è la realtà che conta. Le Regioni hanno soprattutto il compito di amministrare la sanità, di garantire ai cittadini i servizi indispensabili, spesso anche per la salvaguardia della vita. Provate ad andare in qualsiasi ospedale, non solo in Calabria, e poi ditemi qual è il livello della sanità, delle nostre strutture, del nostro Welfare. Mi dispiace constatare che i cittadini, manipolati dalla propaganda, non si rendano conto dello sfacelo complessivo che si consuma sotto gli occhi di noi tutti».
Voi siete di centrodestra o di centrosinistra?
«Sono dicotomie senza senso, svuotate di qualsiasi contenuto. La direzione di marcia è unica. Anzi, alcune volte il vero decisore, di cui ho detto prima, appalta politiche antipopolari al centrosinistra, anche perché, mi pare lo dicesse Gianni Agnelli, il sangue sul rosso non si vede. D’altro canto, l’obbligo di accettare alcuni cambiamenti sul piano valoriale viene consegnato a forme di finto centrodestra. Ma, diciamoci la verità, noi siamo di fronte a un progetto storico che prevede di seguire due direttrici principali».
Quali sono?
«La prima, sul piano strettamente economico e materiale dei rapporti di forza in senso marxiano, prevede la prosecuzione di una lotta di classe dall’alto contro il basso, cioè di pochi milionari globalizzati contro le masse lavoratrici, il ceto medio e proletario, che devono essere di fatto svuotati, impoveriti e ridotti in una condizione di nuova servitù della gleba. La seconda, sul piano invece dei valori, sul piano culturale, sul piano di quella che Adorno chiamava l’industria culturale, cioè l’egemonia del simbolico, è appaltata alle cosiddette sinistre fucsia».
Allora?
«La sinistra accetta di riconoscere il predominio delle finte destre sul piano di un mercato vissuto in termini darwinisti, in cui lo Stato si limita soltanto ad assecondare la furia del più forte e del più feroce che si accanisce contro il più debole, in molti casi anche il più onesto. Dal canto suo, la destra, per ricambiare il favore, non si oppone in maniera adeguata alle pulsioni woke, genderiste, politicamente corrette, della trasformazione in diritto di ogni capriccio, tipica delle annoiate classi globaliste sovranazionali che, una volta conquistata l’agognata serenità materiale, possono passare il proprio tempo ad arredare l’anima, cercando di inventare fantasiosi diritti che vengono poi imposti come requisiti per entrare nella civiltà compiuta. Dentro questo schema, si racchiudono tutte le finte dicotomie di una destra e di una sinistra che rispondono agli stessi centri di potere».
Qual è il tuo giudizio sull’autonomia differenziata?
«Per come la stanno pensando e preparando i big del governo Meloni, mi sembra solo l’ennesimo spazio a uso e consumo di Salvini. Ma sono convinto che il problema vero del nostro Paese non è questo, perché senza sovranità non c’è autonomia. Che senso ha parlare di redistribuzione interna e di autonomia, in un Paese che non è in grado di decidere le proprie politiche economiche, che non possiede una moneta sovrana, che non ha una banca centrale di ultima istanza, che non è in grado di stabilire alcunché, sul piano economico e finanziario, senza essere bacchettata dai padroni di Bruxelles e Francoforte?»
Poni questioni di sistema molto complesse. A livello territoriale, siete presenti sulle necessità di ogni giorno?
«Noi abbiamo un approccio che tende ad affrontare i problemi partendo dalla causa principale. Forse questo ci penalizza sul piano strettamente elettorale, perché spesso i cittadini hanno la sensazione che le cose concrete siano altre. Ma tutto quello che accade nel piccolo è il risultato delle scelte al livello più grande. Anche la decisione di tagliare gli ospedali, la decisione di tagliare le pensioni, la decisione di colpire il Welfare, è il risultato non di crisi contingenti, ma di politiche di fondo che vengono prese a un livello più alto. È vero che spesso ci concentriamo sulle grandi questioni di fondo e lasciamo a livello più marginale quelle che vengono vissute come importanti in ambiti di prossimità. In questo senso, noi potremmo trovare un insegnamento nella lezione sturziana, nel concetto di sussidiarietà e nel potenziamento delle strutture locali. Potremmo attuare, cioè, una politica che, anche nello spazio territoriale, torni a dare risposte ai cittadini, a garantirne una maggiore presenza nei processi decisionali. Ai cittadini bisogna spiegare che la partecipazione democratica è indispensabile, per costruire una democrazia compiuta». (redazione@corrierecal.it)