Al-Qa'ida, si sgretola anche il “brand”

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8 Marzo 2011 - 23.02


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di Alessandro Cisilin – «Il Fatto Quotidiano».

A denunciare l””ombra di Al-Qa”ida” nelle situazioni di violenza e di insurrezione sono rimasti solamente il colonnello Gheddafi e il ministro Maroni, con l”eco di qualche reporter filogovernativo inchiodato alla “guerra al terrore” lanciata nel 2001. Eppure sono passati ormai sette anni dal corposo documentario della Bbc (“The Power of Nightmares”, premiato anche a Cannes), che dimostrò l”insussistenza della rete terroristica aldilà di una cerchia risicata di uomini vicinissimi a Osama Bin Laden, ammesso che – dato tutt”altro che scontato stando anche a fonti di intelligence – egli stesso sia ancora in vita.

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Allo scetticismo di allora fece seguito una progressiva e pressoché unanime presa di coscienza tra gli analisti circa la “crisi di Al-Qa”ida”, documentata dalla crescente disaffezione dell”opinione pubblica musulmana nei sondaggi di tutto il mondo, nonché dal calo degli attentati al di fuori dei contesti bellici in Afganistan e Iraq. Chi insiste a mantenere in vita il mito fa leva sulla formula della “struttura decentralizzata”, non più solo in fase operativa, ma anche in quella decisionale. Una specie di “brand”, dunque, o poco più.

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Le schedature ufficiali lo confermano.

Il Pentagono, nell”ultimo aggiornamento del novembre scorso, elenca quarantasette “organizzazioni terroristiche” nel mondo; tra queste, non una ma quattro porterebbero il nome di Al Qa”ida (quella “originaria” nell”Asia del Sud, “in Iraq”, “nella Penisola Arabica”, “nel Maghreb Islamico”), smentendone così la natura unitaria e la stessa architrave tracciata dai suoi ideologhi, ovvero l”orizzonte (inedito nella storia) di un “Califfato” unitario.

Quella scomposizione risulta poi territorialmente generosa, dato che ad esempio Al Qa”ida per il Maghreb agisce nella sola Algeria, sconfinando tuttalpiù nelle aree desertiche del Sud. Ancor più fragile appare la geografia delineata dall”Unione Europea con un elenco, sostanzialmente inchiodato al 2002, che mette insieme centinaia di sigle di movimenti radicali (ma anche di società e call center, con tanto di indirizzi e numeri di telefono, in particolare tra Afganistan e Pakistan, Somalia e Dubai), associandoli tutti “ad Al Qa”ida e ai talebani”, nonostante le esplicite prese di distanza degli interessati.

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Eloquente è proprio il caso del Libyan Islamic Fighting Group, ritenuto l”epicentro dell”estremismo islamico a Tripoli, nonché dei più efferati attentati nell”area incluso quello a Gheddafi nel ”96. Esserne membro implica dieci anni di reclusione nella legislazione antiterrorismo britannica, mentre la Libia, dopo averne incarcerati un centinaio, li ha quasi tutti rilasciati negli ultimi tre anni nel tentativo di placarne la minaccia eversiva. La loro associazione al qa”idismo era stata desunta nelle cancellerie occidentali (e nella lista nera nell”Onu) dalle origini nell”attività antisovietica a fianco dei mujaheddin afgani.

Eppure, quando il braccio destro di Bin Laden al-Zawahiri ne dichiarò nel 2008 l”affiliazione, venne sommerso da una catena di smentite, inclusa quella di uno dei leader storici del movimento, Noman Benotman, che ha poi rigettato l”idea stessa della “jihad violenta”, ritenuta “contraria all”interpretazione sunnita dell”Islam” alla quale dice di ispirarsi Al Qa”ida.

Curiosamente, lo stesso Benotman, sospettato perfino di aver architettato la strage di Lockerbie nell”88, oggi lavora per l”antiterrorismo di Londra. E cosa rimane allora di Al Qa”ida? Da quel che risulta, alcune centinaia di uomini impegnati a fianco dei talebani nelle aree sud-asiatiche contese con l”Isaf. Null”altro che una “base” militare, dunque, come indica l”etimo arabo, che semplicemente combatte dove c”è la guerra. Una base lontanissima, geograficamente e ideologicamente, dalle piazze del Nordafrica, oltre che dall”Islam.

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Fonte: «Il Fatto Quotidiano», 4 marzo 2011.

Articolo correlato: Un ex capo degli 007 francesi demolisce il mito del “pericolo Bin Laden”.

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